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GIORNALE STORICO DELLA LETTERATURA ITALIANA DIRETTO E REDATTO DA 1 1893 FRANCESCO NOVATI e RODOLFO RENIER TORINO ERMANNO LOESCHER FIRENZE ROMA Via Tornabuoni , 20 Via del Corso, 307 1893 காதி 616
SOMMARIO
LUZIO-RENIER, Niccolò da Correggio (in continuazione) (15. IX. '92) * GIUSEPPE MALAGOLI, Carlo Cantoni umorista e favoleggiatore del sec. XVIII (20. XI. '92) GIOVANNI MESTICA, Il Canzoniere del Petrarca nel codice originale a riscontro col ms. del Bembo e con l'edizione aldina del 1501 ( 27. I. '93) VARIETA FRANCESCO FLAMINI, Il luogo di nascita di madonna Laura e la topografia del Canzoniere petrarchesco (26. II. '93) VITTORIO CIAN, Di Giovanni Muzzarelli e d'una sua operetta inedita (13. I. '98) RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 1 VITTORIO ROSSI. GIUSEPPE CASTELLI, La vita e le opere di Cecco d'Ascoli (27. XII. '92) FRANCESCO NOVATI. HENRY COCHIN, Un ami de Pétrarque. Lettres de Francesco Nelli à Pétrarque (11. II . '93) HENRI HAUVETTE. Pag. 205 265 300 335 358 385 400 — OSCAR HECKER , Die Berliner Decameron- Handschrift und ihr Verhältniss zum Codice Mannelli ( 18. III . '93) . 407 FRANCESCO FLAMINI. GIUSEPPE LESCA , Giovannantonio Campano detto l'Episcopus Aprutinus (5. IV. '93) 411 VITTORIO CIAN 1FRANCESCO NITTI, Leone X e la sua politica secondo documenti e carteggi (9. IV. '93) 416 - ORAZIO BACCI. GIACOMO LEOPARDI , 1 Canti , ed. A. Straccali. G. LEOPARDI , I Canti, ed. E. Castagnola. C. TRIVERO , Saggio di commento estetico al Leopardi. 1 G. A. CESAREO, Nuove ricerche su la vita e le opere di Giacomo Leopardi (8. III. '93) . 422 Bollettino bibliografico 435 Si parla di: C. Joret .1G. Cozza-Luzi V. Catenacci -L. Biadene M. Menghini. Comunicazioni ed appunti . Francesco d' Amaretto Mannelli ( F. Novati). 1 G. Pateclo B P. Amato · A. del Palais (A. Restori). Una nota dantesca (N. Tamassia). Sonetti politici del cav. Marino a Carlo Emanuele I (G. Rua). Cronaca 451 462 A fine di evitare le possibili polemiche di priorità con le altre riviste, crediamo utile di indicare sempre nel sommario il giorno in cui ciascun manoscritto pervenne alla Direzione. 11 Giornale storico della letteratura italiana si pubblica in quattro fascicoli , due doppi (estate e autunno) e due semplici (primavera ed inverno), in modo da formare ogni anno due bei volumi. Il primo di questi volumi risulta del fascicolo semplice primaverile e del doppio estivo ; il secondo, del doppio autunnale e del semplice d'inverno. I fascicoli doppi sono di 20 fogli di stampa; i semplici di 10. Per l'Italia .... Per l'Estero . per un semestre L. 16 per un anno ... > 30 per un semestre . » 18 per un anno ... » 33 Le associazioni si ricevono presso tutti i principali librai d'Italia e dell'estero e presso la Casa editrice ERMANNO LOESCHER, Corso Vittorio Emanuele, N. 16. TORINO. Prezzo complessivo delle annate I-X (voll . I a XX) ridotto da L. 270 a L. 180. GIORNALE STORICO DELLA LETTERATURA ITALIANA VOLUME XXI. (10 semestre 1893). GIORNALE STORICO DELLA LETTERATURA ITALIANA DIRETTO E REDATTO DA FRANCESCO NOVATI E RODOLFO RENIER. VOLUME XXI. TORINO ERMANNO LOESCHER FIRENZE ROMA Via Tornabuoni , 20 Via del Corso , 307 1893. 1 PROPRIETÀ LETTERARIA Torino - VINCENZO BONA, Tip. di S. M. e de'RR. Principi . Bayerische Staatsbibliothek München
ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA
Io aveva riunito buon numero di lettere scritte e ricevute dal Valla , e mi disponeva a divulgarle quando fui prevenuto dal prof. R. Sabbadini. Esso fra le « Pubblicazioni del R. Istituto di << studii superiori di Firenze » stampò alla fine del 1891 le Cronologie del Panormita e del Valla, inserendo nella seconda la maggior parte delle lettere da me raccolte, e ci documentò la tesi di laurea su Lorenzo Valla, composta nel 1873 da Luciano Barozzi poco dopo defunto. Se avessi avuto sentore del libro preparato dal S. gli avrei offerte l'epistole di Lorenzo rimastegli sconosciute. Il S., ch'ebbe occasione di scrivermi e sapeva pronta per la stampa la mia vita del grand'uomo, poteva interrogarmi se nel cercare documenti per narrarla io aveva avuta la fortuna di rintracciarne qualcheduno a lui sfuggito, e comunicarmene altri a me sconosciuti. Preferì di tacere : così sono rimasti meno completi i nostri due lavori. Dando ora alla luce le lettere del Valla non pubblicate dal S., approfitto della circostanza per aggiungere alcune osservazioni sulla Cronologia del Valla da lui compilata e sulle Censure alla Vita scritta da me e stampate nel vol. XIX di questo stesso Giornale. Seguendo l'esempio del S. indicherò con SC. la Cronologia, con SR. quella che dirò Recensione del mio libro e tale doveva essere, ma invece è l'apologia delle congetture del S. stesso. Con M. citerò la mia Vita del Valla. Nove delle lettere ora stampate furono impresse ai primi del secolo XVI nel volumetto di fogli 28, intitolato : Laurentii ValGiornale storico , XXI, fasc . 61. 1 2 G. MANCINI lensis oratoris clarissimi opuscula quædam nuper in lucem edita, Venetiis, De Pensis, 1503. Credo straordinariamente rara l'edizione (1 ) non trovandola menzionata da quanti mi precederono nello scrivere sul Valla. Non la citò nella sua tesi , ma certamente la conobbe il Barozzi , che studio in Firenze e sul catalogo della biblioteca Nazionale dovè vederne il titolo fra diverse opere del Valla , e richiesto il libro , come poi successe a me, v'avrà letta l'epistola al Serra ristampata dal S. (SC. , 81 ) colla direzione a Giovanni Serra data da un codice Vaticano. Il S. dapprima credè che il Barozzi equivocasse nel dire la lettera indirizzata a Bernardo Serra ( SC. , 213 , 240) ; poi , volendo identificare il Serra con una persona ricordata dal Valla , ha trasformato in Serrense il cognome Serra ed affermato destinatario dell'epistola certo Giovanni Scerense prælustrem ex Aragonia virum , il quale disputò una volta col Valla , sostenendo che meglio di Seneca molti quattrocentisti usavano e conoscevano il latino non parlato mai dal filosofo (2) . Su tal fondamento il S. asseri lo Scerense , Serrense Serra essere la medesima persona (3). Ignoro quali motivi condussero il Barozzi a credere il Serra denominato Bernardo , io vi fui indotto dal sapere esistito un frate cistercense di questo nome e cognome, maestro in teologia, elemosiniere del re Alfonso, segretario apostolico, e man- (1) N' esiste copia nella biblioteca Nazionale di Firenze. Precede una dedica ai giovani veneti di Benedetto prete , il quale dichiara d'aver trovati a Napoli , mentre vi studiava , parte degli scritti del Valla che stampa , e a Roma il rimanente. Custodi per lunghi anni gli uni e gli altri presso di sè. Segue Epistola Serræ suo , f. Aii-Bii , Locorum ex Alexandro, De conficiendis epistolis, Epistolarum familiarium liber primus, Errata- corrige. Le lettere sono undici, bensì una al Biondi è stampata in Principum epistolæ, ed altra al Decembrio in SC. , 75. (2) (SR. , 406). VALLE, Opera, Basilea, 1540, p. 463. (3) Per evitare queste metamorfosi poteva il S. dire la lettera diretta a Giovanni Serra copista e custode dei libri del re Alfonso nel 1437 (Arch. stor. per le prov. Napol. , vol . VI, p. 4). Un Giovanni Serra, autore d'un libretto De rethorica conservato nella biblioteca Colombina di Siviglia , è menzionato dall'ANTONIO, Bibl. hispana nova, Matriti, 1783, vol . I, p. 778. Unde homo ignotus mihi ? si chiede l'Antonio a proposito del Serra. ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 3 dato almeno due volte oratore del re a Basilea , dove Lorenzo diresse l'epistola . Comunque la lettera si trovi intestata sul codice Vaticano Ottoboniano 2075, la credo scritta a Bernardo. Le varie volte nelle quali Lorenzo ricorda frate Bernardo non lo qualifica mai aragonese illustrissimo , lo chiama semplicemente il suo Serra , e siccome il frate andò due volte in Svizzera e vi portò le Eleganze dell'amico , è naturale giudicare l'epistola destinata allo studioso frate , non all' illustrissimo Scerense da nessuno detto presente al concilio, e di cui bisogna industriosamente alterare il cognome in Serrense per poterlo infine ridurre a Serra. Qualcuno obbietterà che nel cod. Vaticano il Serra è denominato Giovanni ; ma non può farsene caso chi ha notizia delle alterazioni dei nomi riscontrate nei codici e dovute agli amanuensi. Ne recherò un esempio. In una lettera del Valla trascritta sul cod. Ambrosiano G. 109 inf. , f. 34, trovai dominus Nicænus, cioè il card. Bessarione , trasformato in dominus Nicomedes , nè seppi indovinare chi fosse la persona menzionata (SC., 119 M., 250). - Il nome del Serra motivò poi un'accusa immeritata del S. Egli, ricordatomi << il dovere di generosità » di citare insieme alle prime fonti le persone dalle quali furono additate , afferma che a proposito di Bernardo omisi « poco innocentemente » di citare il Vahlen , onde appropriarmi il merito dell'indicazione dovuta al valente professore di Berlino ( SR. , 405) . In verità la scoperta non mi sembra tanto peregrina da occultarne l'inventore per usurpargliene la lode. Lessi io pure lo Zurita e vi trovai menzionato tre volte Bernardo Serra, due quale oratore al concilio, ed una al papa ; quindi cercando il nome dell'elemosiniere regio da Pio II detto morto di peste a Basilea, ricerca omessa dal Vahlen, vidi ricordato Bernardo negli atti conciliari del Martene e del Mansi, e citai queste fonti : ma dimenticai il Vahlen, che peraltro ho sovente citato ed elogiato alla pari degli altri scrittori dai quali furono illustrate la vita e le opere del Valla: tanto era lontano dal pretendere di fare mie le loro benemerenze. Ed ora m'occuperò d'altre osservazioni del S. e dubito di riu- 4 G. MANCINI scire molto più severo di quello che nell'esaminare la Biografia documentata dell' Aurispa non fu il sig. Salvo Cozzo, che pure giudicò arbitrarie le congetture del S., e disse lui seguace della critica che tutto afferma o nega secondo le preoccupazioni di chi scrive ( 1) . Lorenzo secondo il S. ebbe cognome Della Valle latinizzato Vallensis. Ma io trovo che giovane ed ancora poco conosciuto, fu dal Panormita, da Guarino veronese (2) e da diversi contemporanei denominato Valla, come più tardi dal Filelfo e da altri (SC. , 72, 129, 133) . Esistano pure in Piacenza famiglie Della Valle (SR. , 406), bensì il Poggiali piacentino cognominava Valla anche Giorgio, celebre valentuomo del secolo XV, nativo di Vigoleno, dond'era oriundo il padre di Lorenzo. Nè ha importanza che nella promessa di sponsali con Ambrogio Dardanoni la sposa Margherita sia detta figlia domini Lucæ de Valle, essendo l'atto rogato a Roma , dove nei pubblici documenti latineggiavano in tal modo il cognome della famiglia romana Della Valle, come si rileva dai diversi esempi prodotti dal Marini, quantunque la medesima famiglia fosse pure denominata Vallense ed anche Valleia. Tenuto conto di ciò e delle forme arbitrarie e capricciose usate nel quattrocento per latinizzare i casati, sopra qual fondamento muteremo a Lorenzo il cognome col quale è noto da oltre quattro secoli e mezzo? Il S. posticipa al 1407 la nascita del Valla basandosi sull'epigrafe sepolcrale causa di numerose dispute per gli errori commessi nel copiarla. Francesco Cancellieri, uomo eruditissimo, quando nel 1825 ricollocò a proprie spese dentro la basilica La- (1) Cfr. questo Giornale , XVIII , 308. Al Salvo Cozzo sfuggì una delle erronee affermazioni cronologiche del S. , il quale assegna al 1430 una lettera del Panormita dove dice l'Aurispa divenuto prete , ed alla metà del 1431 l'altra nella quale l ' Aurispa confessa d'essere stato persuaso a ricevere il diaconato (SABBADINI, Biografia dell' Aurispa, Noto, 1891 , pp. 52, 56). Ma dacchè la chiesa conferisce ordini sacri, dal papa all'infimo prete scagnozzo, tutti quanti i ministri del culto cattolico ricevettero il diaconato prima del presbiterato. (2) VALLA Opera, pp. 627, 659. • ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA teranense la statua giacente del Valla , scrisse sulla nuova lapide Lorenzo vissuto « anni 51 più o meno », tanto poco era persuaso dei dieci lustri che alcuni pretendono segnati sulla lapide primitiva. Sebbene il S. supponga « calcolo puramente approssi- « mativo » ( SR. , 406) la dichiarazione del Valla d'avere avuti 24 anni nel 1429 al momento della morte dello zio Scribani ( 1) , a chi presteremo maggior fede, alla dichiarazione del Valla, ovvero all'epigrafe sepolcrale forse incisa erroneamente, da qualcuno potuta alterare nel ricopiarla, ora poi distrutta, sicchè riesce impossibile esaminarla ? Io accetto la dichiarazione del Valla. · La mia congettura che Lorenzo coll'Aurispa per precettore, col Bruni per emendatore studiasșe a Firenze mentre vi soggiorno Martino V (dal 26 febbraio 1419 al 9 settembre 1420) , secondo il S. è fallita . Ma l'Aurispa in quel tempo dimorò a Firenze (SC. , 17 SR. , 407), ed il non avervi aperta scuola pubblica conferma le parole del Valla, che il Siciliano uni enim mihi legebat (SC. , 52). Allora Leonardo Bruni potè « correggere > Lorenzo, mentre non n'avrebbe avuto il tempo nei quattro mesi scarsi della dimora fatta in Roma nel 1426, distratto come era dalle cure della legazione. Inoltre le frasi del Valla, che l'Aurispa græce legendo e Leonardo latine scribendo stimolarono l'ingegno di Lorenzo, sembrano riferirsi ad azione contemporanea del precettore e dell'emendatore, azione che potè essere esercitata unicamente quando i due valentuomini abitavano nella medesima città. Nel 1419 e '20 l'Aurispa e Leonardo erano in Firenze, nel 1426 l'Aurispa viveva lontano da Roma , dunque le probabilità stanno per l'insegnamento e per le correzioni ricevute dal Valla in Firenze. Lorenzo poi confessa d'avere fino dal tempo in cui toccò l'adolescenza riverito il Niccoli. Varrone fissò ai 15 anni il pas- (1) Il S. , inesatto anche in alcune citazioni , dice lo Scribani morto nel 1430 allegando il MARINI, Archiatri, Roma, 1784, vol . I , p. 241 , n. 6, dove opina i Marini che lo Scribani morisse poco dopo il settembre del 1429. È certissimo che lo Scribani morì sui primi di settembre (M. 21). 6 G. MANCINI saggio dalla puerizia all'adolescenza , laonde se Lorenzo avesse conosciuto il Niccoli soltanto nel 1424 avrebbe incominciato ad onorarlo quando da 4 anni aveva oltrepassata la puerizia. Non ignoro gli arbitrii presi dai Latini nell'usare il vocabolo adolescentia, ora estendendone, ora ristringendone i limiti senza misura (1 ) : ma poichè il dialogo De vero bono nei due testi di Basilea è supposto tenuto nel 1426 , e Lorenzo vi ricorda come d'antica data la reverenza portata al Niccoli , giudico che non l'avrebbe qualificata antica se avesse avuto principio nel 1424, cioè pochi mesi innanzi al momento in cui suppone avvenuto il dialogo. Nella mancanza di prove dirette discorsi degli studii del Valla in Firenze come di congettura plausibile, e tale la ravviso tuttora. Parlando della visita del Niccoli a Roma, dissi il giubileo tenuto nel 1423 ed addussi argomenti per provarlo (M., 49) ; ora allego il documento. Paolo II nella bolla del 19 aprile 1470, ricordati i giubilei del 1300, 1350 e 1390, e la bolla di Martino V in conferma dell'altra d'Urbano VI , che stabiliva il giubileo di 33 in 33 anni , reductionem per eumdem Urbanum factam hujusmodi ratam habens et gratam, ipsam in sua firmitate persistere et anno trigesimo tertio supradicto observari debere censuerat , et ad effectum deduci anno ingruente prædicto permiserat , prout observata extitit (2). Quindi nessun dubbio che nel 1423 fosse celebrato il giubileo. Secondo il Vigerino, Lorenzo insegnò in Genova ed io non lo nego; ma sono all'oscuro sull'anno in cui vi fece il precettore, nè ravviso nelle quattro lettere stampate dal S. la prova irrecusabile della dimora del Valla a Genova nel 1434-35 (SC. , 73). (1) Varrone divise l'età umana in periodi di 15 anni. L'adolescenza succedeva alla puerizia nel 16° anno e durava fino al 31 °. Isidoro disse l'adolescenza durare dai 14 ai 28 anni. POPMÆ De differentiis verborum, Aug. Taurinorum, 1865, p. 24. FORCELLINI Lexicon , Prati , 1889, vol. I , p. 101 . (2) Magnum bullarium rom. , Luxemburgi, 1742, vol. I , p. 386. — Il Manni, Istoria degli anni santi, Firenze, 1750, p. 57, conosceva la bolla di Paolo II, e nonostante rimase incerto se il giubileo fu tenuto nel 1423. ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 7 Il S. trasse due lettere dal cod . Ferrarese 133 , NA5, f. 1 , colle date Ex Genua kal. julii e Zenæ IV kal. octobris. Sono dirette a Luchino Belbelli, ignoro su qual fondamento, detto dal S. giureconsulto pavese ( SC. , 73). Le medesime lettere senza data, nè indicazione di luogo, le ricevei trascritte dal cod. Palatino di Vienna, nº 5089. Io le giudicai posteriori di pochi mesi alla partenza del Valla da Pavia, credei che il Belbelli pavese studiasse nella città natale (1) , e quivi per la fuga del precettore ad anno scolastico incominciato continuasse ad udire le lezioni dei maestri sostituiti. La frase : doleo quod te non etiam aliquot pauculis mensibus expolivi, si riferisce al non lontano momento in cui il maestro aveva cessato d'istruire il giovine. Quindi congetturai le lettere scritte da Milano dove Lorenzo si rifugiò ed incontrò Ciriaco d'Ancona. Lo Zeno poi d'una data non appartiene al Valla. Un entusiasta amatore delle forme classiche avrebbe difficilmente scritto ex Genua , nè Lorenzo usò l'ex innanzi ai nomi delle città donde corrispondeva cogli amici , e si sarebbe molto più vergognato dello Zenæ, troppo aperto barbarismo da permetterselo appena un genovese mediocremente tinto di latino, e nemmeno per burla il precettore che si rallegra coll'antico (1 ) Nel medesimo cod. Ferrarese 133 , NA5 , esistono quattro lettere di Guarino veronese al Belbelli ed una risposta di Luchino. Nella prima Guarino lo ringrazia del dono d'un Sallustio ( f. 1) . Di questo regalo parla la lettera di Guarino priva di direzione, ma certamente diretta al Belbelli, esistente nel cod. Riccard. 924 , f. 202. Si rileva dalla lettera che Luchino dimorò qualche tempo in Mantova , e Guarino vi mormora del Panormita che gli aveva usurpata la copia del volume con le commedie di Plauto novissime scoperte. Nel medesimo cod . f. 201 , si trova una lettera del Vegi al Belbelli, in cui l'esorta ut quam de te gerimus omnes spem longe tute nostram exsuperes. In seguito un Belbelli pavese godè fama per Italia miniare così bene come homo che sia. Intorno al 1448 Giovanni Lucido Gonzaga ordinò al Belbelli « uno missale molto bello et ornatissimo così de << litera et scriptura, como de miniatura ». Esistono lettere del Belbelli ed altre dov'è menzionato scritte dal 1448 al 1462 (CARTA, Codd. corali ecc. , miniati nella Nazionale di Milano , Roma, 1891 , pp. 155, 160) . Probabilmente l'egregio miniatore e copista è il medesimo Luchino, lo scolaro abbandonato a mezzo anno dal Valla ed il donatore a Guarino del Sallustio. 8 G. MANCINI · discepolo dei progressi fatti nell'eleganza latina. Quindi le date apposte alle due epistole nel cod. Ferrarese mi riescono sospette. Le altre due lettere prodotte dal S. per dimostrare che il Valla insegnò a Genova sono copiate dal cod. 2692, fogli 28, 29, della Bibl. universitaria di Bologna, e datate da Firenze, una il 17, l'altra il 27 delle calende di febbraio, mentre nel gennaio le calende più elevate sono il 19. Nel cod. Laurenziano pl. XC sup. , 36, f. 52, esistono le due lettere fuse in una ed intestate : Francisci Philelphi epistola ad quemdam suum discipulum (M., 59) . Nel Laur. mancano sei linee al principio della seconda lettera , la data ed il cognome d'un parente dello scrittore , di certo Lorenzo, nel cod. Bolognese denominato Auria la prima volta , ed Aria la seconda. Pel rimanente i testi Laur. e Bol. sono identici, ad eccezione d' insignificanti varianti. La differenza capitale fra i codd. e la stampa è opera del S. Dicono i codd. quod omiseram verbis meis salvere plurimum jube : ed il S. stampa : quod amiseram (nel cod. Bol. sta scritto obmiseram) LAURENTIUM VALLAM verbis meis salvere plurimum jube. Il S. annotò : « Laurentium Vallam » om. in lac. cod. , laonde all'omissione del codice suppli egli, inserendo nel testo Laurentium Vallam, mentre era più naturale introdurvi Laurentium Auriam ovvero Ariam. Aggiungendo, togliendo o sostituendo parole, i documenti finiscono per dire quanto noi desideriamo. Adunque la prima lettera esprime ammirazione pel Valla << uomo erudito ed umanissimo », e la seconda è priva dei saluti , che dimostrerebbero Lorenzo a Genova nel gennaio del 1434 ovvero del '35. Resta bensì la frase obversaris apud Laurentium Vallam, ma lo scrittore può avere usato traslativamente l'obversaris, e scritto all'amico di Genova d'ispirarsi al trattato De vero bono anzi che di discorrere coll'autore del libro. Nel Ricc. 1166 , f. 43 , la prima lettera trovasi copiata, a quanto sembra, da Niccolò della Luna , letterato allora di qualche fama , ed il contesto concorda pienamente con quello bolognese , meno che è datata 21 gennaio 1434. Se lo scrittore delle lettere avesse voluto mandare saluti al Valla , il loro luogo sarebbe stato sul ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 9 fine della prima lettera, dove i codd. Ricc. e Bol. contengono i saluti per Lorenzo Auria. Nella seconda lettera , in cui non è nominato il Valla , è vero arbitrio sostituire nella lacuna del codice il nome di lui , perchè nella prima fu scritto obversaris apud Laurentium Vallam. Inoltre era permesso d'attribuire al Filelfo la lettera del codice Laur. , finchè se ne conosceva quell'unico testo senza data e coi saluti per un Lorenzo qualunque affine dello scrittore ; ma deve essergli negata dopo visti i codd. Bol. e Ricc. con le date e coi saluti per un determinato Lorenzo Auria ovvero Aria, finquì da nessuno detto parente del Filelfo ( SR. , 407) . S'aggiunga che nel gennaio del '34 ( stile comune) il Filelfo, non conoscendo Lorenzo di persona , avrebbe accompagnati i saluti con le frasi abituali nell'ossequiare uomini noti soltanto di nome, nè avrebbe diretti i saluti a Genova, perchè allora Lorenzo dimorava in Milano e vi godeva la compagnia di Ciriaco (M., 84 ) . Nel gennaio poi del '35 avrebbe scritto da Siena , dov'era fuggito ai primi d'ottobre del '34. Ma in quel momento i due valentuomini s'erano conosciuti, e, tenendo a calcolo le differenti dimore ed i casi della vita loro, continuo a credere che s'incontrassero a Firenze nell'estate del '34. Nella Vita n'addussi le ragioni ( M., 86) basate specialmente sulla lettera del Valla ad Eugenio IV, conservata con indirizzo e data erronea negli Opuscula quædam, e sulla versione eseguita in Firenze dell'orazione per Tesifonte ( 1). S'aggiungano poi le frasi di Lorenzo nel dimostrare falsa l'accusa d'essersi appropriata una vecchia versione dell' Iliade conservata nella biblioteca del Niccoli : O Fazio, - fac me scisse illam Florentiæ esse, fac in bibliotheca Nicolai vidisse, num protinus in Campania habui , acceptamne commodato CUM HUC VENI , an per literas impetratam? (2). La possibilità d'aver ricevuto in prestito l'Omero tradotto, cum HUC veni, indica Lorenzo portatosi nel Na- (1) Nella lettera 3ª del Valla da me pubblicata, Lorenzo scrive al Tortelli in Firenze : Orationem Demosthenis quam ipse istic converteram. (2) VALLE Opera, p. 622. 10 G. MANCINI poletano direttamente da Firenze. Secondo me Lorenzo domandò ed ottenne collocazione presso Alfonso re d'Aragona appena perdè l'ultima speranza di conseguire un ufficio in curia : allora s'allontano dal papa e si recò nel Napoletano. Le iniziali D. F. U. C. esistenti nella dedica premessa nel 1441 all'orazione per Tesifonte , tradotta fino dal '34 , furono interpetrate dal Vahlen : Domino Federico Urbini Comiti ; da me: Domino Filippo Vice Comiti. Il Sab. rifiuta la mia spiegazione, perchè Filippo in latino si scrive Philippus (SR. , 410) . Ma Federigo di Montefeltro soltanto nel 1444 divenne conte d'Urbino, e prima visse perseguitato ed in sospetto al conte suo parente. Laonde o bisogna supporre l'F sostituito dal copista al Ph , sostituzione non difficile a motivo dell'incertezza dell'ortografia in quei tempi , ovvero credere la versione dedicata a persona diversa da Federigo di Montefeltro, che a 19 anni, nel 1441, nè era, nè si denominava conte d'Urbino. Ma le quattro iniziali sono scritte in un codice Urbinate appartenuto a Federigo : ed allora per qual motivo l'amanuense indicò colle sole iniziali il nome e le qualità di Federigo cui era dedicata la versione ed apparteneva in proprietà il volume ? Certamente la cosa è molto oscura. Avverte il S. che nel 1426 fu scoperto il cod. di Plauto, comprato poi dal card. Orsini (SR. , 408) . Io lo dissi tornato alla luce intorno al 1428, fidandomi all'asserzione del Mehus confermata dal S., il quale stampò in questo Giornale, vol . V, p. 172, come nel 1428 Nicolò da Treviri scoperse in Germania il cod . plautino, che « arrivò in mano dell'Orsini a Roma nel 1429 ». Lamenta il S. ch'io trascurassi di determinare il momento delle scoperte d'opere classiche avvenute nel sec. XV, essendo numerosi i punti di contatto fra l'operosità del Valla e la storia degli studii classici ( SR. , 405) . In verità nelle vite degli uomini illustri si può toccare qualunque argomento, ma la lunga dimora presso il re Alfonso tenne Lorenzo lontano dai circoli letterarii che si trovavano in intimi rapporti coi ricercatori di codici , e nel Napoletano era tale la penuria dei libri da impedire al Valla di dare l'ultima mano ai propri lavori. Invece d'occuparmi della ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 11 storia delle accennate scoperte , avrei forse potuto investigare quali libri giungessero nel Napoletano mentre vi si trovava il Valla. Credo del 1438 la versione delle favole d'Esopo, e lo stesso S., letta l'epistola del 25 maggio al Tortelli, vi troverà da Lorenzo indicata la donazione. La frase è troppo precisa per ingenerare dubbi: Mitto ad te opusculum quod proxime composui : rem canonici juris et theologiæ, sed contra omnes canonistas atque omnes theologos . Cosa s'oppone a credere la Donazione già ultimata ai 25 maggio del '40 ( SR. , 410) ? Lorenzo in una notte improvvisò l'epistola su Bartolo, ed in quasi 5 mesi doveva mancargli il tempo per scrivere la Donazione? Nella stessa lettera è menzionata pure la pericolosa guerra che vietava a Lorenzo di lasciare il Napoletano, ed io credo fosse quella del 1440 portata dal Piccinino in Toscana e minacciata al reame dal papa che, assoldate le milizie del Caldora ed altri venturieri, si preparava ad invadere il regno colla spedizione comandata dal card. di Taranto (M., 145) . Era il re Alfonso collegato ed amico del duca di Milano , per ordine del quale il Piccinino combatteva i Fiorentini : quindi Lorenzo , stipendiato del re , si sarebbe esposto a gravi rischi recandosi a Firenze. Poteva dare sospetto d'essere emissario politico o spia, e soffrirne le conseguenze. Per il S. la guerra menzionata è quella che derivò dalla lega stipulata nel '41 ai danni del re ; ma è supposizione non corroborata da alcuna prova. Circa al momento della disputa relativa alla lettera d'Abgaro mi sembrano impossibili i dubbi. Lorenzo la dice avvenuta nel giorno in cui il Pallas , vescovo d'Urgel , benedi i regi vessilli. All'opposto il S. suppone il Pallas, qualificato vescovo dal Valla per << uno sbaglio di memoria » (SR. , 410) . Si noti come alla benedizione delle bandiere assistevano i due vescovi, il giurista ed il Garzia, quindi il rispetto all'ordine gerarchico vietava al Pallas non ancora vescovo, sebbene nato d'illustre famiglia e gran contestabile d'Aragona, di benedire i vessilli a preferenza di sacerdoti rivestiti della dignità episcopale. D'altronde Lorenzo afferma le 12 G. MANCINI bandiere benedette dal Pallas vescovo, e tale essendo divenuto il Pallas nel 3 genn. 1443, ne deriva che la funzione ebbe luogo pochi mesi innanzi agli alterchi col frate da Bitonto. Dovendo scegliere fra lo sbaglio di memoria immaginato dal S. e la parola mesi cambiata in anni per opera d'un copista o d'uno stampatore, accetto l'arbitrio del copista (1). S'aggiunge poi la coincidenza che il re nel 1° giugno 1443 ordinò il pagamento di cospicua somma per fattura e ricamo di 38 bandiere destinate all'esercito (2) . I vessilli preparati per distribuirli alle soldatesche pronte a recarsi nelle Marche onde combattervi lo Sforza credo fossero appunto quelli benedetti dal vescovo Pallas. Il S. aveva asserito « falsamente attribuita » al Valla l'Oratio ad summum pontificem (Si quibus tui pontificatus annis etc.) (SC. , 111 ) , ora gliel'accorda, ma ne ravvisa una frase di difficile intelligenza (SR. , 411 ) . Per me l'Orazione, qualificata così nello stamparla, ovvero Epistola come la vuole il Sab. , è il corollario delle lettere allo Scarampi ed al Landriani. Riuscite inutili le pratiche coi due cardinali , Lorenzo si diresse al papa pur di rientrare in Roma. A me sembra chiarissimo il passo giudicato oscuro dal Sabbadini. Afferma Lorenzo d'essersi trovato lontano da Roma allorchè fu esaltato Eugenio IV, ma qualche anno dopo, appena lo potè, ad pedes sanctitatis tuæ me contuli , non recessurus ab umbra ( della maestà pontificia) , se non fosse stato costretto ad allontanarsene dall'immensa bramosia di rivedere il fratello frate nel Napoletano. Evidentemente l'umbra del testo si riferisce al papa, e la sostituzione del vocabolo urbe divisata dal S. è inammissibile, poichè Lorenzo abbandonò Roma nel 1430, non vi rientrò per 14 anni, nè vi potè ossequiare il papa. Nemmeno si presentò ad Eugenio IV in Bologna, dove il papa giunse (1) II Valla è tanto preciso nelle indicazioni che dice la disputa avvenuta quando il vescovo Garzia godeva la sede di Alesia (nunc majoricensis, tunc alesanus) , onde determinare con maggior precisione il tempo in cui ebbe luogo la questio ne. (2) Arch. stor. per le prov. Napol. , vol. VI, p. 239. ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 13 -Al da Firenze il 22 aprile 1436 , perchè allora Lorenzo dimorava nel Napoletano, come ammette lo stesso S. (SR. , 407) . Laonde il Valla riveri Eugenio in Firenze , e quivi , siccome il papa trattava l'unione coi Greci ed aveva bisogno d'uomini versati in quella lingua, Lorenzo collo scopo di facilitarsi il conseguimento dell'impiego agognato nella curia , tradusse l'arringa per Tesifonte. Molto più strana era l'altra congettura del S. stesso che Lorenzo per conto d'altri scrivesse l'orazione al papa, mentre è noto che tentò tutti i mezzi pur d'ottenere la sospirata grazia di rientrare in Roma. Anche il Rinaldi giudicò del Valla l'Orazione e n'inseri un frammento negli Annali ecclesiastici. S. apparisce << sibillina » la frase che il Valla « avrebbe voluto << stare sempre al servizio del papa , se non avesse dovuto an- << dare a Napoli (huc) per rivedere il fratello ( SR. , 411) » . Ma l'huc non può spiegarsi Napoli, come vuole il S. , perchè quando Lorenzo si recò presso il re Alfonso, la bella città era posseduta dagli Angioini, e l'huc ha il significato molto più lato di regno o di province napoletane . Inoltre bisogna considerare che Lorenzo sapeva d'essere dispiaciuto al papa coi propri scritti , e credeva necessario di giustificarsi, egli nato in Roma, dei servigi prestati al re : quindi ricorse all'argomento dell'affezione fraterna . Nell'Orazione Lorenzo chiedeva una grazia , nè poteva apertamente dire al papa : M'accomodai col re nel '34 , perchè rifiutasti l'opera mia. Quindi coonestò l'andata presso Alfonso colla bramosia di rivedere il fratello. Questa spiegazione mi sembra semplice e naturale e la frase punto sibillina. La lettera del Valla in risposta all'Aurispa io l'ho creduta del '44, il S. la suppone del '43 (SC. , 98) , e certe parvenze favori. rebbero la congettura di lui. Ma occorre notare che Agostino Villa, nominato nelle due lettere, rogò in Napoli il 1° aprile 1444 i capitoli matrimoniali del marchese Leonello d'Este con Maria figlia naturale del re Alfonso, ed è difficile credere che fino dal decembre del '43 si trovasse in Napoli oratore di Leonello, mentre le trattative del matrimonio erano state concluse da Filippo Visconti duca di Milano, il quale le iniziò nel 6 genn. 1443 per mezzo 14 G. MANCINI dell'oratore Girolamo Bindocci ( 1 ). A quei tempi gli oratori, nominati secondo l'urgenza del momento, tornavano a casa appena sbrigate le commissioni . Quindi la dimora tanto prolungata del Villa a Napoli sarebbe in contradizione con le costumanze d'allora, e ravviso più conforme agli usi del sec. XV che il Villa fosse rinviato a Napoli nel decembre del '44, ed incaricato dall'Aurispa di consegnare la lettera alla quale replicò Lorenzo l'ultimo giorno dell'anno. Nell'epistola sono menzionate le Note rodensiane principiate nelle Puglie mentre Lorenzo faceva parte del seguito del re. Non è permesso dimenticare come nel '42 il re « fece una << scorsa » , e nel '44 « alcuni di se fermò » in Barletta (2) . Sembra difficile che durante « la scorsa », mentre le province adriatiche erano sottosopra a motivo della guerra , il re , il segretario Olzina, ed altri cortigiani prendessero tale interesse al libro del Rodense da coartare Lorenzo a rispondervi. Io trovo più naturale la loro insistenza nei diversi giorni della fermata a Barletta del '44, allorchè il regno era pacificato, e ritengo in quest'occasione cominciate le Note. Crede il S. le invettive del Fazi pubblicate fra il settembre e l'ottobre del '45 , e per riuscirvi assegna a quest'anno la let- (1) MURATORI, Antichità estensi, Modena, 1740, vol. II , p. 202. FRIZZI, Memorie di Ferrara, Ferrara, vol . III , 1850, pp. 494, 496, 502, vol. IV, pp. 6, 9. ll Villa godè la fiducia degli Estensi, fu spesso giudice dei Savi a Ferrara, ed in questa qualità nel 1450 inalzò la statua equestre di Niccolò d'Este, ora distrutta. Per quanto la lapide sia corrosa , anche ultimamente lessi il nome del Villa nell'iscrizione posta dinanzi al capitello della colonna sulla quale era collocata la statua. Nel 1441 il duca Visconti nominò proprio familiare il Villa, segretario del marchese d'Este, e nel 31 maggio 1443 Eugenio IV gli rilasciò in Siena un passaporto da durare 6 mesi per lui Villa e 15 persone di seguito. Dunque il Villa partiva da Siena essendovisi recato presso il papa come oratore del marchese Leonello (BORGHINI , Memorie della fam. Villa, Ferrara, 1680, pp. 5-9) . Ai 9 gennaio 1443 il duca Visconti iniziò le pratiche del matrimonio di Leonello mandando presso il re Alfonso oratore Girolamo Bindocci , che incontrò il re a Foggia (ZURITA , Anales, vol. III , p. 279) . Il 10 marzo 1444 Borso d'Este parti con numeroso seguito da Ferrara per recarsi a prendere la sposa (R. I. S., vol. XXIV, col. 192) . Probabilmente il Villa fece il viaggio in compagnia di Borso. (2) R. I. S., vol . XXI, col. 1127, 1129. ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 15 tera dal Valla diretta al Tortelli nel 26 settembre, e già da lui affermata del '44 (SR., 412 - SC. , 107) . Ma esso, ammettendo meco che nell'autunno del '45 il Tortelli éra sempre a Bologna , dovrebbe convenire che al momento di concludere le trattative per entrare ai servigi del card . Martinez avrebbe difficilmente abbandonata Bologna onde recarsi a Firenze, città di dove fra pochi giorni sarebbe transitato nel condursi a Roma. Al contrario potè dimorare varii giorni a Firenze nel settembre del '46. Per antica costumanza durata fino al 1870 gl'impiegati della curia papale chiedevano in autunno congedo ai loro superiori e si portavano a godere le vacanze lontani da Roma. Con tutta probabilità, seguendo l'uso dei curiali, il Tortelli nel '46 andò per pochi giorni a Firenze, dove gli scrisse il Valla ai 26 settembre. Mancano le prove dirette per assegnare al '46 la lettera di Lorenzo, ma queste addotte da me dissuadono dal crederla scritta nel '45, e dal giudicare avvenuto in quelli stessi giorni del '45 il breve viaggio del Valla a Roma, secondo vuole il S. Potevano poi essere sbolliti nella curia i furori contro Lorenzo dopo trascorso un solo anno dal processo d'eresia? Il medesimo re contrastava al suo protetto la soddisfazione di rivedere la famiglia, come si rileva dalla lettera a Francesco ferrarese, ora da me pubblicata al nº 10. Qual motivo poteva determinare il re, sempre cortese coi benaffetti, a contrariare la bramosia del Valla, se non il ti more dei rischi che avrebbe corsi in Roma? La prudenza consigliava d'attendere ancora qualche tempo prima di farvi ritorno. Speciale merito del Valla sono le correzioni al testo di Livio, originate dalle controversie ventilate nella reggia d'Alfonso durante « l'ora del libro ». Nelle ricerche era stato preceduto da altri, e Lorenzo medesimo dichiara che Leonardo e Carlo aretini, il Rustici, il Poggio ed il Biondo rogatu card. Columnæ Livium, quatenus potuerunt, emendarunt ( 1) . I due aretini non andarono mai a Roma durante il pontificato d'Eugenio , laonde la (1) VALLE Opera, pp. 602, 608. 16 G. MANCINI presenza loro fra gli emendatori indica lo studio critico avvenuto a Firenze, mentre vi soggiornava la curia. Però credei da Lorenzo presa notizia in questa città delle emende a Livio e che quivi le registrasse sul cod . del cardinale. Il S. le giudica trascritté a Roma nel 1447 (SC. , 413) . Peraltro il Valla si trovava allora in Tivoli per leggere al re, e dovè fare brevissime visite a Roma. Avrà in quelli istanti avuto tempo di discutere con altri eruditi sul testo di Livio e di registrare l'emende sul volume del cardinale? Per raccomandare le cugine figlie orfane di Lodovico da Orte Lorenzo diresse a Niccolò V un memoriale dal S. creduto del 1450 (SR. , 412) . Nel '49 e nel '50 la pestilenza desolò Roma, ed ambedue le volte la curia fuggì (1 ) . Ma nella prima fuga il Tortelli seguì Niccolò, tanto è vero che a Spoleto il 31 maggio '49 l'Aretino fu nominato e prestò il giuramento di cubiculario papale : senza dubbio esercitò presso il pontefice la carica allora ricevuta. Infatti pochi giorni dopo, il 2 di luglio, Lorenzo trattenutosi sui colli Laziali raccomandò all'amico di far segnare dal papa certa supplica (SC. , 122), nè gli avrebbe chiesto tale favore se nel '49 l'amico Aretino fosse stato lontano dalla curia . All'opposto è quasi certo che il Tortelli durante la pestilenza del '50 fu ospitato in Firenze dal card . Scarampi (M., 175) . Dunque il memoriale è del '49, anno in cui il Tortelli segui la curia, ed in cui Lorenzo scrisse pure all'amico di non averlo ancora veduto insignito coi distintivi di cubiculario (SC. , 120). Questa particolarità indica la lettera scritta nel decembre , non nel giugno, come piace al S., dimentico che in quel mese tanto nel '49 quanto nel '50 Niccolò V era assente da Roma, e nel '49 vi si restitui solamente il 29 di novembre. Altri appunti di minore entità mi rivolge il S. , ed io sono molto lontano dal pretendere d'avere evitati errori e sviste pur troppo (1) L'assenza da Roma di Niccolò V nel 1449 si protrasse dal 5 maggio al 29 settembre : nel '50 dal 18 giugno al 25 ottobre ( CAFFARI , Diario, in Arch. della soc. rom. di st. patria, Roma, 1885, vol. IX, pp. 596-601) . ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 17 commesse da censurati e da censori. Al destino comune soggiace pure il S. anche quando non intende di stabilire la cronologia. Per esempio , nell'annotare questo periodo : Cum apud Franciscum Magnum et Mæcenatem clarissimum essem, concomitandi hominis gratia, qui templum adierat etc., il S. afferma Francesco Magno essere il Piccinino e Francesco Mecenate il Barbavara (SC. , 4) , d'unica persona facendone due, perchè il testo è chiarissimo e parla evidentemente dell'unico Francesco Barbavara qualificato grande e mecenate. Dovere dei critici è di rilevare errori e sviste, adducendone le ragioni, senza dare responsi come gli antichi oracoli, guardandosi dal sentenziare con forme sempre autoritarie e talora offensive, evitando di cambiare d'opinione secondo le impressioni del momento e di rifiutare le congetture altrui, perchè diverse dalle proprie. L'esercizio dell'arte critica è santissimo ministero , ma non si ristringe alla cronologia ; ed il critico, che s'accinge a giudicare un libro, non può esaminarne le parti accessorie dimenticando le principali, cioè l'insieme del volume e le più gravi questioni in esso trattate. Il S. nella Cronologia ha pubblicate quattro lettere a me sconosciute (1 ) , e tre mi sarebbero riuscite utili . Nella prima Lorenzo prega da Gaeta il Panormita di procurargli certe pseudoeleganze, e chiede la restituzione d'alcuni danari. Pecuniam autem quam mihi debes , jube mihi hic numerari ab aliquo luorum amicorum , si non ita subito rediturus es (SC. 79) . (1) Mi sia permessa una osservazione estranea al Valla e suggeritami da altra lettera pubblicata dal S. (SC. 23) e scritta in Bologna dal Panormita intorno al novembre del 1426. Vi è detto : De Lepido itaque pro librariorum perfidia statui illum emendatiorem et insciente domino ad te illum dimittere. Credo questa frase allusiva al Filodosso divulgato dall' ALBERTI come opera di LEPIDO comico. È noto che la commedia creduta anticá circolò contro la volontà dell'autore per l'indiscrezione d'amici , i quali la co- piarono di nascosto con errori ed aggiungendovi oscenità. Mi sembra d'interpetrare rettamente la frase , dicendo che il Panormita inviò in Firenze all'amico, cui scriveva, la commedia attribuita a Lepido emendata dagli er- rori ed all'insaputa del padrone, cioè dell' Alberti, allora dimorante in Bologna e ben conosciuto dal poeta siciliano (MANCINI, Vita di L. B. Alberti, Firenze, 1882, p. 170) . Giornale storico , XXI, fasc. 61 . 2 " 18 G. MANCINI Sarebbe mai questa domanda non esaudita uno dei motivi che nel Napoletano trasformò in odio implacabile l'antica benevolenza dei due amici? Tante volte le questioni pecuniarie ruppero i buoni rapporti d'uomini vissuti concordi, molto più se inasprite da altre cause di rancori abbondate fra il Panormita ed il Valla per far degenerare in odio durato fino alla morte la primitiva cordialità. Dalla lettera del Decembrio al Cremona (1) (SC. , 64) abbiamo nuova conferma della veridicità di Lorenzo solito ad affermare sempre cose vere. Colla seguente frase : Locum ubi gaudia depingo paradisi, Candidus cum laudat, nihil se ait legisse floridius, fu riassunto dal Valla il giudizio dell'amico Decembrio sulla descrizione del paradiso posta nel De vero bono. Infatti Pier Candido aveva scritto : Si postremo futuræ vitæ delicias inspexeris, nihil jucundius aut fabulosius te legisse aut audivisse confiteberis. La terza lettera è dell'Aurispa (SC. , 97) , cui Lorenzo replicò da Napoli il 31 decembre 1444, come ho detto sopra. La più importante è del Vegi (SC. , 89) ed avvalora le mie congetture sull'influenza esercitata dal buon Lodigiano nell'animo battagliero e subitaneo dell'amico. Io credo le Note rodensiane scritte con sufficiente moderazione per i consigli di Maffeo, riuscito altra volta a trattenere il Valla dall'abbandonarsi alla licenza e dal parlare interamente all'epicurea, secondo confessa il medesimo Lorenzo. In favore del frate da Ro intercesse il Vegi e ne riassumo la lunga lettera. Il Rodense un giorno tanto affezionato al Valla non può averlo offeso , quindi non lo molesti. Se Lorenzo nello scrivere conservasse almeno l'apparenza della moderazione diventerebbe così grande ed eccellente che i contemporanei sarebbero costretti di portarlo a cielo. Non corra ( 1 ) Il vol. XIX della Miscellanea Tioli, conservata nella biblioteca Universitaria di Bologna, contiene documenti quasi tutti relativi al Panormita, comprese trenta lettere indirizzategli da Antonio Cremona (pp. 109-146) . Con mio danno ebbi tardi notizia dell'esistenza della Miscell. , nè la vidi prima del 13 giugno 1892. - ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 19 dietro alle ombre, non offuschi la fulgidissima luce del singolare ingegno. I saggi tollerano le censure e Lorenzo che approfondi tante cose dovrebbe astenersi dal penetrare più addentro, nè tentare d'abbattere ora i filosofi , ora i logici , ora i teologi. Si persuada della difficoltà d'annientare opinioni invalse da secoli. Vuol combattere ? Sia inesorabile coi grammatici. Nelle Eleganze superò se stesso ; ma si vinca, risparmi gli avversari, sopporti cose dure , secondo insegnano Varrone ed il Vangelo. Possiede dottrina ed ingegno sublimi, non n'abusi dispregiando ed ingiuriando i censori, da disarmarsi colla mutua carità e colla tolleranza. Dobbiamo compiacerci delle censure giuste per correggerci, disprezzare quelle ingiuste. Sorgeranno a migliaia fortissimi difensori in sostegno del Valla , che col silenzio guadagnerà molto. Maffeo stesso superò gli avversari tollerando, dissimulando, tacendo. Scrisse troppo a lungo per la grande affezione che gli porta. Nessun documento conferma meglio l'influenza del Vegi. Uomo prudente avrebbe parlato con minor franchezza al Valla, da diversi anni non veduto, se gli fosse mancata la certezza che pure questa volta sarebbero stati bene accolti gli affettuosi avvertimenti. Il Vegi, memore della rara deferenza dell'amico nel ridurre a perfezione il De vero bono , e riuscito allora a mantenerlo moderato nel trattare argomenti adatti ad essere svolti con scandalosa licenza, interpose una seconda volta i propri buoni ufficii per risparmiare il Rodense, che fu dal Valla vivacemente attaccato come scrittore , rispettato come uomo. Per quanto il frate da Ro potesse aver condotta vita irreprensibile , avrebbe Lorenzo al pari degli altri autori d'invettive saputo trovare il lato vulnerabile delle qualità personali del francescano, ove avesse voluto molestarlo. Posso aggiungere una notizia sopra quel Giovanni Tiburte, che dimorava a Roma nel convento di S. Grisogono col card. Antonio Cerdano, detto Ilerdense. Diverse volte il Valla menzionò e lodò il Tiburte quale persona dotta, elegantissimo calligrafo, e dopo il Tortelli superiore a tutti nell'ortografia ( SC. , 127 - M., 84 , 238) . 20 G. MANCINI Ho trovato che appartennero al Tiburtino i codici Laurenziani 285, 475 e 522 , provenienti dal soppresso convento di s. Maria Novella. Sulle guardie dei volumi è segnato il nome << del venerabile padre frate Giovanni da Tivoli , baccelliere in << sacra teologia, dell'ordine dei predicatori >> . Vengo finalmente alle osservazioni del S. sopra le cose da me scritte intorno al trattato De vero bono, apparsegli talmente erronee da esclamare : « L'edificio costruito qui dal Mancini va << tutto rifatto » ( SR. , 408) ! Il S. pretende al solito di rettificare le date, e senz'addurre prove afferma recisamente scritte nel 1433 le lettere del Bruni, del Traversari, del Marsuppini , di Poggio, ed avvenuta nell'anno stesso la visita del Valla a Guarino. La lettera poi del Panormita, datata da Stradella e già da lui assegnata al 1430 , ora deve essere del '31 (SC. , 58 - SR. , 408 ). Io all'opposto assegnai le cinque lettere e la visita a Guarino in Ferrara al 1432 , ed ora espongo quali ragioni mi fanno persistere nelle mie congetture. Principio dalla lettera del Panormita. Adesso il S. l'attribuisce al '31 , poichè <« vi si parla di peste , per la quale il Panormita << si era rifugiato a Stradella ; questa è la peste del 1431 : il Pa- << normita non usava villeggiare a Stradella, ma vi andò in quella <<< sola occasione per motivo dell'epidemia » ( SR. , 408) . Qual nuovo evento porta il S. a trovare menzionato nella lettera il morbo desolatore di Pavia nel '31 , non avendovene rinvenuta traccia pochi mesi innanzi, quando ristampò l'epistola e l'assegnò al '30 ? (SC. , 60) . Sembrerebbe naturale che una lettera scritta in tempo di moria, e di qual moria, fosse malinconica. Invece è festiva, giocosa, scherza sulle molestie della campagna, sulla pessima abita. zione, sui rumori contadineschi, è sincera espressione d'animo tranquillo , non disturbato da pensieri letali , da timori di gravi pericoli, d'avvenimenti che destassero trepidazione per l'esistenza dello scrittore o degli amici. Senza dubbio il Panormita scrisse in momento di buon umore , quando nemmeno il sospetto del morbo turbava Pavia o Stradella, situata a breve distanza dalla prima. Infatti, checchè dica il S., manca nella lettera qualsiasi ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 21 . allusione alla terribile pestilenza pavese del '31 . Attribuire quindi la lettera a quest'anno per motivo della peste è gratuita asserzione. Ma non basta . Il Panormita nella medesima epistola dissuade Lorenzo dal tornare in Roma ; illuc accessurus es unde omnes exeunt fugiuntque propter famem, bellum civile et pestilentiam. La lettera, scritta certamente nell'estate al momento delle raccolte, sconsiglia il Valla dal prestare ascolto ai parenti bramosi d'averlo lettore nello Studio romano. Ora la ripristinazione dell'Università fu ordinata dal papa con bolla del 10 ottobre 1431, laonde bisogna giudicare l'epistola del Panormita posteriore alla bolla e così dell'estate del '32. Come potevano i parenti sollecitare Lorenzo a chiedere la cattedra in Roma prima di conoscere la volontà del papa di ripristinare lo Studio ? Pubblicata la bolla , rimasta allora nuda manifestazione di buona volontà, gli affini avranno cercato di convincere Lorenzo : ma le sollecitazioni, non potute fare nell'estate del '31 per ignoranza delle future determinazioni pontificie, è impossibile rinviarle all'estate del '33, essendo allora Lorenzo fuggito da Pavia, dove occupava la cattedra, quando ricevè l'epistola . Così per eliminazione attribuii la lettera all'estate del 1432 ( M. , 60) , e nessun valido argomento mi persuade a cambiare d'opinione. Stabilita la data della lettera del Panormita, inviata poco prima che fosse divulgato il dialogo De vero bono , viene determinata quella delle epistole di Leonardo, d'Ambrogio e del Marsuppini scritte nel settembre dell'anno medesimo appena avvenuta la pubblicazione del trattato. Per la lettera del Traversari io stesso avvertii che il 4 settembre '32 frate Ambrogio si trovava a Borgo s. Sepolcro, e nel medesimo giorno del '33 parti da Firenze per Ferrara (M., 64). Allora viaggiavano a cavallo, e chi si metteva in cammino montava in sella di buon mattino , per cui fra gli ultimi preparativi e gli addii mancava il tempo per scrivere. Trovando improbabile che il frate nel giorno stesso in cui s'incamminava verso la lontana Ferrara potesse disporre d'alcuni minuti per dirigere la lettera al Valla, conclusi che nel codice o 22 G. MANCINI è sbagliato il giorno della data, ovvero il frate segnò da Firenze l'epistola scritta da luogo diverso. La lettera diretta da Poggio a Guarino (SC. , 68 - M., 68) , secondo il S. appartiene indubitabilmente al '33 (SR. , 408) ; ma nè si rinviene in essa il più piccolo indizio per attribuirla ad uno piuttosto che ad altro anno, nè alcuno n'adduce il critico ; però volendo crederla del '33 bisogna « indubitabilmente » prestare cieca fede al S. Il Valla si recò a Ferrara per presentare a Guarino il proprio trattato e vi si trattenne due giorni. Nell'estate e nell'autunno del '31 la pestilenza aveva colpita Pavia , nè quello era il momento propizio per pubblicare libri o per recarsi a presentarli agli amici. Sono noti i casi del Filelfo in Cremona e le molestie ricevutevi per timore del contagio. D'altra parte assicura il Valla d'aver divulgato il dialogo in Pavia (non misissem eos libros ex urbe Papia Romam) ; quindi se la peste del '31 impedisce di credere il libro pubblicato nell'autunno di quest'anno, se nell'estate del '33 Lorenzo aveva abbandonato Pavia, resta disponibile il solo anno 1432. Sembra poi naturale che il Valla andasse a Ferrara nei giorni del trionfo per il libro ricercato e lodato, quando egli tranquillo e soddisfatto poteva concedersi una ricreazione, anzichè nel '33 coll'animo tuttora alterato per lo smacco subito in seguito alla disputa coi giuristi pavesi. Alla visita del Valla in Ferrara, il S. vorrebbe riferire la nobile replica data da Guarino al Panormita nel rifiutare la sollecitazione d'accogliere duramente, o piuttosto di respingere una persona annunziatagli dal poeta ( SC. , 68). La replica di Guarino . si trova trascritta nella Miscellanea Tioli insieme alla maggior parte dei documenti prodotti dal S. nelle tre Cronologie dell'Aurispa, del Panormita e del Valla ( 1 ) . Monsignore Tioli cosí an- (1) La Miscellanea Tioli , amplissima raccolta di documenti copiati specialmente da codd. romani , è preziosa miniera per i cultori degli studii umanistici. Ne dette l'indice sommario il CANCELLIERI in Notizie della vita e della Miscellanea di mons. Pietro Antonio Tioli, Pesaro, 1826. Nel vo- ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 23 notò l'epistola : « La persona che s'era discostata dal Panormita << si può conghietturare che fosse o il Valla o Pietro Candido, e << piuttosto questo secondo che il primo , perchè il Decembri << scrisse una invettiva contro il Panormita » (1 ) . Invece il Sab. preferisce di ravvisare il Valla nella persona non nominata nella lettera , dimenticando come Lorenzo finchè stette Pavia, meno qualche grossezza , rimase in buoni termini col poeta , al quale mancava il motivo d'usare al collega così cattivo ufficio. Inoltre sono troppo generali le frasi di Guarino, che la virtù non consiste nella voluttà e ch'egli aborriva i porci del gregge epicureo per supporre nel grande istitutore veronese l'intenzione d'alludere al Valla , il quale nel De vero bono espresse il medesimo aborrimento. Per dimostrare « veramente strana ed inconcepibile » la mia congettura che nella prima redazione del trattato mancassero le parti più accentuate contrarie al matrimonio, al monachismo, lume XXV della Miscell. esistono 125 delle 130 lettere inedite di Francesco Barbaro , poste in luce dal S. a Salerno , 1884. Iacopo Morelli donò al Tioli copia delle 125 lettere del Barbaro estratta da due codd. che gli appartenevano , ora codd. Marciani 71 e 72 , cl. IX , lat. Il S. cita i due codd. Marciani senza menzionare mai le copie donate al Tioli dal Morelli. Ma voglio supporre che nel 1884 il S. non conoscesse ancora la Miscellanea Tioli. (1) TIOLI, Miscell. , vol . VII, p. 364. Il S. cita la ricordata lettera di Guarino e molti altri documenti contenuti nella Miscell. come trascritti dai codd. originali. Bensì le differenze di lezione esistenti fra le lettere del Valla stampate dal S. ed il testo dei codd . citati da lui, sui quali le aveva copiate io, indicano che nel trascrivere le lettere il S. ricorse alle copie Tioli anzichè ai mss. originali. Quindi potrei qualificare come « poco innocenti » le numerose citazioni del prof. dov'è obliato il ricco acquidotto Tioli per segnalare le sorgenti che l'alimentarono. Onde mettere in pratica quel certo « do- < vere di generosità » così fuori di proposito ricordato a me, non doveva il S. nelle sue numerose pubblicazioni sugli umanisti mostrarsi grato alle fatiche spese dal Tioli nel raccogliere così ricca messe di documenti e somministrargli indicazioni tanto utili sulle fonti alle quali ricorrere ? Quante minori ricerche e fatiche mi sarebbero costati i miei lavori se avessi rinvenuta la maggior parte dei documenti raccolta ed ordinata in qualche miscellanea Tioli , o almeno vi avessi trovata l'indicazione delle biblioteche dove esistevano gli originali ! 24 G. MANCINI alla verginità, il prof. allega l'invettiva del Rodense contro il Panormita (SR. , 409, -SC . , 14) . Quivi il frate rimprovera il poeta quod adversus Leonardum arretinum partes Epicuri quodam dialogo defendendas acceperit, proclamandovi l'ebrietà virtù dolce e grata, non noiosa, lodandovi le tazze ricolme di vino, condannandovi il matrimonio, assalendovi la verginità. Il S. vuol trovare in queste parole prese di mira le dottrine sensualistiche poste nel De vero bono in bocca al Panormita. Ma il Rodense, frate istruito e teologo, non poteva dar colpa al poeta e tenerlo responsabile del fatto altrui, attribuendogli a delitto che Lorenzo l'avesse prescelto a difendere in un dialogo opinioni giudicate riprovevoli. Quali lodi o biasimi spettavano al Panormita per i concetti fattigli esporre dal Valla? Nel testo del dialogo 'De vero bono stampato a Lovanio ed a Colonia il Vegi pronunzia le medesime frasi supposte proferite dal Panormita, eppure il Vegi continuò a godere reputazione d'uomo onestissimo , nè alcuno gli fece carico d'essere stato prescelto dal Valla a formulare i medesimi concetti dei quali il Rodense si mostrerebbe indignato ed avrebbe dovuto risponderne il Panormita secondo il S. Nessuno vorrà supporre che il frate da Ro ignorasse come in forza delle dottrine divine ed umane ciascuno risponde delle proprie azioni : laonde le frasi dell'invettiva del Rodense non possono aver rapporto col dialogo del Valla, bensi alludere a qualche scritto del poeta siciliano contenente i concetti dispiaciuti al frate ed identici a quelli fattigli pronunziare dal Valla come difensore degli epicurei. Bramava il Panormita di leggere le cose sul piacere dette da Lorenzo, poichè de dolore scribere mihi cordi est (SC. , 60). Non potè quindi in un dialogo scritto da lui disputare con Leonardo aretino sopra il dolore e dimostrarvi che si domina o si vince ponendo in pratica le dottrine sensualistiche dei corruttori delepicureismo? Inoltre afferma il Valla d'avere « per la perfidia > del Panormita fatte grandi mutazioni al primitivo dialogo intitolato soltanto De voluptate. Al S. non piace ch'io faccia consistere la perfidia del poeta nei consigli dati a Lorenzo d'ampliare il dialogo ed accentuarne le parti scabrose. Nessuno argomento ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 25 addotto da lui mi persuade ad abbandonare la mia congettura, ed aggiungo che a Pavia il Panormita sempre amico del Valla potè persuaderlo ad accrescere il dialogo e ad introdurvi le parti accentuate. È pure probabile che Lorenzo, divenuto avversario del Panormita, sostituisse il poeta medesimo al Vegi e costituisse il Panormita sostenitore delle dottrine degli adulteratori dell'epicureismo coll'intenzione ostile d'affidare al nemico la difesa di opinioni conformi in alcuni punti ai concetti espressi dal cantore dell'amor sensuale e delle lordure. Altri giudichi se sono giuste le mie supposizioni : ma quanto alle frasi dell'invettiva del Rodense sono convinto che hanno rapporto a cose scritte dal medesimo Panormita, non alle altre postegli in bocca dal Valla e delle quali il poeta era irresponsabile. · Sebbene le scarse notizie date da Lorenzo sulle varie redazioni del suo dialogo siano confuse e talora contradittorie , pure lasciano chiaramente intendere ch'egli ne mutò e rimutò il testo. La redazione primitiva sarà incominciata - Nam cum venissent in curiam (SR. , 408), ma era più breve della metà e diversa dalla definitiva stampata a Lovanio nel 1483, a Colonia nel 1509, con interlocutori differenti e poche altre varianti riprodotta due volte a Basilea. Infatti, il nome del Loschi in illa prima editione toties, et in posteriore nunquam legitur : inoltre i libri nei quali era diviso il trattato dimidio quam modo sunt breviores. Essendo dunque la redazione originale metà della definitiva, ed in quella frequentemente ripetuto il nome del Loschi, doveva differire moltissimo dalle stampe di Lovanio e di Colonia, uguali nella sostanza alle posteriori di Basilea, diverse nel titolo e negl' interlocutori. Nelle edizioni di Lovanio e di Colonia parlano il Bripi, il Vegi, il Rodense, mentre nel luogo assegnato al frate da Ro assicura Lorenzo d'avere prima posto il Decembri, nè mai comparisce il Loschi. Infine nelle due stampe di Basilea il Loschi per incidenza è menzionato due sole volte, circostanza che conferma come finora è ignota la redazione originale del dialogo, nella quale il nome del Loschi toties legitur ed il trattato è più breve dimidio quam modo. 26 G. MANCINI Colle notizie finquí possedute è del tutto impossibile determinare il momento in cui l'autore dapprima rimaneggiò e raddoppiò il dialogo, ed il momento nel quale lo sottopose all'ultima revisione. Da Gaeta Lorenzo espresse al Tortelli la determinazione di pubblicare diversi trattati una cum libris olim editis De vero bono, quos habes non ita exactos ut penes me sunt. A parere mio questa frase significa che le ultime variazioni recate al dialogo nel Napoletano erano molto meno importanti delle prime una volta (olim) eseguite in Lombardia. Quindi le redazioni sarebbero state tre. L'originale dove spesso era nominato il Loschi, probabilmente come uno dei tre principali interlocutori, nella quale ut codex testis est alios collocutores induxeram, quos postea perfidia Panormitæ mutavi. La seconda redazione ampliata cogl'interlocutori cambiati , che credo riprodotta dalle stampe di Lovanio e di Colonia. Infine la definitiva differente dalla seconda nei nomi degl'interlocutori di nuovo mutati ed in poche frasi, ed essa è rappresentata dalle due stampe di Basilea. Nella prima pubblicata certamente nel 1432 a Pavia discutevano il Loschi ed altri ufficiali della curia pontificia ed il dialogo era la metà più breve del definitivo. A questa redazione ora sconosciuta si riferiscono le cinque lettere di Leonardo, di frate Ambrogio, del Marsuppini, di Poggio e del Panormita. La seconda redazione col raddoppiamento del dialogo e la mutazione degl' interlocutori sarebbe stata elaborata in Lombardia per le suggestioni del Panormita negli ultimi momenti della dimora di Lorenzo allo Studio pavese o durante il soggiorno di Milano, e sarebbe rappresentata, come ho avvertito, dalle stampe di Lovanio e di Colonia. La terza redazione col nuovo cambiamento degl' interlocutori ed altre insignificanti mutazioni sulla seconda redazione avrebbe avuto luogo nel Napoletano e sarebbe conservata dalle due stampe di Basilea. Ma dichiaro a scanso d'equivoci che queste conclusioni derivano dai raffronti delle frasi del Valla, non da notizie accertate e positive, quindi rimangono nel campo delle congetture e come tali le pubblico. Da due mesi aveva terminate queste note, ma ne sospesi la ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 27 pubblicazione per attendere che dalla biblioteca d'Innsbruck giungesse alla Nazionale di Firenze l'edizione del De vero bono indicata dal Pastor nella Storia dei papi (M., 224) . Nei decorsi giorni vidi alfine il volumetto di f. 70 intitolato: Laurentij Vallensis romani viri doctissimi atque eloquentissimi opus de vero falsoque bono accuratissime recognitum el a mendis non parum multis repurgatum, Colonie in domo Quentell, Anno salutis .M.ccccc . nono. L'edizione riproduce con notevole correttezza il testo stampato a Lovanio nel 1483, e vi ho rinvenuta una sola differenza veramente rimarcabile , non essendo tale la parola pangeticon posta nel titolo della stampa lovaniese, cambiata in pangyricon nella ristampa. La particolarità degná di speciale rilievo è che nell'indicare gl'interlocutori ed i personaggi presenti al dialogo l'edizione di Colonia sostituisce Francesco Piccinino a Candido Decembri, ed il nome di Candido, taciuto nell' enumerare le persone presenti alla dotta riunione del portico gregoriano di Pavia, apparisce alternato con l'altro di Francesco Piccinino nelle diverse parlate dall'edizione di Lovanio poste in bocca al Decembri. Nessuna prova è più evidente di questa che nelle rifusioni del dialogo l'autore mutò e rimutò gl'interlocutori e che circolarono copie manoscritte del trattato ora con questi ora con quei nomi, sicchè di questi cangiamenti ne rimasero segni evidenti anche nello stamparlo. È quindi impossibile negare che il trattato fu dal Valla rifuso, ampliato e ridotto alla forma definitiva in diversi momenti che non possiamo determinare con precisione e colle notizie adesso possedute. Secondo me rimane per ora sconosciuta la primitiva ed originale redazione del 1432. Innanzi di terminare credo utile avvertire che probabilmente il De vero bono è indiretta risposta ad altro dialogo menzionato pure dal Valla, e che a quei giorni doveva essere grandemente apprezzato, perchè scritto da uomo reputatissimo. Io non aveva potuto rinvenire manoscritto, nè supposto che fosse stampato il dialogo De felicitate del padovano Francesco Zabarella, uomo ai suoi giorni celeberrimo. Ultimamente rinvenni nella Nazionale di Firenze il trattato dello Zabarella impresso a Padova dal Fram- 28 G. MANCINI botti nel 1655. L'esemplare aveva le carte ancora intonse perchè in 237 anni nessuno aveva letto quel libro. A me sembra che l'operetta terminata il 19 ottobre del 1400 durante le vacanze scolastiche nella quiete della splendida abbadia di Praglia (1), a breve distanza da Padova , dove lo Zabarella insegnava nello Studio, desse origine al dialogo di Lorenzo. Lo Zabarella discorre in tre libri della felicità vera, di quella falsa somigliante alla vera, infine degli argomenti che persuadono a repudiare il piacere. Dimostra la felicità non risedere nei piaceri corporali e intellettuali, anzi l'abuso d'essi abbreviare la vita umana. Ripone la virtù nel vincere le difficoltà ; crede che la ricchezza, la potenza, la fama, la gloria, le speculazioni medesime dell'intelletto possano avere apparenza di felicità, ma debbano essere apprezzate soltanto come testimonianze di probità. La vera felicità è straniera alla terra, egli insegna, e secondo le dottrine cristiane si conseguisce conoscendo ed amando Dio. Giudica necessario il ripudio delle perniciose dottrine epicuree, non che l'astensione dalle voluttà e consiglia di cercare il conseguimento del piacere celeste ed eterno colla mondizia del cuore e col timore di Dio. Il terzo libro è piuttosto teologico che filosofico, e lo Zabarella, vero figlio del proprio secolo, ventila sulla vita oltremondana questioni molto sottili ed oziose, pascolo allora prediletto agli studiosi . In qual modo i beati vedono Dio prima della resurrezione dei corpi, e qual vantaggio ritrarranno dal possedere gli occhi dopo la ricongiunzione del corpo allo spirito ? I beati come useranno in cielo il senso dell'odorato e cosa distingueranno col gusto ? Lorenzo non s'occupò delle astruserie piaciute al grave canonista pochi anni appresso divenuto cardinale. Uomo dei tempi nuovi , affezionato alla civiltà latina ed ai progressi fatti dalla umanità per opera del Cristianesimo, agitò le questioni che potevano direttamente interessare i contemporanei, e studiando gli argomenti principali (1) MORELLI, Biblioteca Farsetti, Venezia, 1771 , p. 124. ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 29 discussi dallo Zabarella, trattò umanamente quanto si riferiva al vero bene, origine di felicità per gli uomini. Ed ora faccio seguire le promesse lettere del Valla. GIROLAMO MANCINI. 1. [ Dagli Opuscula quædam, f. F] Laurentius Vallensis Eugenio IV ( 1 ) pontifici maximo salutem d . Etsi plurimis maximisque reipublicæ christianæ negotiis districtum te esse non ignoro , beatissime Pater , tamen quum soleas pro admirabili quadam omnium doctrinarum peritia literatos homines non modo facile, verum etiam libenter audire, eos præcipue qui de moribus , de rebus bonis , de religione conscribunt, non veritus sum ad te mittere degustationem meorum studiorum, tertium dumtaxat De vero bono librum, partem operis, non totum opus, ne forte longior lectio plus afferat (2) molestiæ tibi quam voluptatis ; quod ego minime velim. Quippe qui ea vel maxime de caussa hunc librum ad te mittendum putavi , ut animum tuum assiduis curis ac laboribus fessum jucunditate aliqua reficerem atque recrearem. Nam quid tibi , per Deum immortalem, jucundius esse potest quam is liber, in quo non solum de virtute, de honestate , de summo bono disputatur ( id quod tu libentissime audis) , sed etiam status aperitur , explicatur, et (3) pene depingitur , veluti qui orbem terrarum in tabula describunt, distinctum spatiis, dimensum lineis, obumbratum (4) coloribus, ut ii qui pauca loca viderunt in illam tabulam intuentes fere omnia videant ? At quantulum similitudinis ad veritatem habet illa pictura ? Profecto parum: non tam parum utilitatis habere existimatur, cum multum doctrinæ inspectantes accipiant , multum oblectationis , multum etiam animi atque impetus, ut ad ea visenda se conferant, quæ figurata simulacris illis et imaginibus cum admiratione adnotavissent. Ita ego statum formamque figurare conatus sum , et ut dixi pene depingere ut hominum mentes et materiam (5) inprimis ad illius potiendi cupiditatem incitarem.. (1) Ed. Nicolao Quinto (2) Ed. afferet (8) Ed. ex. Corretto nell'Errata. (4) Ed. adombratum. Corr. nell'Er. adumbratum (5) Ed. maternam . Corretto nell'Errata. 30 G. MANCINI Neque vero poetas imitatus sum, qui se vidisse ajunt vel superorum statum, vel inferorum. Non enim visum est in hac materia poetice loqui , sed ut nonnulli alii doctissimi sanctissimique fecerunt. Sed quid plura? Quum tu sis hæc in legendo cogniturus , quæ nescio an aliis collatura sint (1) utilitatis aliquid, tibi confido afferent, ut superius dixi , jucunditatem. Illud præterea ex hoc libro animadvertes quidquid in literis possum, Domine mi (2) , in honorem rerum bonarum comparasse. Cupio enim tibi sanctissimo viro, atque omnium optimo, magis vita probari quam literis, si modo literæ possunt habitare cum malis moribus. Ego quidem, beatissime Pater, ab ineunte ætate cum ceteris liberalibus disciplinis, tum maxime oratoriæ studui, quam ita me adamasse et ita complexum esse (3) toto pectore confiteor , ut hac tempestate pauci vehementius ; non ea caussa, qua multi solent, ut illam haberem (4) aut jactantiæ sociam, aut avaritiæ ministram, aut peccatorum adjutricem (5). Longe enim ii homines absunt ab officio ac munere oratoris, si quidem orator est vir bonus dicendi peritus; sed is mihi semper animus fuit at oratoriis studiis Deo placerem (6), hominibusque prodessem. Ceterum an aliquid in dicendi quidem ratione profecerim aliorum sit judicium (7). Ut bonus autem vir essem a puero certe elaboravi. Sed, beatissime Pater , certe intelligis hujuscemodi homines, qui in optimarum artium studia incumbunt, qui avaritiam detestantur, qui honestatem prosequuntur, non fere (8) divites esse, tametsi dignissimi sint, qui divitias habeant, utpote divitiarum domini non servi. Neque hæc dico quasi cupiditate tenear opum possidendarum, quas etiam abjiciendas (9) esse vel ex tuo unius facto intelligo , qui amplissimum patrimonium in Christi pauperes es dilargitus (10) . Quid ergo dicam paupertatem ne me præferre divitiis? Mentiar si id dixero. Non erit quod abs te mihi impendendum habeam divitias ne paupertatem patiar (11) : pudendum est hoc apud te dicere, qui paupertatem divitiis prætulisti. Quid igitur ? Tacebo naturæ, at non mihi integrum tacere quum loqui cœperim ! Est quidem, beatissime Pater, paupertas anteferenda opibus, ut Apostoli et Apostolorum æmulatores fecerunt, quorum tu primus es. Sed hoc non nisi perfectorum est opus admirandum mihi potius (1) Ed. sunt. Corretto nell'Errata. (2) Ed. i domine me (8) Ed. studii...complexa. Studii corr. nell'Er. (4) Ed. laborem (9) Ed. abitiendas (5) Ed. ad intricem (6) Ed. placere (7) Ed. judicum ( 8) Ed. fore (10) Ed. dilargtiurus. Corretto nell'Errata. Questa frase dimostra la lettera diretta ad Eugenio IV, il quale nel farsi monaco donò le proprie ricche sostanze ai poveri, come narrano gli storici ; largizione che non potè fare maestro Tommaso Parentucelli , perchè poverissimo , quindi impedito di spogliarsi del suo per donarlo ai poveri. (11) Ed. ad hoc mihi ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 31 quam sequendum. Mecum vero bene agitur, sed cum Propheta possum dicere : Divitias et paupertatem ne dederis mihi. Nam ut ille mediocrem quamdam vitæ (1 ) conditionem a Deo petivit , ita ego abs te , qui vicem Dei in terris obtines, petendum censeo. Qualis autem mea conditio vel ex hoc datur intelligi, quod nunquam mihi nec officium, ut nunc loquimur, nec beneficium fuit, et tamen necesse est habere unde suppeditentur sumptus non modo ad vitam, sed etiam ad complusculam librorum suppellectilem, ad scribendos (2) libros qui quotidie a nobis componuntur , nec sine unius saltem pueri ministerio fieri potest. Certe apud antiquos tam nostros quam græcos institutum fuit ut publice solveretur qui aliquid utile vitæ hominum condidisset (3) ; quæ exempla prætereo, quod tecum christiane potiusquam gentiliter, et precibus quam rationibus agere volo. Ait enim sanctus quidam quod ad Deum cum fiducia accedamus , nihil hæsitantes : sic ego nihil de tua clementia dubitans ad pedes tuos venio, ut cum domino nostro Jesu loquerer, ita tecum, qui Ejus vicarius es , loquor. Si mea anteacta (4) vita nulli crimini petulantiæ , audaciæ , flagitii obnoxia fuit ; si in futurum spes innocentiæ et integritatis , ne dicam utilitatis, ostenditur ; si non avare , non ambitiose , sed necessarie (5) et justa de caussa peto ; si te amavi semper et colui ; si spe tui in hanc urbem commigravi (6), et in te uno spem reposui, oro te et obtestor (7), ne hanc meam in bonitate tua atque clementia expectationem destituas, quod longe abest a sensu ac moribus tuis (sic enim mihi persuadeo) . Si ullum unquam fuit tempus in quo bonis viris ac literatis bene sperandum foret, id tempus profecto (8) nunc est, in quo te omnium plane sanctissimum pontificem habemus. Nihil autem a te, beatissime Pater, nominatim postulo quo (9) mihi gratificeris, animus enim tuus sapientissimus ac clementissimus te edocebit quid in me potissimum ferendum putes : unum illud cogitato, nullam benignitatem esse , nec danti laudabiliorem quam quæ in bonum virum, nec accipienti gratiorem quam quæ in nihil habentem, nec utrique jucundiorem quam quæ in hominem amantissimum sit. Vale. Florentiæ (10), V calendas decembris anno a natali Christiano MCCCCXXXIIII (11). Ad sanctissimum ac beatissimum Eugenium quartum (12) divina providentia pontificem maximum. (1 ) Ed. vice (2) Ed. escribendos (4) Ed. an (5) Ed. necessario (3) Ed. condidissent (6) A Firenze, dove nel 1434 s'era rifugiato Eugenio IV fuggito da Roma. (7) Ed. ut (9) Ed. quod (8) Ed. profeto (10) Ed. Caieta (11) Ed. 1488. -Nella Vita del Valla, p. 87, esposi le ragioni per le quali credo questa let- tera scritta da Firenze il 27 novembre 1434 e diretta a papa Eugenio IV. (12) Ed. Nicolaum quintum 32 G. MANCINI II. [Dagli Opuscula quædam, f. Giii] Laurentius Vallensis eximio viro Joanni arretino [ Tortelli] salutem. Accepi te mirifice deditum literis græcis , quo nihil pergratius (1) est. Pro nostra amicitia spero te singularem virum fore in studiis humanitatis, ut et in ceteris artibus, sed hæc alias. Nunc per festinantiam scribo volens abs te certior fieri an libros meos fratri (2) meo reddideris, an tecum retinueris, ut sciam, quando opus erit, ad quem possum (3) recurrere. Vale. III. [ Dagli Opuscula quædam, f. Gii] Laurentius Vallensis Joanni arretino sal. d. Moriar nisi plus spei in te reponam quam in ceteris literatis ad commendationem mei operis Elegantiarum, quippe quem novi ut eruditissimum ita optimum virum, minimeque lucri obnoxium , sed invicem tibi polliceor te habiturum ex nostro opere quo seniores atque adeo multa tam sæcula, non dies corrigas (4) , sed corripias , non ut mortui aut senes corrigi possint, eoque corripi velint, de senibus (5) loquor. Fateor , mi Joannes , licet plus doctrinæ quibusdam jam natu grandibus quam ceteris adsit, possintque sincerius judicare, tamen parum eis confido dolituris (6) se a junioribus superari, nec iis quidem uno aut altero, sed infinitis. Namque opus meum non modo me doctum (7) esse declarat , sed etiam alios perdocet, et, quod istos urit, ostendit quibus in locis erraverint. Nolo tecum multis verbis de hac re loqui nisi hoc unum te nulli operi plus studii esse tributurum. Opera abundant (8). Opus Dialecticæ et philosophiæ jam absolvi, nullis (9) improbandum nisi qui perdidisse operam in dialectica dolere possunt. Opus meum De libero arbitrio istic reperies (10) certe apud literatorem quemdam, ut accepi, bonum virum et doctum, Vulcanoque incedendo similem: nomen ignoro, sed ignotus esse non potest, qui publice legit. Transtuli anno (11 ) superiore (1) Ed. quod mihi peragratum. Nell'Errata mihi è corretto in nihil. (2) Ed. ftatr. Corretto nell'Errata. (3) Ed. possem (4) Ed. corrigias (5) Ed. possunt... volunt... senibius (6) Ed. dolitrus . Corretto nell'Errata. (7) Ed. dotum (8) Ed. abundat. Aggiunto nell'Errata. (9) Ed. absolvim nulli (10) Ed. reperias (11 ) Ed. animo. Corretto nell'Errata. ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 33 tres et triginta Fabellas Æsopi, et primum librum Xenophontis de vita Cyri. Paucissima enim græca hic habeo , sed illis opera luditur ad laborem comparata : transferendum Homerum curavi (1 ) ex Iliade libros quatuor ad characterem oratorium , adeo ut levissimum fuerit in comparatione transtulisse Orationem Demosthenis, quam ipse istic converteram. Hæc omnia intra duos menses perferam. Tu nihilominus interea ad me cum de ceteris rebus, tum de studiis tuis scribe . Vale. IV. [ Dagli Opuscula quædam, f. Fiii] Laurentius Vallensis Joanni arretino salutem dicit. Literas tuas heri accepi post tres et triginta dies quibus ad me dederas, sed tanto jucundiores quod præter spem venerant , in quibus mores tuos suavissimos et egregiam in me benevolentiam agnovi, notam quidem alias, sed nunc nescio quomodo effusiorem. Itaque tibi ago et habeo gratias, quod meum nomen ab improbis defendis, quos plures per te esse intelligo quam putaram. Sed mihi crede ; quum ad te Elegantias misero maledicos istos, nec plane literatos, retundes. De libris Philosophiæ quamquam idem spero, tamen non tantopere irascor generi hominum impolito , qui nihil nisi scabrum et rude legere possunt . Hos autem omnes istuc libros portassem, nisi bella tam sæva præter opinionem exorta essent , ut nec vos egredi sinant ; tamen quum primum (2) fuerit oblata occasio, veniam. Interim mitto ad te opusculum, quod proxime composui, rem canonici juris (3) et theologiæ , sed contra omnes canonistas atque omnes theologos; quod , si mecum senties, opus aliis (4) ostendes : sin (5) minus, in quo dissentis ad me rescribas. Persuasum (6) habeo te pro tua vel singulari eruditione non posse falli , vel singulari in me amore non posse fallere. Vale et me contra falsa dicentes defende. Capuæ. VIII kalendas junii. Iterum vale ex urbe. V. [ Dagli Opuscula quædam, f. G]. Laurentius Vallensis Joanni arretino sa. d. Quatuor ferme jam mensibus huc atque illuc vagatus sum, ut ad te scri- (1) Ed. civiis. Nell'Errata corretto civiï. (2) Ed. plurimum. Corretto nell'Errata. (3) Ed. viris Giornale storico , XXI, fasc. 61 . (4) Ed. allis . Corretto nell'Errata. (5) Ed. viris. Tolto nell'Errata. (6) Ed. persuasim. Corretto nell'Errata. 3 34 G. MANCINI bere non potuerim , ne ad meos quidem, quamquam binas literas ad te dederam quas Romæ substitisse (1 ) cognovi ex homine , qui meas cum suis literis istuc mittebat. Itaque ut longam intercapedinem qua nullam accepisti pensarem, constitui ad te mittere Elegantias nostras , et eas quidem interpolatas et addictionibus circumlitas, tanti (2) te facio cui secretissima quæque aperire non erubesco. Et malui deformem codicem potius cito mittere, præsertim amico avide expectanti , quam sero eumdem polite accurateque scriptum. Nam quum statuissem alicui transcribendum dare, revocans postea consilium, quod tum magnitudine operis, tum raritate atque imperitia librariorum non possem (3) ad te Elegantias mittere ante tres aut quatuor menses ; quas ea quoque caussa non putavi tibi aliter mittendas, ut significarem non me illas edere , sed ante (4) quam edendæ sint tibi ostendere , et judicium tuum exquirere, dumtaxat in his quæ tractavi : nam forsitan alia quædam aut adjicerentur, aut mutarentur, aut tollerentur si libros quosdam, qui restant mihi legendi, legissem ; quorum sunt duodecim comœdiæ Plauti recenter inventæ, Donatum in Terentium, cujus tantum Eunuchum vidi, Victorinum, Cornelium Tacitum, et si qui sunt alii, quos quum hic non reperiam ad vos venire decreveram , ut istic illos percurrerem : eis non lectis non existimo mihi opus publicandum : si non publicandum , ergo ne transcribendum quidem. At deforme est, sic fœde (5) scriptum mittere. Ita sane apud alios qui illud publicari a me credunt crederem (6), non apud te : non minus gratior est mea simplicitas et profusa benevolentia quam sollicita ac suspiciosa prudentia; ex quo intelligis , mi Joannes , non ostendendas Elegantias meas aliis, nisi forte a te transcriptas , et ita ut testeris (7) a me nondum publicari ob eam tantummodo, quam dixi, caussam. Nam alioquin satis eas abundeque elimavi, et, nisi fallor, tales effeci, ut doctissimi homines multo plura admirari in his , ne dicam discere queant , quam carpere. Tu tamen ante omnia ad me rescribes quid sentias , plurimum enim tibi tribuo (8) , sive ob singularem eruditionem per quam falli non potes ; sive ob eximium in me amorem per quem mentiri nescires : utinamque mihi licuisset istuc venire : et si qua emendanda aut perpolienda essent coram potius admoneres. Sed forsitan veniam, et si per regem licebit, statim post secundum pascha (9). Ad Leonardum arretinum scripsissem, sed vides caussam quare non fecerim ; faciam postea quum te transcripsisse putavero : quod quum feceris, domino (1 ) Ed. substitulisse. Corretto nell'Errata. (2) Ed. quanti (3) Ed. posse (4) Ed. anti (5) Ed. fide (6) Ed. crederent (7) Ed. testeis . Corretto nell'Errata. (8) Ed. tribui (9) Ed. pasca ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 35 Ambrosio (Dardanoni) a quo accepturus es, opus restitues ad me remittendum . Vale. XV kalendas aprilis. Caieta. VI. [ Dagli Opuscula quædam, f. Gii] Laurentius Vallensis Joanni arretino salutem d. Ita ne (1) de me pessime sentis, mi (2) Joannes , ut tam facile irasci me putes? At in quem amicum taceo, ob quam caussam, quæ nulla, tanta esse potuisset, ut vel minimum de singulari meo in te amore detraheretur ? Ideo tibi non rescriberem, quod me admonuisses, non illico prudentissime et amicissime ut fecisti, sed licentius ac mordacius ? Noli, quæso, mi Joannes; de me , si tibi amicum existimas , ita tibi persuadere quod (3) ego item de te facio. Nam interea dum a me nullas accepisti literas, nunquam te existimo mihi succensuisse, et tamquam impotenti atque agresti homini fuisse iratum. Ita namque tui mores placidi ac lenes sentire (4) me volunt. Quid autem caussæ fuerit cur aut intermiserim scribere , aut tu literas meas non acceperis, opinor me jam tibi scripsisse. Nam partim morbo meo, partim culpa eorum quibus bis terve dederam, id contigit: recentes vero literas existimo tibi jam redditas. Unas enim levir ( A. Dardanoni), quas cum Elegantiis (5) mittebam, levir meus ait se (6) ad te misisse, alteras (7) ( ut reor), reddidit Jacobus Martini regius scriba , licet jam te Bononiam (8) contulisti miram (ut scribis), ob caussam ; addis alia multa mira, sed de his aliisque scribam ad te latius. Nunc animus De Elegantiis sollicitus est quidquid sentias, de qua re tamen respondebis. Forsitan ad te libros De vera philosophia mittam, quos proxime transcripsi ut edam una (9) cum libris olim editis De vero bono , quos habes non ita exactos (10) ut penes me sunt. Hæc satis. Nolo autem nunc te nisi in cognoscendis Elegantiis versari , quo mihi certius diligentiusque respondeas. Vale. VIII idus martii. Caietæ , (1) Ed. nec (2) Ed. uri (3) Ed. quo (4) Ed. sententia. Corretto nell'Errata. (5) Ed. quum Elegantias (6) Ed. sed. Corretto nell'Errata . (7) Ed . esse (8) Ed. bono jam (9) Ed. adam unam (10) Ed. exatos 36 G. MANCINI VII. [Dagli Opuscula quædam, f. Fiii] Laurentius Vallensis Joanni arretino salutem dicit. Accepistine (1) adhuc Elegantias ? An improbitas quorumdam non sinit ? Si non accepisti , quod absit , scripsi ad levirum meum (2) et ad Aurispam ita ut non rear te diutius illis esse cariturum; alioquin Florentiam accurram et illum hominem adibo, statimque abreptum opus ad te transmittam ; quod si ad te minime perlatum fuisset , fortasse ad te venissem: coram te cum multa essem facturus tum De Elegantiis, tum vero de libris Philosophiæ, quos ad te, etsi occupatus es in Elegantiis lectitandis, tamen mittere volui : compertum habens opera mea tibi non plus occupationis quam voluptatis esse præbitura, quum præsertim tam eruditus sis , tam sedulus lector, adeo te uno eodemque tempore opinor ad utrumque opus mihi posse respondere quid sentias. Quod si multa fuerint quæ communicanda tibi mecum videantur esse et quæ (3) publicationem operis remorentur, ad me scribito, statim enim istuc advolabo. Neque vero existimes (4) laborem mihi difficilem fore : nam quid non mihi facile sit dum summa manus imponatur operi, quod tot annis assidua cura elaboratum est , præsertim quum te cognitorem habeam , quo nemo in hac disciplina doctior, nemo est mei amantior ? Itaque ingenue ad me scribas quod sentias. Nec quæso de me tamquam de oneroso (5) et petulante ac tumido homine sentias , quam fideli amico : gravia consilia , velut medicamenta respuant quidam ægroti faciunt (6) , siquidem ægroto animo est cui salubria consilia non sapiunt , quasi abrupto judicii palato. Illud enim velim inprimis cogites , te auctorem mihi futurum infamiæ si quam incurrero, si opus publicandum censebis quod publicari non merebit (7) ; non dico infamiam improborum atque iniquorum, sed justam reprehensionem. Desunt autem quædam arbores quas ego excogitavi a Serra ita eleganter adornatas (8), ut plurimum condimenti existimem eas operi esse : eorum exemplar licet non exactum nec tamen omnino ipsius Serræ manu transcriptum (9) . A quo, Basileæ enim agit, estque scriptor apostolicus, et meo et tuo nomine arbores illas poma aurea ferentes (10) et mihi sæpe promissas ( 11) velim literis poscas: (1) Ed. Accepesti. Corretto nell'Errata. (2) Ambrogio Dardanoni. (3) Ed. qui (4) Ed. me (5) Ed. honoroso (7) Ed. publicati... merebitur (8) Ed. Sera... adornata (9) Ed. omnium... manum transmito (10) Ed. ferentis ( 11 ) Ed. eas (6) Ed. fatiunt ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 37 habet namque ipse exemplar horum librorum sua manu, qua nulla apud gotolarios (1) est limpidior (2) scriptum, licet non tantopere castigatum ut hoc quod ad te transmitto : adeo ut hoc quod penes me remanet, ne mihi quidem jam satis legibile sit , tot vulneribus cicatricibusque confossum est , quare postquam judicaveris (3) velim codicem ad levirum meum, aut ad me remittas (4). Mitto etiam Epistolam apologeticam (5) ad ipsum (Serram) ut facile (6) sacras arbores impetres ; quam epistolam ille una (7) cum his libris eodem in codice conscripsit. Quid scribam aliud non occurrit, quum expectem ego potius tuas quam abs te putem expectari meas. Nam ternas ad te literas dedi, unas quas tu acceperas, ad Ambrosium (Dardanoni) remisisti legendas, alteras ubi De Trinitate te interrogabam, tertias in quibus ad querelas tuas amicissimas quidem illas, sed tamen contra alios meum crimen reposui (8), quas etiam puto ad te fuisse perlatas. Nunc abs te tuas expecto (9), ita expecto ut dies horasque numerem. Vale. Caietæ, pridie natalis sancti Joannis a quo tu sortitus (10) es nomen. VIII. [Dagli Opuscula quædam, f. Fiiii] Laurentius Vallensis Joanni arretino salutem dicit. Accepi proxime literas tuas et semper mihi jucundissimas, quibus agnovi benevolentiam, diligentiam, consilium tuum mirificum. Itaque auctoritate tua, præsertim amicissimi hominis , moveor equidem et prope ad assentiendum adducor (11 ) ; de relinquendis novis opinionibus loquor. Sed quum me ad rationem refero , atque ad mea quæ condidi opera, quid est quod istuc , quod vos amici admonetis , ad fugiendum reformidem ? Qui omnem veterum sapientiam meis operibus everto , qui possum in minoribus rebus et (ut sic dicam) extraordinariis opinionibus non libere loqui ? Vidisti in libris De vero bono, quod ad mores (12) pertinet, me ab omnibus dissentire, quod etiam in libris De institutione philosophiæ feci , in quibus unam feci virtutem, quæ est fortitudo, nihilque differre a prudentia malitiam, nec ullam differentiam (1) librarios? (2) Ed. lepidior (3) Ed. indicaveris (4) Ed. et... remitas (5) È l'epistola Serra suo stampata in Opuscula quædam, f. Aii , e ripubblicata dal SABBADINI nella Cronologia della vita del Panormita e del Valla a p. 81. (6) Ed. ad (7) Ed. unam (8) Ed. salvium meum crimen respondi (9) Ed. expeto (10) Ed. sortius (11) Ed. inducor. Corretto nell'Errata. ( 12) Ed. majores. Giornale, XX, 454. - Cfr. FLAMINI, in questo A 38 G. MANCINI inter cardinales theologicasque virtutes , et multa hujusmodi. Præterea de dialectica ita ut Boetium , ne dum alios derideam, de naturalibus somniare philosophos in plerisque ostendo. Metaphysicam totam constare in pauculis verbis, nec in rebus versari, sed in vocibus, easque voces ab Aristotele per miram hebetudinem ignorari ; omniaque illa vocabula, concretum et abstractum, quidditas, essentia, esse, ens, frenetica plane esse, nullius ponderis : quæ si ille (1 ) intellexisset, nunquam tantam aliis insaniendi materiam præbuisset. Hæc ergo quum scripserim , quid scribere verebor ? Adde huic libros Elegantiarum linguæ latinæ, in quibus Priscianum, Servium, Donatum, Macrobium, Aulum Gellium, Marcellum, jureconsultos, Lactantium, Hieronymum, aliosque (2) reprehendi, neque aliter, salva fide operis, facere potui. Numquid retexam jam quod tanto labore detexi ? (3) . Idem ego sum qui in (4) Commentariis quos in Ciceronem et Quintilianum scripsi præposui (5) Quintilianum Ciceroni , Demostheni, atque ipsi Homero ? Ideoque qui non studiosissimi fuerint (6) Quintiliani eos nequaquam eloquentes existimo , quorum fere omnes sunt horum temporum homines quos abesse a perfecta vi dicendi, si una (7) tu et ego essemus, ostenderem. Igitur quum ex omni parte sapientiam divinam humanamque claudicare videam, nonne ea pro virili mea parte suffulciam? At mordent multi. Mihi crede , non mordent hi canes, sed latrant ; nec generosæ feræ est ob (8) latratus catulorum ab instituto itinere deflectere, tunc autem mordent, nec resistendum mihi putarent quum opera nostra invaderent et confutare tentarent. Denique ut multus non sim, vix mihi videor (9) posse componere in quo non aliquid novi afferam , alioquin nescio cur mihi scribendum esset, quemadmodum semper doctissimi quique fecerunt, nisi qui poemata aut historias scribunt. Nam, quod ad opus attinet, quod aggrediendum mihi suades, et immensi (10) laboris id est , et in quo non minus repugnandum ceteris scriptoribus foret , quam in aliis operibus feci : quæ materia ad te magis pertinet, qui locupletissimus in omni ( 11 ) doctrina es, et abundas libris, quorum hic mira est paucitas. Quod autem commendasti cardinali ( 12) negotium meum, fecisti amice, sed secretariatum (13) papa ne delatum quidem acciperem, ministerium literis inimicum et otio, quo ministerio si uti voluissem potius apud regem uterer. (1 ) Ed. illa (2) Ed. quos non (8) Ed. detexui (4) Ed. præponam ut (5) Ed. præponam (6) Ed. fuerunt (7) Ed. unam (8) Ed. generose ferre est ad (9) Ed. vidiate (10) Ed. in mensi (11 ) Ed. omnis . Nell'Errata corretto omnia. (12) Giuliano Cesarini ? (13) Ed. secretarium ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 39 Sed nihil mihi tanti esse potest ut rationem quam habeo cum studiis ( 1) paululum intermittam, eoque (2) insaniæ processi ut stultos existimem omnes eloquentiæ studiosos, qui amore amplificandi (3) peculii jacturam fecere literarum , quæ maxima pars est , eoque illis minime invideo. Commenda me domino cardinali non ea caussa ut apud pontificem maximum pro me intercedat, sed quia hominem summa veneratione judico, cultuque (4) dignissimum. Vale. Hæc scripsi abeunte græco hoc abbate , quem videbis audiesque (5) non loquentem. IX. [ Dagli Opuscula quædam, f. Giiii] Laurentius Vallensis Ambrosio [ Dardanoni] suo sal. d. Fornarius tabellarius quum hic multis diebus fuisset, hodie primum mihi forte inventus (6) est. Hic ait alio adventu suo detulisse ad me vestras literas , sed eas , quia rex (7) eo tempore obsidebat Neapolim , non potuisse mihi reddere, qui essem Caieta: ideoque in redeundo lacerasse (8). Idem ait invenisse Bononiæ Florentiam redeuntes (9) . Scitis caussam, quare ad li teras vestras nihil responderim: quippe quas non accepi . Ipse tamen ad vos misi quam plurimas in eamdem omnes fere sententiam , quia nihil novæ materiæ in novis literis occurrebat, quod item facio in his præsentibus, adeo ut supervacuum putem replicare totiens quae scripsi in aliis literis : unum tantum dico quod cupio vos revisere (10), si modo et rex mihi permittat et vos consulatis . Mallem tamen Romæ quam Florentiæ ( 11), in domo vestra quam aliena, præsertim quum totam progeniem uno adventu reviserem. De negotio canonicatus jam sæpe scripsi, et misisse ( 12) me ad vos literas regias cum exemplo et rem commissam esse eximio militi domino Berangario Mercadeo legato verbis ipsius regis domino duci referendam. Valete. Commendate (13) me cum salutatione dominæ matri communi , domina uxori vestræ , dominæ aviæ et materteræ , cum domino Ludovico, ceterisque. XV calendas aprilis. Caietæ. (1 ) Ed. ut (2) Ed. eo quæ (3) Ed. amplicandi (4) Ed. cultoque (5) Ed. audiensque (6) Ed. in vetus (7) Allude al re Alfonso ed all'anno 1438. (8) Ed. lacerassu. Corretto nell'Errata. (9) Ed. rendentes quia (10) Ed. reviscere ( 11 ) Ed. Romam quam Florentiam (12 ) Ed. mississe (13) Ed. Comengate. Corretto nell'Errata. 40 G. MANCINI X. [Dal cod. Vaticano 2906, f. 52 v. ] Laurentius Vallensis Francisco ferrariensi [ Marescalchi ?] salutem. Singulis diebus ad te singulas saltem literas dabo , dumtaxat non deficiente argumento. Ubi literas superiores ad te dedi , succrevit incogitato mihi quod domini C. et S. verba (1 ) quæ ad te scripsi, dicenda mihi existimaverunt ad me deterrendum. Nam etsi vidit regem invitum consentire ut Romam me conferrem , et fortassis seorsum mandatum habuit ut (2) cum camerario (3) ageret ne possem Romam revertere, tamen (4) velim explores an ita male tutum mihi esset istuc venire. Haud dubito te diligenti conjectura ad verum perventurum. Velim præterea ad Aurispam meis verbis scribas ne Notas in Raudensem meas edat (5) , utpote nondum emendatas ; sed Romam ad Ambrosium (6) meum, vel ad me huc mittat, meque jurare ubi illas emendaro, autem (7) paucos inter dies, ad eum primum me missurum . Vale. XIII kl. martii. Neapoli. XI. [Dal cod. Vaticano 2906, f. 55] Laurentius Vallensis Lælio suo salutem. Venissem hodie per tempus ad merendam , ut heri constitueramus , nisi multæ causæ fuissent impedimento , quæ partim corpus afficiunt , partim animum. Corpus quidem male se habet multis in membris: primum caput dolet de vento, scis enim quantus (8) hodie ventus cum pluvia fuit : deinde pes, nam calceolarii culpa pes ita mihi constrictus est ut pene podagricus (9) sim, cum præsertim hodie prima luce ad meridiem iter fecerimus (10) . Ex quo de via quoque lassus sum et totus admodum langueo , eo quidem magis quod agam pustulas tam ex imbri. In via gustavimus (11) , quod referunt mihi, minacias quas (12) in me evomuit vir ille turbulentus quem nosti : ex quo , non quia timeam , sed quia indigner , mihi cordolium est. (1) Ms. nu... d... va (2) Ms. manda... et (3) Lodovico Scarampi. (4) Ms. Tī (5) Ms. edet (6) Il Dardanoni. (7) Ms. aute (8) Ms. quantum (9) Ms. podacricus (10) Ms. ita facerimus (11) Ms. fustelem... gustavi ans (12) Ms. minacie quibus ALCUNE LETTERE D1 LORENZO VALLA 41 Pauloque ante cum eumdem procul viderem , parum abfuit quin indignationem meam in eum declararem. Sed de hoc satis. Multa enim scribere non possum propter quas dixi caussas, quia dolet mihi (1 ) caput de vento, quia dolet pes culpa calceolarii, quia dolet truncus corporis, quia lassus (2) sum de via , et quia bibi aquam improbam succulentam (3) , quia præterea cordolium patior (4) propter hominis improbi minacias. Ita excusationem meam accipito, quod per tempus ad merendam venire non licuit. Bene vale (5). XII. [Dal cod. Vaticano 2906, f. 54] (Copiò Giuseppe Presutti). Laurentius Vallensis ad dominum cardinalem [Thomam Parentucelli serzanensem tituli s. Susannæ] . Scio ego, reverendissime pater, non modo usitatum inter amicos esse, sed etiam decorum ut ad alterius prosperitatem quisque, quemadmodum intra gaudet, ita illi ipsi se gaudere significet, hoc est gratuletur ; quod (6) nunc facere institui (7) . Quod ad tantum dignitatis fastigium (8) ascenderis vehementer quidem tibi gratulor (9) cum quo multis jam annis , etsi non pro magna familiaritate propter absentiam meam, tamen (10) arcta benevolentia sum (11) conjunctus, tuarum doctrinarum mirabili copia (12) et virtutum præ. stantia inductus. Verum alia me quædam ratio major ad gratulandum hortatur, ipsa virtutis doctrinæque remuneratio. Etenim quum ad istud te honoris culmen promotum considero, non habeo mihi verbum ut dicam quo (13) doctrinarum virtutumque choro es (14) adornatus, quæ semper in isto tuo pectore velut sacrario habitaverunt. Ex quo non tam tibi gratulari debeo quam probitati, quam scientiæ, quam ipsi quoque, quam adeptus es, dignitati, cui (15) non minus reddis fulgoris quam ab ea accepisti . Quod si me inter probos doctosque connumerare possum, quod credo, et (16) mihi quoque ex ampli- (1) Ms. milia (2) Ms. lapsus (3) Ms. improbi scusculentam (4) Ms. potiōr (5) Ms. valete (6) Ms. me (7) Ms. inter (8) Ms. fastidium (9) Ms. inter (10) Ms. tam (11) Ms. fui (12) Ms. me debili (13) Ms. vim set (14) Ms. chorus esse (15) Ms. tui (16) Ms. ut 42 G. MANCINI tudine tua gratuler haud ( 1) absurdum est et quidem vehementius quam amicitiæ . Nam gaudere prosperis amicorum quivis potest (2), magna est enim amicorum et familiarium multitudo , de vulgaribus amicis loquor, de felicitate vero bonorum (3) ac sapientium percipere voluptatem nonnisi in bonum cadit ac sapientiæ amatorem, quod genus hominum (4), sicut reliquarum rerum pretiosarum rarum (5) est et exigui numeri. Et sicut amici (6) carorum secunda fortuna se augeri intelligunt , ita nimirum probos sapientiæque studiosos ex prosperitate sibi similium (7) secundari confitendum est. Cum præsertim nulla sit neque verior, neque constantior amicitia quam inter honestos studiis ac virtute conjunctos ( 8) . Quare , pater reverendissime , istam tuam fortunam magna ex parte meam esse apprime puto (9) non aliqua futuri temporis spe , sed ipsa dumtaxat animi mei delectatione , quod bonis video bene esse. Quo ex facto sanctissimus dominus noster animum meum in se caritate, admiratione jam antea ardentem inflammavit atque incendit ut aliquando sicut siquidem modo in me facultas est, de laudibus ejus scribere ingrediar. Sed hæc alias. Nunc non (10) multis tecum agam (11). Utinam bunc meum erga te animum possem (12) coram et viva voce declarare, quod brevi, ut spero, licebit. Vale. V kalendas januarias (13) . Neapoli. XIII. [ Dal cod. Vat. 2906, f. 53] . (Copiò Giuseppe Presutti). Laurentius Vallensis ad dominum cardinalem [Joannem Carvajal] . Cum ex literis Ambrosii mei, reverendissime pater, certior factus (14) sum te creatum esse cardinalem, diu mecum multumque dubitavi, utrum (15) ipse Romam properato venirem (16) tibi gratulaturus, an (17) gratulatoriam pro me epistolam mitterem. Præoptabam equidem venire quam scribere, sciens quanto melius promitur animi conceptus lingua quam manu , et quod hac epistola tecum loqui tantum possum, coram autem ( 18) ac præsens etiam colloqui : (1) Ms. aut (2) Ms. post amicos (3) Ms. bonarum (4) Ms. hominis (5) Ms. harum (6) Ms. 6x (7) Ms. sui similiumque (8) Ms. honestis... convintos (9) Ms. fero (10) Ms. ne (11) Ms. dixerio ( 12) Ms. possit (13) 1446. (14) Ms. factum (15) Ms. ut cum ( 16) Ms. preperato veniret (17) Ms. ac (18) Ms. aut ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 43 præterea amplecti, videre, oscularique multum faciunt ad explendam animi aviditatem . Verum quia spero non ita post longum tempus me istuc venturum commodiusque facturum id quod nunc mihi denegatur, mitto ad te interim hanc præcursoriam epistolam quam tu pro meo (1) vultu aspicias , quæ manus tuas velut vicaria quædam mea contingat , quæ apud te tamquam domini sui obses in adventum meum permaneat. Ex quo tibi persuadeas velim exiguam gaudii mei significari partem (2) , quod percepi ex tua ad quam sortitus (3) es dignitate , quam Bonifacius octavus consulari comparavit. Quin (4) enim tantopere gaudeam ex tua amplitudine, cum repeto meam ab ultimo initio amicitiam , quæ ex tuis solidis (5) consummatisque virtutibus, et ex aliqua in me significatione probitatis doctrinæque orta est, et maxime te per quosdam veluti gradus ad majora assidue conscendentem summa præstitisse officia mihi etiam absenti , nec ulla aut locorum (6) aut temporis intercapedine memoriam mei, mentionemque omisisse ; postremo in ista tanta dignitate apud Ambrosium meum dulcissimis verbis desiderium mei (7) patefecisse. Quæ etiam si non essent tanta (8), verum pari dignitate ornatum te esse, si bonorum atque sapientium cultor sum, magnopere gaudere deberem et apud me tantas summo pontifici gratias et agere et habere pro viro omni laude præstante, quem maxima potiri (9) dignitate donavit ; habiturus immortalem gloriam quod summa virtutis præmia præcipue merentibus (10) conferat. Itaque sicut illum sapientissime fecisse judico , ita tibi optimo jure consularem dignitatem contigisse gaudeo ( 11) , ut ex nullius magis dignitate fuerim gavisurus. Nam te (12) prius judicavi quam amavi, quem postea sic dilexi ut dubitarim utrum propter humanitatem, facilitatem , bonitatem dilexerim magis, an propter gravitatem, sapientiamque suspexerim (13). Quo ægrius fero quod mihi de virtutibus istis tuis frui non liceat (14), sed ut spero brevi licebit. Quare plura non dicam , reverendissime pater , nisi tibi ut persuadeas paucos esse quibus jucundior sit omnis tua celsitudo, quam mihi, quem ab initiis (15) cum virtutibus, tum amantissimis officiis obstrinxisti atque in perpetuum adscivisti ( 16). Vale decus Hispaniæ. V kalendas januarias (17). (1) Ms. mea (2) Ms. parentem (8) Ms. solitus (4) Ms. Quid (5) Ms. solitis (6) Ms. ne... loquorum (7) Ms. meum (8) Ms. tantum (9) Ms. quanta maxime potiuntur (10) Ms. manentibus (11) Ms. gaudet (12) Ms. de te ( 13) Ms. suspenserim (14) Ms. licet (15) Ms. abicuis (16) Ms. adisisti E(17) 1446. 44 G. MANCINI XIV. [Dal cod. Vat. 2906, f. 55] (Copiò Giuseppe Presutti). Ludovicus Sacranus domino Laurentio Vallensi poetæ laureato salutem plurimam dicit. Statueram ( 1 ) ad te scribere quotiens quis istuc iter haberet, nuncium invenirem, sperans (2) amicitiæ nostræ caussa meas literas tibi futuras gratas. Deinceps quanto magis rem considerabam, a proposito tanto magis distrahebar. Indignum enim videbatur (3) ad virum latinæ linguæ et meo (4) et multorum doctissimorum virorum judicio hac in tempestate principem literas dare, quæ nec in stilo elegantiam, nec in verbis ornatum essent habituræ, nec in sententiis urbanitatem : huic enim consilio non parum acquiescens id a me recte factum putabam. Tandem hujusmodi sententiæ damnato consilio, animadverti satius esse, quamvis indocte scribere, quam omnino nihil. Sed hoc utor hac in mea taciturnitate solatio, quod si me tardum ac lentum putaveris et dignum objurgatione, eodem ego te crimine condemnare possem (5) et excusatione indignum, quippe quod tantum ingenio, doctrina, usu et exercitatione vales, præsertim in his nostris liberalissimis humanitatis studiis ut tibi scribendi materies (6) , sive fictiones , sive argumenta , sive historiæ deesse non possint (7). Et nunc tibi aliud trado scribendi genus, elimandorum, hoc est, et poliendorum meorum verborum ; nam hac in epistola non ambigo emendanda offendes plurima. Erit igitur virtutis et prudentiæ tuæ si ad me scribes, et in scribendo ineptias meas emendabis. Docebis Ludovicum tuum , ut scire debes, et scientiæ , et ingenii, et laudum tuarum prædicatorem. Si quid me tuo nomine hic fieri vis , jube. Hac enim in pollicitatione neque diligentiam in me, ut spero, neque beneficentiam desiderabis . Vale, et ad me nonnihil da, quam primum poteris, literarum quas avidissime expecto. Fac me commissum domino J. (8) O(lzina) optimo, gravissimo viro, magnoque regis (9) s(ecretario) . Apud Suessam (10) urbem nobilem. (1) Ms. Statuerim (2) Ms. speratis (3) Ms. videbar (4) Ms. modo (8) Ms. C. - (9) Ms. regio (5) condegnare potero (6) Ms. materie (7) Ms. possunt Si rileva dalla risposta che i saluti sono per Giovanni Olzina. (10) Ms. Sessam ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 45 XV. [ Dal cod. Vat. 2906, f. 55] (Copiò Giuseppe Presutti) . Laurentius Vallensis Ludovico Sacrano salutem. Etsi nullam abs te tui silentii excusationem desiderabam, cum omnia quæ a te fiunt dicunturque, a prudentissima mente et in amorem mei propensissima proficisci intelligam , mallem tamen , quamvis quam istam attulisses , qua me benevolentius potius quam verius extollis , magisque tuum in me studium quam de me judicium , pace tua dixerim , declaras. Quod (1) mihi molestius est quod facultatem mihi ereptam video tui laudandi , nisi impudens quidem ac putidus haberi velim , qui te ob id ipsum laudare judicer, quod abs te laudatus sum. Verum tua ut in rebus agendis, sic in scribendo laus, mea prædicatione non indiget ; ipsa se satis abundeque prædicat. Quod autem secundo loco in excusationem affers , quod si tardum lentumque putavero, eodem vicissim damnabis ipso me crimine, non ea ratione volo caussam meam esse defensam quod te non damno. Nam si utrumque in hoc genere putarem peccasse, utrumque potius ingenue accusarem. Sed quia (2) culpam quam mihi objicis non agnosco , quippe adscripserim et quidem nonnihil de elegantiis, quarum una fuit ubi codicem Ciceronis De oratore in prooemio ad suam sinceritatem revocavi, eo in loco ubi dicitur « quam boni pro diu nulli » quod scribendum erat « cum boni perdiu nulli » (3) , ut inspectio ipsa verborum plane ostendit ; quoniam de elegantiis feci mentionem, ut a purgatione silentii recedam. Proximis diebus relegi politicam Aristotelis in qua (4) plus quatringenta errata (5) collegi Leonardi (6) arretini in lingua latina, quæ non audeo afferre nisi gravissimi alicujus testimonio confirmatus. Accedit huc quod ille me supremis prædicationibus ( 7) summopere in magna corona virorum laudavit. Eas notationes ad te mittam ut (9) quod mihi agendum existimes sciam. Tu enim potissimum eris in cujus testimonio judicioque acquiescam. (1) Ms. ego (2) Ms. quod (8) Lacuna nel cod. facilmente supplita ricorrendo al De elegantiis , lib . I , cap. 17 : Ausim affirmare mendose scriptum in proœmio De Oratore Quam boni perdiu nulli, quasi de valde bonis et non potius de bonis loquatur. Vera scriptura erat « boni perquam diu nulli », aut potius << cum honi perdiu nulli » , aliter enim videtur non congrue dici. (4) Ms. quibus (6) Ms. J. - (5) Ms. quatrigentos aurii Certamente allude a Leonardo Bruni tradottore della Politica aristotelica. (7) Ms. ne audeo emplaribus (8) Ms. variorum (9) Ms. ne 46 G. MANCINI Olzina noster, de quo ad me scribis, cum sex triremibus Phormiam prolegato, vel plusquam pro legato se contulit. Deus rem fortunet ac prosperet. Vale, propediem alias longiores dabo. Pridie nonas aprilis. XVI. [Dal cod. dell'Imperiale biblioteca di Vienna, nº 298, f. 158] (Copiò il dr. Alfredo Göldlin de Tiefenau) . Laurentius Valla Marino Tomacello salutem dicit. Ita me dii ament, hoc est sancti, ut tua dicendi vena respondet prudentiæ atque probitati quam semper præ te tulisti . Nam cum semper præferres gravitatem quamdam super ætatem et accuratam modestiam agendi loquendique, ita nunc induisti tibi stilum quemdam elegantem, tersum et accuratum, ut ex neapolitano romanus mihi factus esse videaris : romanus, inquam, ut literati nunc, ut vulgus loquitur. Quare perge et te quotidie excultiorem redde, et nobilitatem familiæ tuæ vel imple, vel accumula gloria literarum. Nihil enim est quo nobilitas neapolitana fieri possit illustrior quam romanitate unde omnis gloria emanat. Codices, ut jussisti, exquiro diligenter, sed partim sunt more prisco scripti, partim percari, præsertim propter initium studiorum propediem futurum. Non desinam tamen inquirere. Vale. Ex urbe pridie idus octobris. XVII. [Dallo stesso cod. , f. 158] (Copiò il dr. Alfredo Göldlin de Tiefenau) . Laurentius Valla Marino Tomacello s. d. Marine salve. Germanus tuus petasatus nunc ad me venit ac panulatus, chlamidatusque, dixitque vale; itaque non possum nec tibi multa, nec ad alios quicquam scribere. Antonelli vicem doleo perinde ac meam: scio enim quod doloris sit liberos amittere. Consolare eum meo nomine quoad potes, cui cum quietiore animo erit dicas ut prooemium meum super Collationem novi Testamenti ad me mittat, magnopere enim illud desidero, et item Antidotum in Poggium. Magistro Vin .... (1) gratulare de conjugio et felicitate, tum dicito (1) MB. vins ALCUNE LETTERE DI LORENZO VALLA 47 me mirari cur libros suos spernat, puto quod uxorem duxit. Magis dat operam labris quam libris : quod si libros non curat eos vendam, Helena mea jubente , etsi non tanti sint ut pecuniam debitam impleant. Fac ergo ut respondeat. Belloflori item dicito ut quatuor aureos ad me remittat, quos nuper ei mutuavi. Kalendis aprilis (1). XVIII. [Dal cod. dell'Imp. di Vienna, nº 3943 f. 225] (Copiò il dr. Alfredo Göldlin de Tiefenau). Clare et doctissime vir salve. Utrumque Antidotum tuum vidimus, a verticeque, ut ajunt, ad calcem legimus ; qui liber non solum nobis jucunditatem maximam ob suavitatem sermonis et copiam rerum attulit , verum etiam fructum singularem ; quippe multa, neque enim pudet nos verum fateri, in eo didicimus quæ antea ignorabamus, ut vere liceat nobis exclamare : « Senesco autem semper multa discendo » . Habemus itaque tibi et agimus gratias maximas. Opus vero tuum laudamus, probamus, extollimus, ac immortale et optamus et confidimus fore. Quod ad reditum nostrum pertinet, si id in manibus nostris esset , liceret nobis aliquid respondere , sed nosti id non ex nostra, sed ex pontificis maximi voluntate pendere. Vale. Bononiæ VIII kal. novembris. cardinalis B. Legatus. Tusculanus Claro et doctissimo viro domino Laurentio Vallensi amico nostro carissimo. XIX. [Dal cod. Bodleiano Canoniciano d'Oxford, miscell. 169 , f. 9] (Copiò Giorgio Parker). Quo magis me in te sperare jubes, eo minus vereor postulare ut tuis beneficiis quotidie magis atque magis exaugear. Nosti me huc profectum esse apud præstantissimum et eruditissimum virum, videlicet dominum Lauren- (1) 1454? 48 G. MANCINI tium Vallensem , ut adolescentiam meam in studiis humanitatis exerceam : est quidem (1) unus ipse quo ætas nostra videatur posse de laude et peritia cum antiquitate certare. Quem (2) ego adduxi, vel potius impuli ut orationes Ciceronis ab ipso audirem. Verum is non habet libros suos hic ..... quin essem tibi minus molestum. Quamobrem te oro atque obsecro ut codicem Orationum quem tibi transcribi anno superiori effecisti, mihi decem aut plusculos alios dies commodes (3). Feceris enim ut si quid ego studio consequi potero, post Deum immortalem, inprimis tibi gratias habiturus sim (4). Vale: nec petitionem meam vulgarem fore patiare. Iterum vale. XX. [Dallo stesso cod. , f. 9] (Copiò Giorgio Parker). Quotiens mihi occurrit cui possim literas meas committere, nunquam prætermitto, quin (5) aliquid ad te scribam. Pridie significavi tibi quod inceptum jam a nobis erat audire librum Ciceronis De natura deorum, ut magis parati in genere dicendi et eruditiores esse possimus, et, si quo modo possit (6) animo fieri, ejus libri participes, cum soliti sitis Ciceronis scriptis plurimum oblectari, ipse me libentissimo animo obtuli transcribere et illum mittere (7) ad vos. In præsentiarum vero cum mihi hic sit nuncius, te certiorem facio quod præceptor noster opusculum quoddam nobis incepit ab eo ipso compositum ut idonei magis et doctiores simus, si quando se nobis satis digna occasio præstaretur quo stylo familiari aut in attenuata figura scribendum aliquid dicendumve occurrerit (8) . Id tibi de hoc ipso polliceor quod et de priori promittebam , si transcribi ipsum vis , precor (9) me per tuas literas certiorem facias, nam defatigari aut defessus esse nunquam potero in his quæ ad te pertineant aut animo tuo gratissime satisfaciant. Vale. (1) Ms. eidem (2) Ms. tentare. Quin (3) Ms. comodas (4) Ms. sum (5) Ms. quando (6) Ms. esset (7) Ms. committere (8) Ms. occurrerunt (9) Ms. pro hoc LA STAMPERIA FIORENTINA DEL MONASTERO DI S. JACOPO DI RIPOLI E LE SUE EDIZIONI (1) Studio storico e bibliografico . SERIE DELLE EDIZIONI DI RIPOLI 1. Acciajoli Donato. -Expositio super libros Ethicorum Aristotelis in novam traductionem Argiropyli Bizantii. An. 1478, in-fol. È descritta dal Fossi al vol . I , col. 10. 2. Agostino (Santo). — Logica (in latino). Raro libretto che incomincia: AURELII AUGUSTINI LOGI | CA INCIPIT , e finisce : FINIT | IMPRESSUM FLORENTIAE APUD SANCTUM JACOBUM DE RIPOLI. ANNO DOMINI M.CCCC.LXXVIIII. In4° min. carat. rot. senza numer. e rich. con segnat. a-d quad. meno d che è duerno, carte 28, linee 25 e 26 per pagina. 3. Agostino (Santo). -— Logica (in latino). Titolo e sottoscrizione simile alla precedente , meno la data che è MCCCCLXXX. In4° , segnat. a-c, carte 24. Questa edizione, sconosciuta al Follini , e della quale non esiste memoria nel Giornale di stamperia, è citata nel Catalogue de la Bibliothèque de son Exc. M. le Comte D. Bouturlin. Florence 1831 , al nº 249 delle edizioni del sec. XV , e non vi è dubbio che sia una edizione differente da quella precedentemente descritta, perchè oltre la data, è diversa la segnatura e diverso il numero delle carte. (1) Continuaz .; vedi Giornale, XX, 349 egg. Giornale storico, XXI, fasc. 61. 50 P. BOLOGNA · L'Hain cita altre due edizioni di Ripoli della Logica di S. Agostino, una in lingua latina del 1478 al nº 2110 e l'altra in italiano del 1479 al nº 2113, ma forse non esistono. Il Giornale di stamperia rammenta soltanto una edizione del 1479 fatta per commissione di Bonifazio Peruzzi, che, secondo noi , è quella citata sopra al nº 2, e che fu ripetuta, come si è visto, nel 1480. Quanto alla edizione del 1478 non vogliamo tacere che potrebbe esservi un equivoco nato dal trovarsi nel catalogo della Casanatense, segnata erroneamente per l'anno 1478, la edizione sopra descritta del 1479 ; e quanto alla edizione italiana dello stesso anno 1479, è probabile che l'Hain togliesse la indicazione dal Fineschi (Op. cit.), il quale errò nello ammettere una edizione italiana della Logica di S. Agostino invece di quella latina del 1479, e nell'errore fu indotto dallo aver letto nel Giornale il titolo dell'opera in italiano ; di che fu ripreso dal Follini negli Annali delle edizioni di Ripoli. 4. Antonino (Santo). cura). An. 1477. - Confessionale volgare ( Omnis mortalium Edizione citata dagli Accademici della Crusca. È descritta nella Bibliografia dei testi di lingua a stampa dei sigg . Luigi Razzolini e Alberto Bacchi della Lega, Bologna, 1878, p. 24. 5. Bellezze di Firenze. An. 1482. È il capitolo sulle Bellezze di Firenze di Antonio Pucci , del quale trovansi diverse ristampe in antiche e moderne raccolte di rimatori toscani. Fu stampato per un tal Bernardino cermitore e per un altro Bernardino che cantava in piazza. 6. Birria e Gieta. - Novella in rima. An. 1483. Su questa novella può vedersi l'articolo che ne scrisse Gio. Batt. Passano nel libro I novellieri italiani in verso , Bologna , Romagnoli , 1863. Se ne conoscono tre edizioni del sec. XV. Quella che si ritiene fatta dalla stamperia di Ripoli è citata nel catalogo La Vallière e comincia , senza alcun titolo, con questa linea del testo : (Charo signor per cui la vita mia ecc. In fine : Finisce ellibro delbirria e delgieta compo | sto i rima da filippo brunelleschi e da ser domenico da prato. Laus Deo | Amen. In-4º , carat. rot. senza numer. e rich. , con segnat. , senza alcuna nota tipogr. , di carte 32 impresse a lunga riga, con tre ottave per ogni pagina. Risulta dal Giornale che era in vendita nel 24 ottobre 1483. 7. Boccaccio Mr Giovanni. -Il Decamerone. An. 1483. È indubitato che la tipografia di Ripoli stampò un Cento novelle, perchè LA STAMPERIA FIORENTINA 51 nel Giornale si leggono questi due ricordi che chiaramente lo dimostrano: Ivi a c. 95t: Ricordo che a dì 20 d aprile (1482) ' si cominciò il Centonovelle a stampare , e a c. 112 t : Ricordo che martedì 13 di maggio (1483) fù finito di stampare il Cento a petitione di Giovanni di Nato disse per Ser Pier Pacini da Pescia. Il P. Fineschi ritenne che si trattasse delle Cento novelle antiche, ossia di quella Raccolta che nella edizione di Firenze del 1572 , procurata dal Borghini , fu intitolata Libro di novelle e di bel parlar gentile contenente cento novelle antiche, ed il Follini negli Annali della tipografia di Ripoli al nº LXX seguì il Fineschi , riportando , senza troppo esaminarla, la sua asserzione. Per altro il Follini si accorse in seguito dell'errore del Fineschi , e considerando che le Cento novelle antiche non potevano essere conosciute al tempo in cui era aperta la stamperia di Ripoli, e che per stamparle, essendo esse di piccola mole , era soverchio il tempo indicato dal Giornale dal 20 aprile 1482 al 13 maggio 1483 , venne nella conclusione che si trattasse di un altro libro di cento novelle e precisamente del Decamerone del Boccaccio. E quindi esaminando quali fra l'edizioni conosciute di questa opera poteva essere quella di Ripoli, ritenne come tale una edizione rarissima, senza data, della quale si conoscono due soli esemplari , uno era nella Spenceriana di Londra e l'altro è nella Corsiniana di Roma (1). Il Dibdin, compilatore del bellissimo Catalogo della Spenceriana, nel volume VI, cioè nel 1° Supplemento , Londra , 1822, alle pp. 299 sg. registrò questa edizione, che fu confrontata coll'esemplare della Corsiniana, e, prima del Follini, suppose, lasciando per altro la cosa in dubbio, che fosse uscita dal Monastero di Ripoli, notando la strettissima somiglianza dei caratteri di essa con quelli del Fontius in Persium. Ma il Dibdin non conosceva la notizia dataci dal Giornale, per la quale , essendo certo che la stamperia di Ripoli pubblicò un Cento novelle, svanisce il dubbio in cui egli era rimasto, non avendo allora altre prove che la somiglianza dei caratteri . L'Audin de Rians, che ebbe occasione di vedere l'esemplare della Spenceriana , descrisse questa edizione nell' opuscolo Osservazioni bibliografico. letterarie intorno a una edizione sconosciuta del Morgante maggiore di Luigi Pulci, eseguita in Firenze nel 1482 colla descrizione di una edizione del Decamerone del Boccaccio che credesi eseguita nella stamperia di Ripoli circa il 1483, Firenze, stamp. Arcivescovile, 1831. Ma trattandosi (1) Vedasi l'opuscolo del FOLLINI intitolato : Lezione sopra due edizioni del sec . XV, l'una creduta delle Cento novelle antiche , l'altra del Decamerone del Boccaccio : nella quale si dimostra essere ambedue una sola edizione del Decamerone, Firenze, 1831. 52 P. BOLOGNA di un libro importante e rarissimo , crediamo opportuno di ripeterne qui la descrizione sopra l'esemplare della Corsiniana, quantunque abbia alcune imperfezioni. - Precedono otto carte preliminari segn. a, la prima delle quali, mancante nell'esemplare, deve presumibilmente essere bianca. In testa alla 2ª carta a2: PRIMA | quivi incomīcia la prima giornata del decamerone | nella quale dopo la dimostrazione facta dal auctore | perche ragione advenissi di doversi quelle persone | che appresso si dimostrano ragunare a ragionare | insieme | sotto il reggimēto di Papinea si ragiona di quella_materia che più agradisce aciascuno. Segue la tavola che occupa sette carte , dopo la quale incomincia l'opera con nuova segnatura sul recto della carta ai: ( )mana cosa e lhavere cōpassione agli afflic | ti ecc. Finisce sul recto della ultima carta del duerno T con 12 linee e con le parole FINIS AMEN. In-4º, carat. rom. , lin. 37 e 38 nella tavola e 36 nel testo. La prima iniziale del testo, per la quale è lasciato uno spazio di versi, è mancante. La segnatura del testo è a-z-&, a quaderno, gli altri terni, poi A- S tutti quaderni, T duerno. 8. Bolla del Rosario. An. 1481 . Fu cominciata a stampare il 4 agosto 1481. È certamente la Bolla del pontefice Sisto IV, con la quale fu istituito il rosario, ed è una pubblicazione differente dai Misteri del Rosario e dalla Oratione della Bolla del Rosario che ricorderemo più avanti ai n¹ 35 e 43. 9. Capranica Domenico cardinale di Fermo. - Arte del ben morire. An. 1477. 1a ediz. Operetta molto diffusa nella 2ª metà del sec. XV, della quale furono fatte dalla Ripoliana due edizioni. Di questa del 1477, che è la prima, diamo la descrizione sopra un bello esemplare della Corsiniana. Incomicia el phemio de larte del bene morire | cioe : in gratia di dio: copilato et coposto plo | reveredo padre mōsignore cardinale di fermo | anno domini MccccLii. In fine : AMEN. DEO GRATIAS. Segue poi una lauda, e quindi : Explicit tractatus de arte moriēdi qui for | tus (formatus) fuit apud scum Jacobu de ripolis de flore | tia anno domini MccccLxxvii. In-4º, car. rom. min. senza numeraz. e rich. con segnat. a-d quaderni , eccettuato d che è terno, lin. 23 e 24 per pag. 10. Capranica Domenico card. di Fermo. - Arte del ben morire. Anno 1479; 2ª ediz. LA STAMPERIA FIORENTINA 53 L'edizione precedente era in vendita nel 4 novembre 1477 , e questa fu terminata il 24 luglio 1479. L'opuscolo o trattato dell' Arte del ben morire (Ars bene moriendi) fu scritto originariamente in lingua latina , e si trova tradotto o imitato in molte lingue. Non si sa chi lo traducesse in italiano. Una antica edizione latina, senza data, attribuita a Ulrico Zell di Colonia , ne fa autore Matteo di Cracovia, o piuttosto Krokov , vescovo di Worms. In tal caso il cardin. Capranica l'avrebbe soltanto tradotto o parafrasato. 11. Cerbero. -An. 1480. Fu mandato a stampare da Gio. di Nato a dì 19 gennaio 1480 (st . com. 1481). 12. Cherubino. -- An. 1483. Fu incominciato a stampare a dì 15 di settembre 1483, e a dì 5 di novembre restò finito. Deve certamente essere il libretto allora tanto divulgato di fra Cherubino da Siena (conosciuto erroneamente dagli antichi bibliografi per fra Cherubino da Spoleto) dell'ordine dei Minori, intitolato Regola della vita spirituale e Regola della vita matrimoniale. È singolare che di questa edizione, della quale si tirarono 300 copie, non che di quella dell' Arte del ben morire del 1479 (nº 10), della quale si tirarono 400 copie e anche di varie altre edizioni non dubbie perchè ricordate dal Giornale, non si conosca oggi alcuno esemplare. Trattandosi di operette che erano ricercatissime, è facile che siano state consumate dall'uso che se ne faceva , e qualche esemplare avanzato a quella distruzione può anche trovarsi dimenticato o sconosciuto nelle scansie delle biblioteche pubbliche o private. Forse anche quelle edizioni furono fatte senza alcuna nota tipografica, e in tal caso ne potrebbero esistere esemplari fra quelle di questa categoria; ma ogni opinione o induzione a tal riguardo rimarrebbe sempre incerta. 13. Confessione generale. - An. 1478. È ricordata nel Giornale sotto di 12 gennaio 1478 (st . com. 1479) . Doveva essere una di quelle tante istruzioni per le confessioni che si stampavano in quei tempi. 14. Confessione di S. Maria Maddalena. -An. 1479. Fu stampata per commissione di Giovanni di Nato a dì 19 giugno 1479. Osserva il Follini che forse invece di Confessione deve dire Conversione. 15. Curzio (Quinto Ruffo). Historia d'Alexandro Magno. An. 1478. Bella edizione descritta dal Fossi al vol. I , col. 584. 54 P. BOLOGNA 16. Dichiarazione di S. Maria di Loreto. - An. 1483. Leggesi nel Giornale a car. 112 t : 1483. Don bartolomeo priore di sancta verdiana ci fe fare una lisima di fogli di scritte da uno lato una certa dichiaratione di sancta maria de lloreto. per amicitia ne de lire tre. 17. Donatello. - An. 1476. Piccola grammatica elementare detta Donatus pro puerulis o volgarmente Donatello. È il primo libro che s'incontra rammentato nel Giornale, del quale fu venduta una grande quantità di copie. 18. Esopo. - An. 1483. Se ne ha notizia soltanto per 24 esemplari che furono venduti a Giovanni di Nato in due volte nel 24 ottobre e 6 novembre 1483. - 19. Ficino Marsilio fiorentino. — Consilio contro la pestilenzia. An. 1481 . È descritta dal Fossi al vol. I , col. 672. 20. Fiore di virtù. ― 1 ediz. An. 1482. La 1ª edizione ripoliana di questa operetta ascetica, scrittura del trecento che ha avuto sempre molto credito, deve essere stata fatta nel 1482 o poco avanti, perchè nel Giornale si trova che nel gennaio di detto anno 1482 (st. com. 1483) fu venduto un Fior di virtù a un fra Domenico del Mugello. 21. Fiore di virtù. - 2a ediz. An. 1483. Fu incominciato a stampare a dì 25 agosto 1483 , e finito a dì 23 settembre dello stesso anno. 22. Fontii (Fonzio) Barptolomei. An. 1477. È descritta dal Fossi al vol. I , col. 692. Explanatio in Persii satyras. 23. Imagine di Maria Vergine del Rosario. - An. 1480. Nel Giornale a c. 20 si legge : 1480. Ricordo come per in fino a dì…….. avemo stampate mille Vergine marie del rosario per persuasione de frati di sancto marcho. Dal numero delle copie tirate si comprende che questa era una stampa in foglio volante, e il Fineschi e il Follini giustamente ritengono che si trattasse di una Imagine della Madonna tirata in legno e forse anche in rame. 24. Imagine di Santa Margherita. An. 1481. Si ritiene che anche questa fosse una imagine xilografica o in rame. Fu stampata per commissione di Gio. Francesco cerretano. LA STAMPERIA FIORENTINA 55 25. Istoria di Erode. - An. 1481 . Nel Giornale a car. 88 t : A di primo di dicembre tolsi a fare dal pigro ciermatore cinquecento operette in versi in rima derode dove entra uno foglio per una in quarto ecc.... 26. Lamento di Giuliano. - An. 1478. Era un libretto sopra la morte di Giuliano de' Medici avvenuta nel Duomo di Firenze per la congiura dei Pazzi nel 26 aprile 1478. 27. Lamento di Otranto. - An. 1480. Fu fatto stampare da uno cerretano dello reame. 28. Lamento di Pisa. An. 1481. Sarà forse la poesia pubblicata con questo titolo , insieme alla Risposta si disse fè lo imperatore a Pisa, dai fratelli Nistri in Pisa nel 1858 ; in-8°. 29. Leggenda della Beata Caterina da Siena. An. 1477. È descritta dal Fossi al vol. II , col . 65. È il solo libro della Ripoliana in cui i due religiosi direttori sono rammentati nella sottoscrizione, che dice : Anno domini mille quattrocēto | settantasette addi ventiquattro | di marzo E stata questa legēda in | prontata in Firenze al monisterri | o di sancto iacopo di ripoli dell or dine de frati predicatori p mano | di dua religiosi frate domenico | da pistoja et frate piero da pisa. 30. Libriccino di donna. -An. 1478. È l'ufficio piccolo in onore di Maria Vergine. 31. Libro da compagnie. -An. 1477. Il Giornale dà come stampato questo libro nell'anno 1477 a spese di Bartolomeo Particini , coi caratteri detti antichi (lettera antica) comprati nel 12 maggio di quello stesso anno da Giovanni tedesco e impiegati per la prima volta in questa edizione. Non dubitiamo di affermare che questo libro sia quello descritto dal Fossi alla col . 74 del vol. II , e del quale esiste un bello esemplare anche presso di noi. Il bel carattere tondo in cui è impresso (che è appunto, come abbiamo altra volta notato, il carattere allora detto antico) somigliante a quello di molte altre edizioni ripoliane ; le iniziali di ogni versetto miniate a mano, come appunto si sa dal Giornale che furono miniati gli esemplari del libro da compagnia, e tutto l'insieme del volume ci fanno certi in questa opinione. È vero che il Follini ricordando al n" X degli Annali il Libro da compagnia, non vi appose il contrassegno indicante 56 P. BOLOGNA che esso esiste nella Magliabechiana , per cui sembra che non ritenesse essere la citata edizione del Catalogo Fossi quella ripoliana del 1477. Ma certamente egli non vi pensò, perchè quando gli venne in mano il codice contenente il Giornale della tipografia, il II volume del Fossi era già stampato; nè a lui o al Fossi, allorchè esaminarono il libro che descrissero nel vol. II, potè cadere in mente che fosse edizione di Ripoli , essendo stati fuorviati dal Fineschi, il quale erroneamente scrisse essere stampato con caratteri gotici, che, secondo lui, erano appunto la lettera detta antica. Trattandosi di un libro importante e rarissimo ne facciamo una breve descrizione sull' esemplare nostro : Ricevedo alcuno novitio uno sacerdote o uno de fra | telli i suo luogo inginocchiato allato allaltare ipō | nga aparole il miserere Et dectone le due parti il | governatore facica (sic) cenno Et e maestri denovitii | conduchino dentro il novitio ... Questi versi sono in verso a principio del libro, il quale dopo il Rituale del ricevimento dei fratelli, contiene : l' Ufficio della B. V., i Salmi penitenziali colle preci , i Salmi graduali, l'Officium majoris hebdomatae, l'Officium in agenda defunctorum, hymni, orationes , versiculi per annum et Officium S. Crucis. In-4° , senza luogo, anno e nome di stamp. , carat. tondo , con segnat. a-o, quad. o, che è terno, senza numeraz. e rich. , lin. 26 per pagina. 32. Libro delle sorti. - An. 1482. Ne fu cominciata la stampa il 18 novembre 1482 e fu terminata ai primi di aprile 1483. 33. Margutte. An. 1480. Fu stampato per commissione di Giovanni di Nato , al quale nel 6 decembre 1480 furono consegnate le prime venti copie. Era questo sicuramente un estratto di 246 ottave del Morgante maggiore del Pulci, che comprendeva la 1ª ottava del 1º canto , le ottave 112 e seg. del 18° canto e 155 ottave del 19° canto, cioè dall'incontro di Morgante con Margutte fino alla morte di questo ; estratto che fu ristampato molte volte coi titoli di Morgante minore, di Morgante Margutte, di Morgante piccolo, di Marguttino ecc. , e che serviva per lettura popolare. L'edizione di Ripoli è probabilmente quella citata dallo Audiffredi, Spec. edit. ital. , p. 395, e dall'Hain al nº 10757, della quale diamo una breve descrizione sopra un esemplare della biblioteca Casanatense. Sul recto della 1ª carta una rozza xilografia entro una cornice , sopra la quale si legge: Morgante-Margutte in carattere gotico. Sul verso della carta medesima comincia il poemetto: Yn principio era il verbo apsso a dio | et LA STAMPERIA FIORENTINA 57 era dio il verbo et verbo lui ecc.... Ciascuna pagina ha otto ottave, quattro per colonna, ma la pagina sul verso dell'ultima carta ne ha soltanto 6. In fine : Finito el Margucte piccolo. In-4º, senza numer. segnat. e rich .; carat. rot. a 2 col.; carte 16. 34. Miracoli della gloriosa Vergine Maria. - An. 1482. Diamo la descrizione di questo raro libretto sopra un bello esemplare della biblioteca comunale di Poppi. Sul recto della prima carta segn. a , in fronte: QUI COMINCIANO ALCUNI MIRACOLI. DELLA GLORIOSA VER | GINE MARIA. ET PRIMA COME SCAMPO UNA DONNA SUA DI VOTA DALLE INSIDIE DEL DEMO | NIO INFERNALE. Capitolo I. Dopo questo titolo comincia l'opera : ERa uno cavaliere molto ric | cho e potente il quale havea i | usanza ogni año i certe feste | far grāde spese et cōviti a suoi amici ecc.... In fine: Finisce illibro d alcuni miracoli della inteme | rata et gloriosa vergine maria. El quale esta | to formato appresso sancto Jacopo di Ripoli. E sotto : DEO GRATIAS ; e dopo lo spazio di un verso : Finito libro isto referamus gratia Xpo. - Et Vengono poi i seguenti versi latini rimati, che vanno fino alla fine della pagina : Fac reis o regina apud regem ut ruina relaxtur debita regnare fac renatos. a reatu expurgatos pietate solita― Placa mare marisstella ne involvat nos procella et tempestas obvia Honor et laus pia. Sit tibi Virgo Maria - Gloria fine cavens. sit tibi Virgo parens. Mater Christi que das tristi animi letitiam. Segue poi la tavola dei capitoli. In-4° , carat. rom. , segnat. a- o tutti quaderni ; lin. 27 e 28 per pagina. - - Risulta dal Giornale che questo libro era stampato nel 1482. L'Hain ne dà due edizioni ripoliane : la 1ª senz'anno al nº 11224 , e la 2ª ugualmente senz'anno, ma, secondo lui, del 1483, al nº 11225. Dal Giornale non si ha notizia di questa seconda edizione. Il Fineschi riporta questo libro all'anno 1483, e gli dà il titolo di Miracoli di Maria Vergine del Rosario. Forse la data sbagliata dal Fineschi indusse l'Hain a ritenere la esistenza di una edizione del 1483, e quanto al titolo, il Giornale adopera sempre la frase Miracoli di Nostra Donna , senza indicazione del Rosario. 35. Misteri del Rosario. - An. 1481. Nel Giornale questa edizione è chiamata anche Carta dei misterii, e da ciò il Follini deduce che doveva essere un semplice foglio volante e probabilmente non conteneva una composizione a caratteri , ma una stampa in 58 P. BOLOGNA legno o in rame rappresentante i misteri. Notiamo per altro che poteva benissimo contenere, composti in carattere, i quindici misteri che sono recitati nel Rosario. 36. Operetta del Turco. -An. 1481 . Se ne ha notizia in data di settembre 1481. Probabilmente fu stampata per qualche cantastorie. 37. Orazioni diverse. - An. 1476-83. Queste orazioni erano stampate in fogli volanti e si vendevano dai ciechi o cerretani o ciurmatori. Costituivano una parte assai importante del commercio della tipografia , la quale le metteva fuori o a conto proprio , vendendole a centinaia e a migliaia ai detti spacciatori , oppure le stampava per commissione di essi. Di diverse si conosce il titolo, e perciò le abbiamo distinte in tanti articoli che fanno seguito al presente, ma di alcune il titolo è affatto ignoto , e queste le comprendiamo tutte sotto il nome generico di orazioni. Il Follini fece anche di queste tanti articoli separati ai n¹ II, XXX, XLI, XLVI, XLVIII, LI. 38. Orazione della misura di Cristo. - An. 1477. Sul Giornale ne fu notata in più volte la vendita di 2300 copie a cominciare dal 14 gennaio 1477. 39. Orazione di S. Bastiano. ― An. 1477. Se ne fa ricordo ai 25 di gennaio del 1477 (st. com. 1478). 40. Orazione della pietà. ― An. 1477. Se ne fa ricordo ai 23 di marzo del 1477 (st. com. 1478). 41. Orazione di S. Gregorio. - An. 1477. Se ne fa ricordo ai 26 di marzo di detto anno. 42. Orazione della Croce. - An. 1477. Se ne fa ricordo ai 9 aprile di detto anno. Si vendeva a L. 4 al migliaio. 43. Orazione della Bolla. - An. 1477. Deve intendersi della Bolla del Rosario. Se ne fa ricordo sotto dì 16 settembre di detto anno. 44. Orazione della Vergine Maria. An. 1480. Se ne fa ricordo sotto dì 20 decembre di detto anno. LA STAMPERIA FIORENTINA 59 45. Orazione di S. Giuliano. - 1a ediz., an. 1477. È così ricordata : 1477 a dì 20 di settembre - d'orationi soldi 50 .... che cominciano el beato sancto giuliano . Ne fu in più volte notata la vendita di nº 3500 copie. 46. Orazione di Sto Giuliano. 2a ediz. , an. 1481. È così ricordata : 24 Decembre 1481 Bartolomeo di pisa detto Baldaccio de dare ..... lire tre per orationi di sancto giuliano gli tolsi a fare che furono tremille che di patto mi de dare lire due per migliaio. 47. Orazione dell'Agnus Dei. An. 1478. È ricordata sotto il 26 di decembre di detto anno. 48. Orazione del sangue di Cristo. - An. 1477. Fu stampata per commissione di Cola cieco a dì 15 decembre. 49. Orazione dell'Agnolo Raffaello. - An. 1482. È così ricordata : 30 aprile 1482 Antonio cerretano ne ha dato a fformare una oratione dell'agniol Raffaello di 13 stanze ecc. 50. Passione (La) di Nostro Signore. - An. 1483. È una edizione di estrema rarità che rimase ignota all'Audiffredi e al Fineschi. Il Follini ne scoprì per il primo la esistenza dal Giornale di stamperia , dal quale risulta che era in vendita a dì 8 aprile 1483, e la inseri negli Annali della Ripoliana al nº LXXVI, senza averla mai veduta. Ne comparve poi un esemplare nel catalogo Senesi , ed un altro (seppure non è il medesimo del Senesi) nel catalogo di edizioni del secolo XV della Società bibliografica toscana al nº 207, p. 15. In questi cataloghi è indicata così : Passio Dñi nri Yhu Xpi Florentiae apud Sanctum Jacobum de Ripoli. S. a. (1483), in4º. - È il poemetto in ottava rima scritto nel sec. XIV, che è stato attribuito da alcuni a Niccolò Cicerchia e da altri al Boccaccio , e che incomincia : O increata majesta di Dio | o infinita eterna potentia ecc. 51. Pater noster. - An. 1477. È ricordato sotto dì 25 aprile 1477. Era probabilmente una esposizione o parafrasi popolare del Pater noster. 52. Petrarca Mr Francesco. - Vite de' Pontefici et Imperatori romani, Edizione citata dagli Accademici della Crusca. È descritta dal Fossi, vol . II. 60 P. BOLOGNA col. 319, e nella Bibliografia dei testi di lingua a stampa dei sigg. Razzolini e Racchi della Lega. 53. Pistola della domenica. - Diverse edizioni dal 1480 al 1484. Il Follini registra due edizioni di questa Epistola, ambedue sotto l'anno 1480, ai n¹ XXXIX e XLV, e cioè una dell' aprile per Antonio Lombardo cerretano, e l'altra dell'agosto per Gio. di Nato e per Antonio Cerretano. Sembra per altro che debbano essere in maggior numero , trovandosi nel Giornale i seguenti ricordi posteriori al 1480 : Anno 1481 22 ferrajo (st. com. 1482) Piero ciurmatore ebbe cento Pistole della domenica. An. 1484 a dì 6 d octobre Bernardino ciurmatore 50 pistole della domenica. ..... 54. Platone. - Dialoghi. - An. 1484. - Di questa edizione abbiamo parlato nei precedenti Cenni storici , avvertendo che fa parte delle Opere di Platone stampate in Firenze , in 2 vol. , senz'anno, da Lorenzo Veneto. La descrive il Fossi al vol. II , col. 366. 55. Plinii Secundi. - Liber illustrium virorum. - Anno 1478. Di questo libretto non si trova memoria nel Giornale. Lo descriviamo sopra un esemplare nostro. In testa alla 1ª carta segn. ai : C. PLINII. SECUNDI. JUNIORIS. | LIBER. ILLUSTRIUM. VIRORUM. INCIPIT. Dopo lo spazio di un verso : (P)ROCA. REX. ALBANORUM Amulium et Numitorem | filios habuit etc .... I diversi capitoli o articoli hanno sempre la intitolazione in carattere maggiore. Sul verso della carta 8 del quad. d finisce l'opera con 5 versi , e dopo: CAI. PLINII. SECUNDI. VERONEN | SIS. LIBER. ILLUSTRIUM. VIRO | RUM. FINIT. FOELICITER. e dopo uno spazio di tre righe : IMPRESSUM. FLORENTIAE | APUD. SANCTUM. JACOBUM. DE | RIPOLI. M.CCCC.LXX.VIII. In-4° , carat. rom. eleg., segnat. a-d, tutti quaderni, linee 27 per pagina, coi vuoti per le iniziali a ciascun capitolo, quello del primo di quattro righe, gli altri di due. 56. Profezie. -An. 1479. - Sono ricordate sotto dì 29 giugno di detto anno. Non sappiamo se erano le profezie di S. Brigida , delle quali si fa parola al nº seguente , oppure altre profezie. Nel primo caso sarebbe questa una 2ª edizione, perchè le profezie di S. Brigida si vendevano fino dal precedente gennaio. 57. Profezie di S. Brigida. —An. 1478. Erano in vendita fino dal 15 gennaio 1478 (st. com. 1479) . LA STAMPERIA FIORENTINA 61 58. Pulci Luca. Il Driadèo. Anno 1483. - - Se ne trova memoria nel Giornale per la vendita di 30 esemplari fatta in due volte a Giovanni di Nato, cioè nel 24 e nel 29 ottobre 1483. Fra l'edizioni conosciute del Driadèo non si sa quale sia quella di Ripoli. Peraltro l'Audin de Rians nell' opuscolo già citato (v. al nº 7), dice che un libro rassomigliante al Decamerone che si ritiene stampato a Ripoli, tanto per il carattere , quanto per le lettere fiorite ed anche per la tinta dell'inchiostro, benchè tirato sopra una carta con marca diversa, è il Driadèo senza luogo ed anno, in-4º picc. , che si conserva nella Magliabechiana, descritto dal Fossi alla col. 424 del t. II. E forse anche il Follini ebbe, quantunque non la manifestasse , la stessa idea, perchè al nº LXXXIII degli Annali, dopo aver registrato il Driadèo , rammenta la edizione descritta dal Fossi. 59. Pulci Luigi. - Il Morgante. - An. 1481 . Dal Giornale risulta evidentemente la esistenza di questa edizione , trovandosi registrato il pagamento fatto a due monache nel febbraio 1481. (st. com. 1482) per l'aiuto dato alla composizione del Morgante. Peraltro non se ne conoscono esemplari, non sembrando ammissibile la supposizione dell'Audin riportata nei precedenti Cenni storici, che, cioè, sia stata stampata per metà a Ripoli e per metà da Francesco di Dino l'edizione sottoscritta da quest'ultimo in data 7 febbraio 1482. 60. Qui habitat. -An. 1477. Nel Giornale è notata in tre partite, dal 9 al 15 aprile 1477, la vendita di 210 Qui habitat a un tale chiamato Sacco (Saccho) . Non sappiamo se fosse la stampa del Salmo 90, che comincia con le parole suddette, oppure una delle solite orazioni popolari che dal Salmo stesso prendesse il titolo. 61. Rabi Moysi. - Tractatus de regimine sanitatis. In fine : Impressum Florentie | apud sanctum | Jacobum de | Ripolis. Senz' anno ; in-4º, carat. rom. , carte 40, segnat. A- E, quad. Il Giornale non ne dà notizia. Esiste peraltro nella Corsiniana, ed è descritta dallo Audiffredi (spec. ) a p. 382. 62. Regole Guerrine. - 1a ediz. , an. 1477. Sono le regole grammaticali di Gio. Batt. Guerrino. Erano in vendita fin dal 25 novembre 1477. 63. Regole Guerrine. -2a ediz., an. 1482. Leggesi nel Giornale: Ricordo che a dì XI di settembre (1482) s inco- 62 P. BOLOGNA minciorono di stampare trecento e venticinque Regole di Guerrino cioè quaderni 13. 64. Regole Sipontine. An. 1480. Erano le regole grammaticali composte da Niccolò Perotti arcivescovo Sipontino. Si cominciarono a stampare a di 22 novembre 1480 e nel 9 marzo 1480 (st. com. 1481 ) erano terminate. 65. Regole della luna. - An. 1483. Nel 16 ottobre di detto anno ne furono vendute 50 copie a Giovanni di Nato. Non si sa perchè il Fineschi chiamasse questa pubblicazione Computo della luna, mentre nel citato Giornale è detta Regola. 66. Riccii Jacobi de Aretio. - Sulla 1ª carta che sta per la segn . ai : ( ) Ncipiunt quedam ob | iectiones et annotata | super logica Pauli Veneti | edita per egregium artium | et medice doctorem Magi | strum Jacobum riccium de | Aretio. In fine : Impressum Florentie apud | sanctum Jacobū3 de | ripoli. E dopo : Finito libro isto Laus | sit et gloria cristo. In-4°, carat. rom. a 2 col. senz'anno, senza numeraz. e rich. con segnat. a-o quaderni ad eccezione di o terno , carte 102, lin. 3 per col. intera ; senza iniz. , ma coi vuoti per farvele a mano. Non ne esiste memoria nel Giornale e neppure ne ha fatto ricordo il Follini. Un bell' esemplare esiste presso di noi, e altri stanno nella Riccar diana, nella Corsiniana e nella Borboniana. 67. Sala di Malagigi. - An. 1483. Questo poemetto popolare in ottava rima che, secondo il Quadrio , è di Francesco cieco fiorentino , fu stampato nell' ottobre 1483 per commissione di Bernardino ciurmatore. 68. Sallustii (C. Crispi). gurtinum. - An. 1478. - De conjuratione Catilinae et Bellum IuNon è ricordata nel Giornale. È descritta dal Fossi alla col . 476 del t. II. 69. Salmi penitenziali in latino con le litanie. An. 1479. Nel Giornale sotto 12 ottobre detto anno : Frate Benedetto de dare .... per sei paja di salmi penitenziali due colle litanie et 4 in volgare .... ; e altrove: 9 salmi penitenziali in latino e 17 salmi in volgare. 70. Salmi penitenziali in volgare e in versi. - An. 1479. Nel Giornale sotto di 4 agosto 1480 : Maestro Michele da Pisa ordinis LA STAMPERIA FIORENTINA 63 praedicatorum de dare ... per paja venti di salmi penitenziali in volgare in versi per soldi dua al pajo etc. - 71. Salterio o Psalterium, chiamato dal Giornale Salterio salmista ' . An. 1480. Ne esiste un esemplare nella Corsiniana di Roma, e uno nella Magliabechiana, ma non è descritto dal Fossi. Sulla carta ai comincia il testo senza alcuna intitolazione : (b)EATUS vir qui | no habiit (sic) in consilio | impioru etc. Sul verso della carta stessa , dopo 6 linee , comincia il PSALMUS II , con le parole : (q) Vare fremuerunt gentes etc., e seguitano poi gli altri salmi , tutti col titolo in maiuscolo e numerati fino a CL. I salmi 47 e 48 sono numerati per errore 45 e 40. Dopo i salmi, seguono alcuni cantici, l'inno Te Deum laudamus, il Gloria in excelsis Deo, il Pater noster, il Credo, e finalmente le Litanie dei santi con le preci. Con queste finisce il volume al recto della carta 8 del quad. dd contenente 4 righe, con AMEN, e dopo : EXPLICIT PSALTERI | UM Laus Deo ; e più in basso : IMPRESSUM FLOREN | TIAE. APUD SANCTUM JACOBUM. DE RIPOLI. Il verso della carta è bianco. In-4° picc. , caratt. rot. senza numer. e rich. con segnat. a-z & aa-dd tutti quaderni. - 72. Salteruzzo da fanciulli. - An. 1480. Ne fu tirata una quantità grande di copie per Giovanni di Nato. -Salteruzzo ha qui il significato di un libretto dei primi rudimenti della lingua o di grammatica elementare. 73. Savio Romano. - An. 1480. Fu stampato nel gennaio 1480, che corrisponde al 1481 di stile comune. Di questa operetta, che è una raccolta di sentenze morali , proverbi etc., si conoscono due antiche edizioni senza alcuna nota tipografica . Una è registrata nel Catalogo Libri, di tre carte, a 2 colonne, con una bella figura intagliata in legno nel frontispizio ; l'altra, citata dal Molini a p . 150, nº 136 delle Operette bibliografiche, è di 4 carte, a 2 col. , in carat. ton. ed ha essa pure una xilografia rappresentante un filosofo nel suo studio, e in fine le insegne di ser Piero Pacini. Quest'ultima, a giudizio del Molini , è del sec. XVI, e la prima è del sec. XV, ma la bella xilografia induce a ritenere che non sia di Ripoli, ma debba invece riportarsi a varï anni dopo. 74. Sette Allegrezze di Maria. - An. 1479. Era un'operetta in ottave, e se ne ha ricordo nel Giornale sotto di 20 giugno 1479. Nella Casanatense ne esiste un'edizione in-4° picc. , carat. rom. , 64 P. BOLOGNA di 4 carte, senz'alcuna nota, con diverse xilografie , che è ritenuta edizione fiorentina, ma non è sicuramente quella di Ripoli. 75. Sonetti dell'Agnus Dei. - An. 1479. Si vendevano in detto anno a soldi 25 al migliaio. 76. Sonetti del Sangue. - An. 1480. Osserva il Follini che questi sonetti sono forse la parafrasi poetica della Orazione del sangue di Cristo, registrata sopra al nº 48. 77. Soprascripte di lettere. An. 1480. Questa edizione , fatta per Giovanni di Nato , era pronta il 21 novembre di detto anno. È sicuramente diversa da quella , senz'anno , che finisce con le parole : Impresso in Firenze, descritta dal Fossi alla col. 631 del t. II, perchè dalle persone ricordate si deduce che questa deve essere posteriore al 1484. 78. Statii (Stazio) . - Silvae. An. 1480. È descritta dal Fossi alla col. 617 del t . II . 79. Svetonii C. Tranquilli. -An. 1478. De claris gramaticis et rethoribus. È descritta dal Fossi alla col. 140 del II. 80. Ufficio o Ufficiolo dei morti. -An. 1482. Era in vendita ai 3 di aprile di detto anno. 81. Valerius Flaccus. - Argonauticon. -An. 1481. È descritto dal Brunet, Manuel, t. V, col . 1044. Vedasi quanto ne scrisse il Follini al nº LXI. 82. Vangeli di S. Giovanni. - An. 1480. Furono stampati nel febbraio 1480 (st. com. 1481) per frate Paulo di Mugello. 83. Vangeli di S. Giovanni con la oratione di sanoto Rocho. An. 1480. Furono stampati nel giugno di detto anno per Antonio Cerretano. LA STAMPERIA FIORENTINA 65 Edizioni dubbie, supposte o erroneamente attribuite alla Stamperia di Ripoli . 1. Antonino (S.). Defecerunt vulghare. Il Fineschi assegna all'anno 1479 una edizione Ripoliana di questa operetta, fondando la sua asserzione sopra una partita del Giornale, e aggiungendo di aver veduto nel convento di S. Maria Novella una edizione del Defecerunt volgare , che dai caratteri gli sembrò di Ripoli. Ma il Follini (pp. xxvi e xxvii) evidentemente dimostrò lo sbaglio del Fineschi riportando alcune partite del Giornale, dalle quali risulta che si trattava di un Defecerunt , probabilmente manoscritto , dato a legare a Chimenti di Antonio cartolaio. E quanto alla edizione che esisteva nel convento di S. Maria Novella , il Follini constatò che era la edizione in-4° di Francesco di Dino, della quale al Fineschi sfuggì la sottoscrizione che è nella terz'ultima carta del volume. 2. Auximo (De) o Da Osimo Niccolò. Quadriga spirituale. Riteniamo fiorentina, e probabilmente di Ripoli o di Niccolò Della Magna, una edizione in carattere rozzo antico, esistente nella Magliabechiana e descritta dal Molini ( Cat. ms. , p. 397, nº 1500) . Oltre al carattere, c'induce in questa opinione la forma di tutta la composizione tipografica e quella specialmente dei capitoli perfettamente uguali ad altre edizioni delle citate due stamperie. Eccone una breve descrizione : ( )N NOMINE DOMINI NOSTRI | JESU CRISTI. INCOMENZA | EL LIBRO DICTO QUADRI GA SPIRITUALE. L'opera è divisa in capitoli non numerati con l'intitolazione in maiuscole. Fra le 10 carte che contengono il capitolo DE LI CASI PAPALI, ve n'è una bianca senza che vi sia interruzione nel testo. In fine : Deo Gratias. Amen. In-4º picc. , senz'alcuna nota tipogr. , lin. 26 per pagina. - È ricordata dal Panzer, IV, 182, 1027 , e dall'Hain, nº 2173. 3. Bartholomaei de Pisis. tondo. Epithomae medicinae, sine nota, in carat. Il Fossi descrive questa edizione alla col. 352 del t . II, e la ritiene di Ripoli . Non vogliamo tacere per altro che il carattere sembra più bello e moderno di quelli usati in detta stamperia; ma l'esemplare Magliabechiano , unico che si conosca , è mutilo , mancandovi tutta la parte che segue alla segn. d, per cui impossibile chiarire il dubbio. Giornale storico , XXI, fasc . 61. 5 66 P. BOLOGNA 4. Cherubino (Frate) da Siena. Regola della vita spirituale e Regola della vita matrimoniale. — An. 1478. È ricordata dal Moreni ( Nov. letter. di Firenze, an. 1791, col . 65 e seg.) come esistente nella Biblioteca dei PP. Serviti della SS. Annunziata di Firenze, e sull'autorità dell ' Affò, attribuita alla tipografia di Ripoli. Sarebbe una prima edizione ripoliana di questa operetta , essendo la seconda quella ricordata precedentemente al nº 12. Ma il Follini (p. xxv , n° 1) scoprì l'equivoco in cui era caduto il Moreni, dimostrando che si trattava invece di una edizione di Niccolò tedesco del 1482 o 1483. 5. Crescenzio Piero. - Dell'Agricoltura. -An. 1481. Il Fineschi indica questa edizione ripoliana , pretendendo desumerne la prova dal Giornale ; ma il Follini rilevò giustamente l'errore , osservando che il volume dell' Agricoltura di Crescenzio fu ricordato a carte 80 del Giornale non come lavoro della stamperia, ma perchè venne dato in pagamento da ser Piero Pacini. 6. Dati Leonardo. - La Sfera. È fiorentina , e probabilmente di Ripoli , la edizione di questo poemetto descritta nella Bibliografia dei testi di lingua a stampa dei sigg. Razzolini e Bacchi Della Lega a p. 130. Ne esistono esemplari nella Magliabechiana e nella Palatina di Firenze. 7. Epistole, Lezioni ed Evangelj in volgare. Sembra che sia di Ripoli o di Niccolò Della Magna una edizione assai bella esistente nella Riccardiana di Firenze al nº 57 , e che finisce così : Thesu Christo n abbia laude et gloria i secula seculorū. Amen. È in-fol., carat. rom. , senza note tipogr. , senza numeraz. rich. segnat. , di lin. 32 per pag. 8. Evangelistarj ed Epistolarj . An. 1480. - Questa edizione è citata dal Fineschi e anche dall'Hain al nº 6635, il quale probabilmente ne trasse la indicazione dallo stesso Fineschi. Ma non trovandosene memoria nel Giornale e non conoscendosene alcuno esemplare, sembra conveniente di classarla fra le dubbie. 9. Ficino Marsilio. - De christiana religione, senza note tipogr. Edizione descritta nel catal. Fossi al vol. I, col. 669. Il Moreni (loc. cit.) l'attribui alla stamperia di Ripoli ; l'Audiffredi (spec. p. 30) la ritenne impressa coi caratteri dei Cennini, e finalmente il Follini (p. xxvi ) la giudicò, forse più giustamente di tutti , di Niccolò Della Magna. In uno dei due LA STAMPERIA FIORENTINA 67 esemplari che si conservano nella Magliabechiana si legge al verso della carta 2 una lettera autografa del Ficino diretta a Gerolamo Rossi di Pistoia, con la data : Florentiae kal. novembris 1478, dalla quale può stabilirsi che il volume fu stampato in quell'anno o poco prima. 10. Ficino Marsilio. - Della cristiana religione , senza note tipogr. Edizione descritta dal Fossi al vol. I, col. 670. Anche questa fu dal Moreni (loc. cit.) attribuita alla stamperia di Ripoli. Il Crevenna (VI , p. 195) la ritenne di Ripoli o di Niccolò Della Magna ; ma il Follini (p. xxvm ) e anche il Molini ( Op. bibliogr. , p. 277) esplicitamente si dichiararono per Niccolò Della Magna. 11. Fontii Bartholomaei. Donatus sive de poenitentia. - — Orationes sex. Vita Pauli Ghiaceti. An. 1477. Questa edizione ripoliana ci è data dall'Hain al nº 7228. Osserveremo per altro col Brunet (t. II , col. 1334) che essa è forse quella medesima , senza note, descritta dal Fossi al t. I, col. 691. Certo è che non se ne trova menzione nel Giornale, e neppure è ricordata dal Fineschi e dal Follini. 12. Leggenda di S. Caterina V. e M., senza note tipogr . Francesco Zambrini nelle Op. volg. a stampa ecc. , alla col . 559 , cita e descrive un' antica edizione di questa Leggenda , che è ritenuta di Ripoli . Nulla possiamo dire in proposito, non avendo mai veduto il libro. Aggiungeremo soltanto che un'altra antica edizione, che sembra fiorentina, di questa Leggenda esiste nella Magliabechiana, ed è descritta nel Catal. ms. del Molini al nº 1224. 13. Leggenda di S. Margherita, in ottave. Sono 4 carte senz'alcuna nota tipogr. , senza numeraz., richiami e segnat. La Leggenda è in ottave , e ogni pagina ha due colonne con 4 ottave per colonna. L'ultima colonna ne ha una sola, e quindi si legge la parola FINITA. La prima ottava dice : Io priego la divina maestade padre e figliolo e spirito sancto che grazia mi presti per sua pietade ch i possa racōtare co dolce căto una leggenda piena di bontade d na pulzella che tormēto tāto sostene da un crudel iperadore per rendere castitode al creatore. E l'ultima ottava: 68 P. BOLOGNA Questa e la verita senza mētire che l anima sua fu salva alla finita el guardiano che la fe seppellire luna e l'altro ando in gloria adimpita ogni persona quando viene al morire si ricordi di sancta margarita e prieghi con molta reverentia che lei lo scapi dal infernale sentētia. Esiste nella Riccardiana al nº 645. La giudichiamo di Ripoli , perchè è stampata cogli stessi caratteri del Riccii Jac. super log. Pauli Veneti. Al nº 24 della Serie delle edizioni certe di Ripoli, abbiamo riportato una partita del Giornale, dalla quale risulta che la stamperia tolse a fare per Gio. Francesco cerretano cinquecento sancte margherite , osservando che probabilmente trattavasi di una stampa xilografica o in rame. Qui vogliamo aggiungere che la detta partita e altre relative, non possono riferirsi a questa Leggenda, perchè le Sante Margherite citate nel Giornale erano stampate in fogli volanti , mentre la Leggenda è in 4 carte. Il numero grande delle copie tirate ce ne darebbe sicuro indizio , se non ce ne facesse certi il seguente ricordo del Giornale stesso : Per infino a dì decembre (1481) tolsi a ffare da giovan franciescho cermatore mille sancte margherite in stampa dove VARIE IN UNO FOGLIO e debbami dare lire tredici e mezzo. Anzi di questo ricordo nel quale si dice che varie delle stampe dovevano essere in uno foglio , potrebbe dedursi che le altre fossero in mezzo foglio . Così si avrebbero o due stampe diverse , oppure una stessa stampa tirata in fogli di diversa grandezza. 14. Mamotrectus. An. 1482. Il Fineschi, interpretando male il Giornale, pone quest'opera fra le edizioni di Ripoli ; ma la verità risultante dal Giornale stesso (car. 100) è che un libro del Mamotrectus fu da Giovanni di Nato venduto a fra Domenico, e da questi dato poi a legare ad Antonio di Niccolò cartolaio. - 15. Phalaridis Epistolae e graeco in latin. trad. a Francisco Aretino. An. 1480. Edizione supposta senza valide ragioni dal Fineschi, il quale erroneamente attribuì la traduzione a Leonardo Aretino. Il Follini corresse il Fineschi , facendone traduttore , secondo la opinione allora generalmente accettata , il celebre giureconsulto Francesco Accolti. Ma oggi è dimostrato che l'autore di detta versione fu Francesco Griffolini. Vedasi l'opuscolo sopra citato dell'amico mio Girolamo Mancini . LA STAMPERIA FIORENTINA 69 16. Politiani Angeli - - . Conjuratio Pactiana. An. 1478. L'esemplare, forse unico , di questa rarissima edizione descritta dal Fossi al t. II, col. 394, esiste nella Magliabechiana. Fu ritenuta di Ripoli perchè stampata con caratteri uguali a quelli del Fontio , Explanatio in Persii Satyras. Ma il Follini la classò fra le dubbie , perchè osservò che i caratteri sono simili, ma non uguali a quelli del Fontio. 17. Sermoni di S. Giovanni Crisostomo. - An. 1479. 18. Summa Pisanella. -An. 1482. 19. Vite dei SS. Padri. - An. 1478. Queste tre ultime edizioni furono attribuite alla Ripoliana dal Fineschi, il quale cadde sicuramente in un equivoco. Infatti, dal Giornale risulta soltanto , quanto al libro dei Sermoni di S. Gio. Crisostomo , che fu dato in pagamento a fra Domenico da Domenico cartolaio ; quanto alla Summa Pisanella , che fra Domenico la comperò per L. 8 , a dì 20 luglio 1482 da Giovanni di Nato e poi la dette a legare nel 27 agosto a un tal Francesco chiamato Mancino ; e finalmente , quanto alle Vite dei SS. Padri, che furono date in prestito a dì 5 gennaio a Chimenti orafo. Trattavasi dunque di ms. o libri stampati da altre tipografie, che furono acquistati o già appartenevano alla biblioteca del monastero. Il Giornale , sotto di 23 marzo 1478 , rammenta anche un libro che si chiama li statuti de sancti padri, mandato a legare per mezzo di Lorenzo, garzone di stamperia, che forse è quello stesso delle Vite. PIETRO BOLOGNA. IL " POLINICE ,, DELL'ALFIERI Il Polinice, quanto ad invenzione e novità di condotta, è forse la tragedia meno originale dell'Alfieri ed insiem quella che ha dato più d'ogni altra occasione alle osservazioni ed agli appunti dei critici, i quali quando hanno voluto addurre un esempio dello stile aspro e contorto dell'Astigiano e della maniera ond'egli soleva concepire le sue tragedie, da essa generalmente hanno tolti gli esempi. Il paragone tra questo ed altri somiglianti componimenti ha tentato quindi parecchi illustri critici italiani e stranieri ; ma niuno , ch' io veda , ha saputo farne argomento di uno studio definitivo, anzi il più delle volte niuna luce è venuta dal confronto o, se mai, ne furon dedotte conseguenze sempre contrarie al nostro poeta. Avendo già mostrato con altro lavoro ( 1 ) in qual modo, a mio parere, debbansi studiare le tragedie alfieriane, spero mi si vorrà perdonare se, attirato dall'importante argomento, non ho potuto resistere alla tentazione di estendere le mie ricerche anche al Polinice, componimento che più d'ogni altro attesta quanto studio abbia posto l'Alfieri nel raggiungere l'ideale artistico ch'ei vagheggiava. Prima però d'entrare in materia è necessario stabilire alcuni fatti . È opinione generale che l'Alfieri non abbia conosciuto se non molto tardi il teatro greco, e che quando scriveva tragedie, le quali si aggiravano sugli stessi argomenti trattati dai greci, abbia proceduto in gran parte per impulso spontaneo di genio. Trovo anzi in un libro di G. Zanella le (1) Il « Filippo » dell' Alfieri, studio, Cosenza, 1890 : cfr. questo Giorn. , XVII, 163. IL POLINICE » DELL' ALFIERI 71 seguenti parole : « Troppo tardi, cioè quando aveva giurato di più << non comporre tragedie, giuramento inconcepibile in vero poeta, << egli lesse Eschilo e Sofocle, e chi conosce la franca sincerità del << suo spirito deve maravigliarsi che dopo quella lettura non git- << tasse al fuoco il suo Agamennone, l'Oreste e l'Antigone » (1 ) . Ora per giustificare un giudizio tanto severo bisognerebbe addurre innanzi tutto delle prove di fatto e non contentarsi d'affermare semplicemente in modo così assoluto e reciso. È noto infatti che l'Alfieri cominciò a studiare il greco all'età di 46 anni, quando già da un ventennio avea esercitato l'arte di poeta tragico, e che lesse i classici greci prima nelle traduzioni letterali latine e poi nella lingua originale. Ciò avvenne nel 1796. Ma ancor prima, cioè nel 1776, avea cominciato ad imparare il latino con l'intenzione appunto di leggere i tragici greci nelle traduzioni letterali. Che egli avesse poi fatto veramente questa lettura, come s'era proposto, non è noto ; ma che avesse trascurato, nei primi anni della sua professione, quand' era ancora inesperto, di studiare i grandi maestri dell'antichità , non credo che si possa ragionevolmente negare. Ne abbiamo del resto qualche accenno nella sua Vita. Parlando delle fonti del Filippo e del Polinice, l'Alfieri accenna, tra le altre opere da lui consultate, ai Sette Prodi di Eschilo che lesse nella traduzione francese del P. Brumoy. Ora se nel '76, quand' era digiuno totalmente di ogni coltura letteraria, lesse, per avere una guida, la versione del Brumoy, perchè non supporre che insistesse nella medesima lettura, quando, avanzato negli anni e negli studi, scriveva tragedie, il cui disegno ritraeva tanto da vicino la maniera dai greci? Se qui ne fosse il luogo, potrei dimostrare con prove di fatto che le tragedie composte dal nostro autore nella prima fase della sua attività poetica e letteraria furono ispirate in gran parte dai capilavori del teatro greco. Nè solo nella traduzione del Brumoy conobbe le più importanti opere di questo teatro , ma anche in (1) Storia della letteratura italiana dalla metà del settecento ai giorni nostri, Milano, Vallardi , 1880, p. 116. 72 N. IMPALLOMENI quelle versioni spicciolate che avevano pubblicato i più conosciuti scrittori di ogni tempo. Noto, ad esempio, la versione dell'Edipo Re di Sofocle fatta dal Giustiniani, poeta genovese del secolo XVII, versione che l'Alfieri, in una lettera indirizzata al Cesarotti nel '85, cita per sostenere certe sue opinioni contro gli appunti mossigli dal letterato vicentino. Tutti questi accenni vengono in conchiusione a confermare quanto ho detto di sopra, vale a dire che se l'Alfieri non lesse, dal "76 in poi, i tragici greci nelle traduzioni letterali latine, come s'era proposto di fare, ne lesse e studiò le principali opere, almeno quelle che avevano attinenza con gli stessi argomenti trattati da lui, o nella traduzione del Padre Brumoy o in quelle versioni italiane che allora correvano per le mani di tutti. E come supporre dunque ch'egli avrebbe gettato nel fuoco l'Agamennone, l'Oreste e l'Antigone, se egli non solo non le distrusse, ma se ne compiacque ; se egli vide in quello splendido mondo classico , che studiò e cercò assimilarsi con grand'amore, uno dei mezzi più potenti per raggiungere l'ideale che fu il sogno costante della sua vita e del suo pensiero? L'opinione dello Zanella non regge alla critica , ed a me basta avervi accennato per stabilire un fatto che deve servire come punto di partenza alle mie ricerche. I. Col Polinice l'Alfieri entra in un nuovo ordine di concezioni , che lo attirò per qualche tempo. Il Filippo , ideato e disteso in prosa francese nel marzo del 1776, gli aveva fatto comprendere , quasi per istinto , che a risollevare la dignità della tragedia, manomessa non poche volte dalle leziosaggini dei poeti anteriori, bisognava ricorrere ai fatti dell'antichità e da essi attingere ispirazione e materia. I poeti drammatici francesi del sec. XVII, adattando il mondo classico ai gusti di una società frivola ed elegante, lo avevano impiccolito ; egli invece volle ricondurlo alla grandezza e semplicità primitiva. Parlando delle fonti IL « POLINICE » DELL' ALFIERI 73 « da cui derivò la materia del suo lavoro, egli scrive : « Il Polinice <<< gallo anch'egli (come il Filippo) lo trassi dai Fratelli nemici « di Racine ... ». E più innanzi : « Nel Polinice l'avere io inserito <<< alcuni tratti presi dal Racine ed altri presi dai Sette Prodi di << Eschilo, che leggicchiai nella traduzione francese del Padre << Brumoy, mi fece far voti in appresso di non più mai leggere <<< tragedie di altri prima d'aver fatto le mie, allorchè trattava << soggetti trattati, per non incorrere così nella taccia di ladro ed << errare o far bene del mio ( 1 ) ». E nel parere sul Polinice : << Io sceglievo questo soggetto più assai per bollore di gioventù ed << infiammato dalla lettura di Stazio, che per matura riflessione, <<< ma trovandomi poi la tragedia fatta, siccome credeva d'averne << pure cavato più bene che male, l'ho lasciato sussistere » (2) . Da questi tre luoghi non si riesce a desumere quale dei tre autori da lui citati l'Alfieri abbia preferito nell'ordir la tela della sua tragedia. E se col pensiero fisso alle notizie ch'egli ci dà intorno l'origine del Polinice ci facessimo a riscontrare i Setle a Tebe d'Eschilo per verificar in che consista questa famosa imitazione, che cosa vi troveremmo nel fatto? Eccetto Eteocle, nessuno dei personaggi che figurano nella tragedia italiana, nessuna situazione drammatica, nessun passo notevole che accenni a qualche reminiscenza. Anzi, a dir proprio, la concezione intima dei due componimenti è così opposta, così discordante nel fine, che il volervi trovare un'analogia qualsiasi sarebbe indizio di piena imperizia e del teatro di Eschilo in generale e delle nozioni più elementari della Storia dell'Arte drammatica. Fra tante imitazioni e riproduzioni della scena posteriore il dramma del tragico greco rimase un'opera che giganteggia solitaria. L'aτη, la perniciosa άτη, la divinità che perverte l'intelletto e il senso morale degli uomini facendoli cadere in una serie d'errori e di conseguenze dannose, è l'idea religiosa, al dire del Comparetti, che circola nel dramma greco e da cui derivano gli effetti patetici dell'azione che si svolge (1) Vita, Giornali, Lettere, Firenze, Le Monnier, 1861 , p. 177. (2) Tragedie, Firenze, Le Monnier, 1855, vol. II, p. 517. 74 N. IMPALLOMENI sulla scena (1) . I due figli di Edipo contendono per il possesso del trono ; ma di essi non comparisce sul teatro che il solo Eteocle. La musa altamente morale e religiosa di Eschilo ci presenta questo personaggio sotto l'aspetto più favorevole. Egli non è il feroce tiranno delle tragedie posteriori, l'ambizioso re che scaccia il fratello per occuparne il trono ( questo motivo non è che lievemente accennato) ; ma il guerriero ed il cittadino che difende la patria dagli assalti dei nemici e veglia alla salvezza di essa. Perciò la figura dell'eroe tebano è disegnata dal poeta antico con si solenne maestà e con tale un sentimento di patriottismo, che noi ammiriamo meravigliati così il poeta che l'ha concepita, come il pubblico che se ne dilettava. Eteocle riempie di sè tutta la scena e noi lo vediamo sempre in moto, ed ora recarsi sul luogo dell'assalto, ora dare ordini e disposizioni per la difesa , ora sgridar acerbamente le paurose donne tebane , ora infine incuorare i suoi, promettendo agli Dei doni e sacrifizi. Del resto, nessun accenno alla sua ambizione di regno, nessuna parola di rancore e d'odio contro il fratello, nessuna spiegazione sul motivo della guerra ; solo, negl'intervalli, quasi lugubre voce che richiami l'attenzione dello spettatore sulla vera cagione di tante sventure, il Coro deplora in patetiche strofe i danni e le vergogne della stirpe di Laio. Eschilo ha dunque cancellato quanto di basso e feroce v'era nel carattere di Eteocle, e ne ha formato il tipo più nobile del patriottismo e del disinteresse. E quando in una scena sublime, sebbene molto inverosimile, in cui il Nunzio descrive ad una ad una le armature e gli emblemi degli scudi e le minacce dei sette guerrieri, l'eroe è costretto a dover combattere contro il proprio fratello, non è l'odio nè l'ambizione di regno che lo spingono a tale eccesso, ma l'amor di patria e l'inesorabile volontà degli Dei : Poichè un nume l'incalza, a pieno corso Tutta giù vada per l'onda di Stige L'odiosa agli Dei schiatta di Laio. (1) COMPARETTI, Edipo e la mitologia comparata, Pisa, 1863, pp. 51 sgg. IL POLINICE » DELL' ALFIERI 75 In queste parole traluce, come in un lampo, il sanguinoso odio di Eteocle ; ma è un breve momento : il motivo fondamentale del dramma ripiglia ben presto il suo impero. I due fratelli si sono uccisi l'uno per mano dell'altro . Antigone ed Ismene, accorse alla triste notizia, si effondono in pietosi lamenti per quella fine sciagurata ; ma il Coro domina su tutti. Esso si unisce, è vero, ai gemiti delle due sorelle e ne compiange la misera sorte ; ma non lascia di ricordare la potenza degli Dei, sovrani dispensatori dei beni e dei mali, e la maledizione paterna che pesava sul capo dei figli ingrati. Insomma noi non sentiamo soltanto i gemiti del domestico dolore ; vi ha un pensiero più alto che si mescola a questi lamenti particolari, il pensiero della patria e della giustizia, e, fino alle ultime scene, i sentimenti generali prevalgono sui particolari, l'inno vince il dialogo. Or basta dare un rapido sguardo a questa tragedia per esser persuasi che il Polinice alfieriano non ha nulla di comune con essa. Di tratti più o meno rilevanti, che l'Alfieri abbia potuto inserire nel suo lavoro, non v'è alcuna traccia. Unica reminiscenza forse, e assai lontana, può dirsi, a mio giudizio, il luogo in cui si rimprovera a Polinice di aver assalito con le armi la patria e di aver chiesto con la forza i suoi diritti ; rimproveri che , riprodotti nelle tragedie di Euripide, di Seneca e di Racine, hanno radice in quelli che il vate Anfiarao presso Eschilo fa al violento assalitore di Tebe. Siamo dunque davanti ad una delle tante inesattezze in cui cade l'Alfieri, allorchè accenna alle fonti dei suoi primi lavori teatrali. La tragedia del greco ch'egli « leggicchiò », come afferma, nella traduzione del Brumoy, gli avrà fornito tutt' al più l'occasione e l'idea del soggetto, e niente altro. Nè più esatto o più veritiero parmi ch'egli sia in quel luogo dove asserisce che l'argomento del Polinice gli fu somministrato dal poema di Stazio. Può esser vero codesto, quando egli stesso confessa aver disteso la sua tragedia in prosa francese tre mesi prima della recita della Cleopatra, in quel tempo appunto in cui non che Stazio non avea letto neppur Dante? Se lesse e studiò l'epico latino , ciò avvenne molti mesi dopo, quando, nella febbre del lavoro, andava cercando 76 N. IMPALLOMENI nei classici un modello di verso tragico conforme al tipo che accarezzava nel pensiero. Conchiudendo dunque, possiamo affermare, senza tema di andare errati, che nè Eschilo, nè Stazio furono gl' ispiratori dell' Astigiano , mentre concepiva o elaborava il Polinice. Ma ben altra faccenda è quando mettiamo a riscontro la tragedia italiana con le Fenicie di Euripide, di cui l'Alfieri non fa menzione. È qui che appaiono le prime somiglianze e reminiscenze ; è qui che incontriamo per la prima volta e la misera Giocasta supplicante invano i suoi figli e straziata da mille dolorosi sentimenti, e la pudica Antigone che sente un'infinita tenerezza per l'esule fratello, e il feroce Eteocle, usurpatore del trono, e il nobile e virtuoso Polinice irritato per la violenza patita ma non insensibile alle voci della natura e del sangue, e l'astuto Creonte che con arti inique spinge al delitto i due fratelli ; è qui infine che l'inno epico e solenne della musa di Eschilo si risolve e sviluppa nel tumulto commovente delle passioni del dramma. Che l'Alfieri abbia avuto sotto gli occhi, nella traduzione del Brumoy, la tragedia di Euripide, a me non pare che possa mettersi in dubbio, se badiamo non pure ad altri riscontri che riferirò a suo luogo (1), ma anche ad un'espressione singolarissima, di cui egli fece tesoro, quando accenna all'ambizione di regno, fonte di delitti e di sventure alla stirpe di Laio. Euripide, in un punto delle Fenicie, fa dire ad Eteocle che il trono, meta costante dei suoi pensieri e delle sue azioni, altro non è che una felice ingiustizia ( 2) ; ed il nostro poeta, modificando la mede- (1) Uno dei riscontri più salienti è la grande somiglianza del carattere di Polinice nelle due tragedie. Entrambi gli eroi sono umili, benigni e sommamente rispettosi verso la madre. Errò quindi il nostro autore, quando asserì che l'antichità prestògli un carattere a un dipresso somigliantissimo a quello di Eteocle. Fra gli antichi , se mai , fu Seneca il primo a dare quest'esempio. A me non pare esatto quel che scrive il Saint Marc Girardin a questo proposito : « Je sais gré à Alfieri d'avoir voulu imiter Euripide ; mais <« il est singulier que les poëtes , qui ont voulu imiter Euripide , aient tous, << dans l'exécution, oublié leur projet » ( Cours de littér. dram. , Paris, Charpentier, vol . II, p. 289). (2) Questa celebre massima di Euripide , che Cesare soleva ripetere con IL << POLINICE » DELL'ALFIERI 77 sima espressione in senso più schiettamente repubblicano, fa dire a Giocasta che il trono è un'antica ingiustizia, sempre tollerata ma sempre abborrita dagli uomini. Ma perchè il lettore possa avere un concetto esatto degli elementi che concorsero a formare il Polinice, non credo inopportuno, giunto qui, di dare qualche notizia sulla traduzione del Brumoy citata dall'Alfieri . Il Teatro dei greci, tradotto in francese dal Brumoy gesuita, ebbe l'onore di varie edizioni. Con quest'opera il dotto Padre intese fornire ai suoi connazionali una sommaria ma completa cognizione, non pure del dramma greco in generale, ma anche di tutti gli altri componimenti drammatici stranieri che portarono sulla scena gli stessi argomenti già trattati da quello. Per raggiungere questo scopo, ei non tradusse integralmente ogni tragedia, ma ne fece un sunto abbastanza largo e fedele riferendo di tratto in tratto integralmente i passi più belli e le scene più salienti . In tal modo composta, l'opera uscì nell'edizione del 1730, che l'Alfieri ebbe indubbiamente sott'occhio, quando pose mano al Polinice. In un'altra edizione, pubblicata a Parigi cinquantasei anni dopo, agli estratti del Brumoy, riveduti e corretti, fu aggiunta da Laporte Dutheil , Rochefort e Prévost l'intera traduzione di tutte le tragedie greche. Ora nel secondo volume dell'edizione del 1730 si trovano compendiate nel modo che dianzi ho detto, salvo l'ultima di cui l'autore si sbriga in poche parole, cinque tragedie di ugual contenuto, e cioè : le Fenicie di Euripide, la Tebaide di Seneca, l'Antigone di Rotrou, i Fratelli nemici di Racine e la Giocasta di Ludovico Dolce. Fu appunto sopra questa parte del lavoro francese che l'Alfieri fissò la sua attenzione ed ivi trovò, più predilezione e che Cicerone biasima severamente negli Offici (lib . III , cap. 21 ) , dovette far colpo nell'anima dell'Astigiano. Egli infatti, prima di modificarla, la riprodusse testualmente nella redazione in prosa italiana del Polinice , dove Giocasta dice al figlio : « Tu aspiri ad un trono, o sventurato Polinice. « Ah figlio, ma tu non pensasti a ciò che aspiri (sic) . Il trono altro non è << che una felice ingiustizia che opprime moltissimi uomini, per non render << contento un solo ». 78 N. IMPALLOMENI che nel breve compendio dei Sette a Tebe di Eschilo, collocato nello stesso volume, tutti gli elementi per comporre una tragedia com'egli poteva sentirla e concepirla in quei primi anni della sua professione artistica. Le Fenicie di Euripide gli rischiararono l'orizzonte. I caratteri di Antigone, di Eteocle, di Polinice ed in parte anche di Creonte gli somministrarono l'idea del modo come doveano esser trattati questi personaggi, e non minore aiuto gli dettero quei passi o quelle sentenze notevoli, di cui trovò la versione nell'opera del Brumoy, come il fiore della tragedia greca, e ch'egli inseri nel suo lavoro con qualche lieve mutazione. Ma non furono soltanto le Fenicie che colpirono la sua immaginazione. Anche la Tebaide di Seneca sorti lo stesso effetto. Di questa tragedia, in cui Seneca seguì una strada ben diversa da quella battuta da Euripide, ma della quale non possiamo farci un chiaro concetto, perchè in gran parte mutilata, il Brumoy, secondo il solito, diè un largo sunto, trattenendosi particolarmente sul quart'atto, di cui traduce l'unica scena pervenuta fino a noi. In questa scena, dove in mezzo a molta rettorica brillano alcune sublimi bellezze, Giocasta figura come se fosse davanti ai figli suoi ed adopera tutte le ragioni che le suggerisce l'amore materno per comporre il loro animo in pace. Ma di essi non le risponde che il solo Polinice ; e le sue brevi e feroci risposte rivelano un animo poco accessibile alle tenerezze del sangue, una sfrenata ambizione. Nella tragedia di Seneca il carattere di maggiore importanza è quello di Giocasta. Salvo infatti Edipo, che si trattiene a declamare lungamente sui propri mali nella prima scena del primo atto, non v'ha personaggio, in tutto il resto dell'opera, che sia rappresentato al pari di lei con tanta ricchezza di colorito e con tanto artifizio di poesia. È Giocasta che spasima , che ricorda continuamente il suo delitto, che è agitata da mille diversi sentimenti, che adopera tutte le lusinghe, tutte le minacce, tutti gli argomenti di cui possa far uso il cuore di una povera madre per vedersi esaudita nei suoi supremi desiderii . Questo carattere così spiccato e originale, non senza qualche lampo di vivissimo IL POLINICE » DELL ' ALFIERI 79 affetto, feri, come è facile comprendere, la fantasia di Rotrou e di Racine, i quali si studiarono di trasportarne nelle loro tragedie i tratti più espressivi e più commoventi. L'Alfieri, confortato dal loro esempio, segui la medesima via ; ma la sua imitazione fu una vera riproduzione. Del resto noi sappiamo quanto gli andasse a sangue lo stile concettoso del tragico di Cordova, allorchè, studiando il latino, lo traduceva per doppio esercizio di verseggiare e grandeggiare. Ma quando scrisse il Polinice, non avea cominciato ancora questo studio ; e se vogliamo renderci conto di tale riproduzione, dobbiamo cercarne l'origine nell'attenta lettura ch'egli fece di tutto ciò che nel ristretto del Brumoy gli parve bello ed opportuno al suo intento. A conferma di quanto son venuto dicendo, potrei recare molti esempi , ma starò contento ad un solo. Ognun ricorda come, al principio del quint' atto del Polinice, Giocasta, in attesa dell'esito della pugna tra i due fratelli , manifesti in un soliloquio i suoi dubbi e le sue ansie per conchiudere che la sua pietà spetta intera al vinto, qualunque sia il vincitore. Or bene questo tratto pieno di efficacia e di forza drammatica, che l'Alfieri introdusse nel suo lavoro fin dalla prima redazione in prosa francese, non è altro se non una parafrasi di un famoso luogo di Seneca, che il Brumoy riporta abbreviato nel compendio del terz'atto della Tebaide (1). Euripide e Seneca fornirono dunque al nostro poeta l'idea e il modo come doveano esser concepiti e rappresentati i personaggi della sua tragedia ; ma quello che gli somministrò larga copia di materiali per l'espressione di taluni sentimenti, per lo sviluppo dell'azione ed anche, se vogliamo, per condurre la favola al suo logico compimento, fu, come accenna egli stesso, il Racine. Il breve riassunto dei Fratelli nemici, fatto dal Brumoy nel secondo volume della sua opera, non gli bastò. Egli senti la necessità di ricorrere all'originale, che avea letto molti anni prima con l'abate Aillaud nel ritiro di Cezannes addormentandosi al (1) Cfr. Théâtre des Grecs par le P. BRUMOY, vol. II , p. 434. 80 N. IMPALLOMENI suono di quei versi dolci e armoniosi . Ma questa volta il poeta francese ebbe la sua rivincita e fu letto con tanta avidità dal suo avversario, che maggiore attenzione e maggiore studio non poteva aspettarsi da uno dei suoi più caldi ammiratori. E qui è necessario ch'io faccia, una breve esposizione della tragedia del Racine ; e dico è necessario per due motivi : primieramente perchè il lettore abbia innanzi agli occhi i due termini del paragone ; in secondo luogo perch'egli possa vedere da sè, senza affidarsi interamente ai giudizi dei critici, se l'Alfieri principiante facesse miglior prova del suo modello in un soggetto in cui si esercitarono le penne dei più insigni scrittori . I Fratelli nemici, composti dal Racine in età giovanile, sono, in gran parte , una riproduzione abbellita ed ampliata delle Fenicie di Euripide e dell'Antigone di Rotrou. Difetti ve ne ha molti e gravi ; e l'autore stesso, ripubblicando, dopo molti anni, il suo lavoro , non esitò a rilevarli in una prefazione con cui credette opportuno di accompagnarlo. Egli , come osserva il Brumoy, rendeva giustizia in tal modo a quel gusto delicato e fine che gli fece scrivere le più belle tragedie, di cui si vanti la letteratura francese. Il prim'atto dei Fratelli nemici si apre come il prim'atto dell'Antigone di Rotrou. Giocasta è in preda ad una febbrile agitazione. L'esercito di Eteocle è schierato sulle mura di Tebe in ordine di battaglia. I due fratelli stanno per venire alle mani. Che fare ? Giocasta ordina che sia chiamata Antigone, e intanto con una vivace apostrofe, imitata da Euripide, si rivolge al sole maravigliandosi com'esso possa sostenere la vista di tanti e sì crudeli misfatti . Venuta Antigone, la regina vuol recarsi con lei sul campo di battaglia per dividere i due inferociti fratelli ; ma ecco sopraggiungere Eteocle con la spada in pugno e con le vesti insanguinate. La regina, a quella vista, retrocede spaventata ; ma l'eroe la rassicura dicendole che il sangue di cui è macchiato non è quello di Polinice ma di una schiera d'Argivi a cui, combattendo, ha fatto mordere la polvere. La povera madre allora lo scongiura a mani giunte di risparmiarle ogni altro strazio IL POLINICE » DELL' ALFIERI 81 e di voler desistere da una guerra fratricida che spaventa la patria e funesta miseramente il suo cuore. Eteocle, con atroce fierezza, risponde che la guerra, malgrado le sue preghiere, continuerà e che Polinice non salirà mai sul trono. Egli è odiato dai Tebani ed ha sposato la figliuola di Adrasto per assalire con le armi straniere la patria sua. Ciò non ostante, Giocasta insiste e promette di andar in persona alla tenda di Polinice, di commuoverlo e intenerirlo con le sue lagrime, o, se mai, di abbracciarlo e dirgli per l'ultima volta addio. Tutte queste effusioni di tenerezza finiscono per ammansare l'animo di Eteocle. L'amore per la madre è in lui molto più forte dell'ambizione, e quando viene Creonte ad annunziargli che il popolo, levatosi a rumore, volea vederlo ad ogni costo, ad un tratto, mutatosi, ordina che d'ora in poi si ubbidisca a lei avendo deciso di abbandonare il trono. Strana mutazione ! Creonte infatti se ne maraviglia e domanda alla sorella : Qu'avez-vous fait, madame? et par quelle conduite Forcez-vous un vainqueur à prendre ainsi la fuite? Ce conseil va tout perdre. Ma Giocasta e Antigone si accorgono delle intenzioni di Creonte e lo rimproverano fortemente. Lo accusano sopra tutto di fomentare la discordia tra i due fratelli per rovinarli e sgombrarsi la via al trono. Ma se Creonte è un furfante da dozzina che scopre o fa scoprire con tanta facilità i suoi disegni, non è poi tanto sciocco da non sapersi difendere contro due donne, le quali, in fin dei conti, non diranno nè faranno nulla per attraversargli i passi. E difatti l'apologia che fa di se stesso è degna della sua indole e della parte che rappresenta in tutta la tragedia. Egli arriva financo a manifestarsi geloso di suo figlio Emone che combatte nelle file dell'esercito nemico ed ama Antigone e n'è riamato con pari ardore. E quando ha vuotato il sacco dei suoi segreti e non sa più che dire, si allontana promettendo alla donzella di non venirle più innanzi e di lasciare per sempre il posto al suo fortunato rivale. Le donne, dopo qualche Giornale storico , XXI, fasc . 61 . 6 82 N. IMPALLOMENI parola di sprezzo scambiata tra loro, stabiliscono di prevenirlo affrettando le pratiche per la pace. Nel second'atto Giocasta ed Emone parlano del loro amore in una sala della reggia, mentre Giocasta è andata al tempio a consultare l'oracolo. Questa scena, imitata dal Rotrou, è molto più ammanierata dell'originale e pecca sopra tutto di sconvenienza. Olimpia, confidente di Giocasta, viene a recare il responso dell'oracolo che chiede in sacrifizio l'ultimo rampollo della stirpe reale. Questa notizia conturba Antigone, la quale dubita che l'oracolo non abbia voluto alludere al suo amante. Ma ecco una scena che troveremo imitata in gran parte dal nostro Alfieri. Giocasta è riuscita a condurre nella reggia Polinice e con le preghiere più umili, con le ragioni più persuasive si studia di sradicargli dall'animo la funesta ambizione che lo tormenta . Polinice alle preghiere risponde con le minacce, ed è inconcepibile, dice il Brumoy, come il Racine, sì grande amatore ed imitatore di Euripide , non abbia voluto seguirne l'esempio nella concezione artistica di questo personaggio. Le massime dell'eroe tebano sono tali che poteano piacere soltanto ad un poeta del tempo di Luigi XIV. Eccone, per esempio, qualcuna : Est-ce au peuple, madame, à se choisir un maître ? Sitôt qu'il hait un roi doit-on cesser de l'être ? Sa haine ou son amour, sont-ce les premiers droits Qui font monter au trône ou descendre les rois ? Que le peuple à son gré nous craigne ou nous chérisse Le sang nous met au trône, et non pas son caprice ; Ce que le sang lui donne , il le doit accepter ; Et s'il n'aime son prince, il le doit respecter. A queste parole Giocasta ed Antigone prorompono in lamenti interminabili biasimando la crudeltà e l'ingratitudine di Polinice il quale, in fin dei conti, non ha tutti i torti di questo mondo. Egli desidera che gli sia restituito il trono usurpatogli dall'iniquo fratello ed il suo desiderio, benchè espresso in termini poco cortesi, non ha nulla d'ingiusto, nulla che oltrepassi i termini d'una legittima richiesta . L'Alfieri, nell'imitare questa scena, si mostrò IL POLINICE » DELL' ALFIERI 83 molto più logico del poeta francese. Se non che a togliere Polinice d'imbarazzo sopraggiunge opportunamente un soldato, il quale annunzia aver Creonte, per ordine del re, rotta la tregua ed assalito l'esercito argivo. L'eroe, pieno di sdegno, chiama spergiuro il fratello e, rinunziando ad ogni trattativa di pace, lascia i parenti e corre subito in aiuto dei suoi . Nel terz'atto durano le stesse perplessità, gli stessi timori. La battaglia tra le schiere di Creonte e quelle di Polinice continua ancora, e Giocasta manda la sua confidente a vedere se nulla mai abbia potuto commuovere il feroce animo dei due nemici. Le parole della regina, piene di amaro cordoglio, ritraggono mirabilmente lo stato dell'animo suo : Voilà de ces grands dieux la suprême justice ! Jusques au bord du crime ils conduisent nos pas ; Ils nous le font commettre, et ne l'excusent pas! Prennent-ils donc plaisir à faire des coupables Afin d'en faire après d'illustres misérables ? A toglierla da una situazione cosi angosciosa viene Antigone, il cui pallore tradisce la sua commozione. La regina trema per la vita del suo Polinice ; ma la donzella lo rassicura e con belle parole le narra la gloriosa morte di Meneceo sacrificatosi per la patria. Le due donne si confortano a vicenda sperando in un miglior avvenire, ed a confermarle per poco in questa speranza giunge Eteocle, pieno di entusiasmo per la morte di Meneceo che leva a cielo e vorrebbe imitare, se non sentisse « qu'un trône << est plus pénible à quitter que la vie ». Il volere del paese lo conforta a proseguire la guerra ed egli dichiara apertamente, non ostante le rimostranze di sua madre, che rimarrà sul trono, finchè il popolo non l'abbia sconosciuto ed espulso. Ma Creonte non è più l'uomo bellicoso di prima. Addolorato per la morte di Meneceo e paventando per Emone chiede pace. La domanda trova appoggio in Attalo, suo confidente, il quale annunzia ad Eteocle che Polinice desidera aver un abboccamento con lui. Creonte si mostra lieto della notizia ed a furia di ragionamenti 84 N. IMPALLOMENI induce il re ad accettare il colloquio ; ma, rimasto solo col suo confidente, gitta la maschera e rivela le sue intenzioni. Egli brama regnare, purchè il regno non gli costi una stilla di sangue. La guerra potrebbe esser funesta ad Emone, unico superstite della sua famiglia. Conosce gli odî inveterati dei due fratelli ed egli procura di avvicinarli, affinchè coi loro abbracci si soffochino e si uccidano a vicenda. Tutte queste idee sono coerenti e convenienti fino a un certo punto al suo carattere ed alla sua politica ; ma con quanta poca naturalezza sono espresse ! Il Creonte del Racine è il rovescio di quello dell'Alfieri . Egli narra e declama tutto ciò che nella tragedia italiana si trova in azione ; ed è degno di nota il vedere come il nostro poeta, tuttochè principiante , abbia evitato i difetti del suo modello ispirandosi anche per questa parte nell'esempio di Euripide che dette al personaggio di Creonte atteggiamento e colorito molto più sobrio e più conforme all'indole della natura umana. Nel quart'atto Eteocle e Creonte aspettano la venuta di Polinice. Il re cerca pretesti per mandare a vuoto la sospirata conciliazione. Creonte capisce e gli dice astutamente : Mais s'il vous cède enfin la grandeur souveraine, Vous devez, ce me semble, apaiser votre haine. Eteocle però che non intende lo scopo di quest' insinuazione, perchè nessuno si dà pensiero di svelargli il segreto che tutti sanno, giura odio eterno al fratello e si diffonde a parlare sull'invincibile antipatia che li divide. Il terreno è dunque preparato e Creonte ne profitta per raggiungere il suo scopo. Egli dichiara che il suo più grande desiderio è la pace ; ma se con la pace bisogna ricever Polinice, riarda la guerra e non finisca prima d'aver involto nelle sue rovine il suo medesimo promotore. Con queste disposizioni di animo è naturale prevedere quel che accadrà. Si annunzia Polinice ed egli viene difatti accompagnato da Giocasta, da Antigone e da tutta la corte. E qui son ripetuti appuntino tutti i particolari che si trovano nelle scene corrispondenti della Tebaide di Seneca e dell'Antigone di Rotrou , IL POLINICE » DELL'ALFIERI 85 particolari che furono messi a profitto dell'Alfieri nel second' atto der Polinice. I due fratelli, al primo vedersi, si scambiano acerbi rimproveri. Invano la regina piange, invano prega, invano si rivolge con le più tenere espressioni a Polinice ch'essa dice più buono. La misera madre s'illude. Polinice non può essere diverso da quello che si è mostrato nel corso dell'azione. Inasprito dalle sdegnose ripulse del fratello, l'eroe dichiara che i mali di Tebe finiranno, quando la terra sarà bagnata del sangue di uno di loro. Eteocle, invitato a misurarsi con lui in singolare combattimento, accetta la sfida, e l'infelice Giocasta, inorridita del misfatto che sta per compiersi, fugge da quel luogo col proposito di prevenire colla propria morte il fraterno eccidio : Et moi je vais, cruels, vous apprendre à mourir. Curioso che nessuno degl' interlocutori tenti di opporsi o di trattenerla. I due fratelli, punto preoccupati della madre, si lasciano per tosto ritrovarsi in campo, ed Antigone, confusa ed atterrita, non sa far di meglio, in quel frangente, che pregare Emone perchè voglia salvarli arrestando il loro braccio fratricida. Nel quint' atto Giocasta si è uccisa. Antigone ce lo fa sapere con le sue lagrime e le sue stanze : Dois-je vivre? dois -je mourir? Un amant me retient, une mère m'appelle ; Dans la nuit du tombeau je la vois qui m'attend ; Ce que veut la raison, l'amour me le défend Et m'en ôte l'envie. Que je vois de sujets d'abandonner le jour ! Mais, hélas ! qu'on tient à la vie, Quand on tient si fort à l'amour ! È un rimasuglio, osserva il Brumoy, del vecchio gusto delle stanze che non sedusse lungo tempo il Racine. Olimpia, che corre eternamente dal principio alla fine dell'azione, ora dal palazzo al campo, ora dal campo al palazzo, viene ad annunziare alla principessa che nel duello Polinice è rimasto vincitore ed Eteocle è morto. Antigone piange, ma la sua commozione non è molto 86 N. IMPALLOMENI sincera in questo momento. Del resto Olimpia non le ha detto tutta la verità. A completare le notizie viene subito dopo Creonte. Antigone crede che la politica di quest'uomo sia ben punita dalla vittoria di Polinice ; ma egli la disinganna narrandole per filo e per segno il vero esito della pugna. Eteocle, morendo, ha ucciso il fratello, ed Emone stesso, volendo dividerli , è caduto vittima della sua generosità. Nè la parte odiosa di Creonte si restringe a questa sola. Avendo perduto in Emone, suo figlio, un possente rivale, egli ha la sfrontataggine, in questo momento di solenne tristezza, di offrire e mano e trono all'infelice donzella, la quale gli risponde naturalmente come deve rispondere una donna offesa e ferita nei sentimenti più cari al suo cuore. Ma Creonte è così pieno della sua stravagante passione da non accorgersi di nulla; anzi, rimasto solo col suo confidente Attalo, non arrossisce di millantarsi d'aver guadagnato un trono ed una sposa. Siffatta illusione gli vien però tolta poco dopo da Olimpia, la quale gli . annunzia che la principessa si è uccisa con l'arma stessa che avea data la morte a Giocasta. Creonte rimane stordito. La morte di Antigone lo richiama alla terribile realtà delle cose. Egli vuol morire, implora le folgori, maledice gli dei, prorompe in urli da forsennato ; quindi nell'eccesso del dolore e della disperazione cade svenuto fra le braccia delle sue guardie (1). Col delirio di Creonte finisce la tragedia del Racine e col delirio di Giocasta finisce anche quella dell'Alfieri , il quale sfruttò l'autore da lui preso a modello , finchè gli fu possibile ; finchè cioè le ragioni dell'arte e la differenza del temperamento artistico gli permisero di valersi degli espedienti scenici, che il lavoro del Racine largamente gli somministrava. Il nostro poeta concepi il Polinice, come concepiva tutte quante le sue tragedie : vi (1) Al lettore non sarà sfuggito di certo che quasi tutti i personaggi principali alla fine della tragedia si uccidono o sono uccisi. Il Racine avvertì questo difetto e se ne scusò nella citata Prefazione : « La catastrophe de ma << pièce est, peut-être, un peu trop sanglante ; en effet, il n'y paroît presque << pas un acteur qui ne meure à la fin : mais aussi c'est la Thébaïde , c'est << a dire le sujet le plus tragique de l'antiquité ». IL POLINICE » DELL' ALFIERI 87 troviam dunque semplicità d'intreccio, de' personaggi solo i necessarii, rapidità e calore nell'azione. Egli eliminò i tradizionali confidenti dei Fratelli nemici, il personaggio di Emone, l'episodio di Meneceo, l'insulso amore di Creonte, e ridusse il dramma al soggetto principale, alla lotta cioè combattuta da Eteocle e Polinice per il possesso del regno ed ai contrasti drammatici che per l'intromissione di altri personaggi ne poteano derivare. Cancellate le sfumature, le gradazioni, soppressa l'abbondanza e la varietà dei colori, parrebbe che questa tragedia dovesse riuscire un'assai povera cosa. Pure il genio dell'Alfieri seppe trarne, non ostante l'estrema semplicità, effetti in alcune parti molto più fecondi dei suoi predecessori, effetti che io spero far sentire al cortese lettore esponendogli il soggetto del Polinice, quale usci dalle mani dell'autore dopo il lavoro lento e faticoso di sei versificazioni. II. Il primo atto si apre con una scena molto simile a quella corrispondente dei Fratelli nemici. Giocasta e Antigone, perplesse ed agitate, rammentano i mali della guerra, l'ambizione dei due fratelli, i misfatti della stirpe di Laio : (1) Gioc. Poco finor pietosi Al padre, è ver ; tra lor crudi fratelli Deh ! chè non sono alla lor madre iniqua Nemici, a miglior dritto ? (1) . In me null'altra Pena è che il duol, scarsa al mio orribil fallo. In trono io seggo, e l'almo sole io veggio, Mentre infelice ed innocente Edipo, Privo del dì, carco d'infamia, giace Negletto ; e lo abbandonano i suoi figli. Forza è, per lor, che doppio orrore ei senta D'esser dei propri suoi fratelli il padre (2). Illis parentis ullus ant aequi est amor Avidis cruoris , imperii, armorum , doli Diris , scelestis, breviter ut dicam, meis ? (2) Frater suorum liberum et fratrum parens. (SEN. , Phoenis, 295 sq. ) (Ibid. , 135) . 888 N. IMPALLOMENI Ant. Lieve aver pena a paragon d'Edipo, Madre, a te par ; ma da sue fere grotte Bench'or pel duolo, or pel furore, insano Morte ogni di ben mille volte ei chiami ; Benchè in eterne tenebre di pianto Sepolti abbia i suoi lumi, egli assai meno Di te infelice fia. Quel che si appresta Spettacol crudo in questa reggia, ascoso Gli sarà forse, o almen coi paterni occhi Ei non vedrà ciò che vedrai (1) ; gl'impuri Empi del vostro sangue avanzi feri Distruggersi fra loro. L'inesperienza dell'Alfieri si rivela da questi primi versi. Antigone, come in Euripide e in Racine, ha lo stesso amore, l'istessa simpatia segreta per Polinice. Ben diversa dalla madre, facile ad illudersi , ella non si perita di farle sentire chiaramente il suo modo di vedere : Ant. Ambo giuraro : un sol l'attenne E fuor del trono ei sta. Tumido il preme Lo spergiuro Eteocle ; e di tradita Fede ei raccoglie il frutto iniquo. Astretto A mendicar dalle straniere genti Polinice soccorsi , all'ire sue Qual fin, s'ei non ha regno? (2) . E a forza darlo Come vorrà chi può tenerlo a forza? Pure Giocasta non si scoraggia e forte di quel santo amore che, con pietosa indulgenza, occulta i difetti dei figli, confida nelle sue preghiere, nelle sue lacrime, o, se mai, nelle sue minacce: (1) (2) Nam pater debet sibi Quod ista non spectavit. Quam pene mater majus aspexi nefas Quam quod miser videre non potuit pater! O diri conjugis olim Felices tenebrae ! Exsul errat natus et patria caret Profugusque regum auxilia Grajorum Rogat. (Ibid . , 552 sq.). (Ibid. , 497 sq.). (STATII, Theb. , XI, 888 sq. ). (Ibid., 873 sq. ) . IL « POLINICE » DELL' ALFIERI 89 Ed io non sono? aver tra lor può loco L'ira, se in mezzo io sto ? Deh ! non mi torre La speme mia! Per quanto or fama suoni, Che a sostener dell'esul Polinice Gl'infranti dritti, d'Argo il re s'appresti ; Per quanto altero ed ostinato seggia Sul trono l'altro ; in me, nel petto mio , Nel pianto mio, nel mio sdegno rimane Forza, che basti a raffrenarli (1) . Udrammi Il re superbo rammentar sua fede Giurata invano; e Polinice udrammi Rammentar, ch'ei pur nacque in questa Tebe, Ch'or col ferro egli assal ... Che più? mi udranno, Se mi vi sforzan pur, l'infame loro Nascimento attestar : nè l'empie spade Troveran via tra lor, se non pria tinte Entro al sangue materno (2). Ma Antigone non s'illude. Le sue speranze son riposte nel più buono, in Polinice, in colui che fu ingiustamente scacciato dal trono ; e questi suoi sentimenti, espressi con più costanza che non nel dramma di Racine, farebbero di lei una creatura poetica, (1) (2) Ibo, ibo et armis obvium opponam caput Stabo inter arma. Petere qui fratrem volet Petat ante matrem: tela, qui fuerit pius, Rogante ponat matre ; qui non est pius Incipiat a me. Fervidos juvenes anus Tenebo ; nullum, teste me, fiet nefas ; Aut si quod, et me teste, committi potest, Non fiet unum. (Ibid . , 407 sq. ) . Me miseram vinces ! prius haec tamen arma necesse est Experiare domi, stabo ipsa in limine portae Auspicium infelix, scelerumque immanis imago Haec tibi canities , haec sunt calcanda, nefande, Ubera perque uterum sonipes hic matris agendus. ( STAT. , Theb. , XI, 338 sq . ) . Allons, chère Antigone, et conrons de ce pas Arrêter, s'il se peut, leur parricide bras. Allons leur faire voir ce qu'ils ont de plus tendre ; Voyons si contre nous ils pourront se défendre, Ou s'ils oseront bien, dans leur noire fureur, Répandre notre sang pour attaquer le leur. (BAC. , Fr. en. , at. I, sc. 2a) . 90 N. IMPALLOMENI se non avesse quella certa aria di rigidezza, onde sono improntate quasi tutte le donne dell'Alfieri. Il verso stesso, troppo aspro e stridente, vi contribuisce non poco dalla sua parte. Ma ecco il fiero Eteocle. Nel concepire questo carattere il nostro poeta non si scostò dalla comune tradizione. Un uomo che nega al fratello i patti stabiliti , che lo espelle dalla terra natia , che cerca tutti i pretesti per sbarazzarsene e mette in opera ogni astuzia per onestare la propria ambizione, non potea esser concepito se non come un tiranno. L'Alfieri trovò in questo personaggio il suo elemento favorito ; ma quanto diverso non riuscì il suo Eteocle da quello di Racine e di Euripide stesso ! Si dice comunemente che i tiranni alfieriani si rassomigliano tutti . Quanto sia vero ciò si può vedere paragonando, ad esempio, il carattere di Filippo con quello di Polinice. Filippo è il tiranno cupo, meditabondo, che pesa ogni atto, ogni parola ; Eteocle è il tiranno ambizioso, malvagio, feroce, che mal nasconde la sua malvagità, che vuole sbarazzarsi del suo competitore , pur apparendo generoso. Per questo egli non ha ombre , non sottintesi : le sue parole rivelano a prima giunta la sua indole e le sue intenzioni : Eccolo, ei vien quel Polinice alfine ; Ei vien colui, che tua pietà materna Primo si usurpa. Il rivedrai, non quale Di Tebe uscia : ramingo, esule, solo. Non qual mi vide ei ritornar nel giorno, Ch'io a lui chiedeva il pattuito trono ; Torna egli a noi con la orgogliosa pompa Di possente nemico : in armi ei chiede L'avito seggio al proprio suo fratello : Bramoso e presto a incenerir si mostra Le patrie mura, i sacri templi, i lari, La reggia, in cui le prime aure di vita Pur bevve ... ..... (1). (1) Nei Sette a Tebe Anfiarao fa gli stessi rimproveri a Polinice : IL POLINICE » DELL' ALFIERI 91 Ecco il pretesto addotto da Eteocle per giustificare la sua condotta. A sentirlo, se Polinice non si fosse congiunto con Adrasto ai danni di Tebe, egli avrebbe ceduto volentieri il trono e sarebbe andato in esilio : Non è, non è costui Tebano omai ; si è fatto Argivo : Adrasto Die a lui la figlia, ed ei daragli or Tebe (1 ). Com'ei calpesti il suol natio, dall'alte Torri, se ciò mirar ti piace, il mira : Vedi ondeggiar ne' nostri campi all'aure Di un tuo figlio le insegne (2) ; ampio torrente Vedi il piano inondar d'armi straniere (3). Ma Giocasta ed Antigone non si mostran persuase da queste ra- (1) ἢ τοῖον ἔργον καὶ θεοῖς προςφιλές καλὸν τ᾿ ἀκοῦσαι καὶ λέγειν μεθυστέροις πόλιν πατρῴαν καὶ θεοὺς τούς ἐγγενεῖς πορθεῖν, στράτευμ᾽ ἐπακτὸν ἐμβεβληκότα. (AESCH. , Sept. ad Theb. , 580 sq. ) . πρὸς δὲ τοῖςδ᾽ αἰσχύνομαι ἐλθόντα σὺν ὅπλοις τόνδε καὶ πορθοῦντα γῆν τυχεῖν & χρήζει . Non, madame, à l'empire il ne doit plus prétendre ; Thèbes à cet arrêt n'a point voulu se rendre ; Et lorsque sur le trône il s'est voulu placer, C'est- elle, et non pas moi, qui l'en a su chasser Thèbes doit-elle moins redouter sa puissance, Après avoir six mois senti sa violence? Voudroit-elle obéir a ce prince inhumain (EoR., Phoenis . , 510 sq. ) . Qui vient d'armer contre elle et le fer et la faim ? ( R▲c. , Fr. en. , at . I , sc. 3a). Prendroit-elle ( Tebe ) pour roi l'esclave de Mycène, Qui pour tous les Thébains n'a plus que de la haine, Qui s'est au roi d'Argos indignement soumis, Et que l'hymen attache à nos fiers ennemis ? Lorsque le roi d'Argos l'a choisi pour son gendre, Il espéroit par lui de voir Thèbes en cendre. Cursa citato miles hinc illinc ruit ... Infesta fulgent signa. (RAC. , Op. cit., loc. cit. ). (2) (SEN. , Op. cit. , 393 sq. ). (3) ... βολ γὰρ κῦμα χερσαῖον στρατοῦ (AESCH. , Op. cit. , 64). 92 N. IMPALLOMENI gioni, e con brevi parole cercan fargli intendere che il torto è dalla parte sua. Eteocle risponde risentito e continua nelle sue invettive contro il fratello, finchè la madre « M'è figlio » esclama con un tratto improvviso di tenerezza : - M'è figlio ancor ; tal io l'estimo : e forse Farò, ch'ei te fratello ancora estimi. Affrontar voglio il suo furore io prima: lo scendo al pian ; tu resta ..... ( 1 ) . - Con queste scene preparatorie l'Alfieri volle dare un'idea del soggetto ; con la comparsa di Creonte intese determinare più nettamente la situazione. Creonte è l'anima di tutta quanta la tragedia. Egli ha uno scopo ed una speranza, al cui effettuarsi consacra tutti i mezzi di cui dispone, tutta la potenza della sua astuzia infernale. Per questo egli non si perde in ciarle, non declama, non ha la smania, come il Creonte del Racine, di far sapere agli altri tutti i suoi segreti ; ma procede diritto nella sua via, ed ha si profonda malvagità e cognizione del cuore umano, che a volte, ad udirlo, par di sentire l'eco di quegli effetti che sa produrre in noi il personaggio di Jago nell'Otello. Ma Jago, nei suoi monologhi, ci rivela in parte il processo dei suoi truci pensieri, facendoci assistere al dramma tutto intimo che si svolge nella sua coscienza : Creonte invece , chiuso come una tomba , non apparisce qual'è se non nel corso dell'azione stessa. Mai gli sfugge dal labbro una parola, un sospiro, un lieve accenno ai suoi desiderii ed alle sue speranze ; pare che il poeta l'abbia creato per non sentire altre passioni che quelle dell'odio e del tradimento. Il suo primo apparire sulla scena mette in subbuglio gli animi. Egli viene ad annunziare che Polinice, deposto lo sdegno, desidera avere un abboccamento col fratello. A questa notizia le due (1) Dès ce même moment permettez que je sorte : J'irai jusqu'à sa tente, et j'irai sans escorte ; Par mes justes soupirs j'espère l'emouvoir. (RAC. , Op. cit. , loc. cit.). IL « POLINICE » DELL'ALFIERI 93 donne, piene di giubilo, si partono per andargli incontro e disporlo alla pace. Ma Eteocle rimane acerbamente irritato . Le sue parole dispettose, le sue domande piene d'impeto e d'ira dimostrano a chiare note ch'egli cerca un pretesto qualsiasi per impedire una conciliazione che gli sarà di svantaggio. Creonte lo indovina e si mette all'opera. Ma prima è necessario che risorga nell'animo del giovine l'iniqua passione che lo tormenta , e per riuscirvi qual mezzo migliore che rammentargli la richiesta, i modi arroganti, l'ambizione di Polinice ? Alla parola sangue pronunziata da Creonte i sentimenti di Eteocle, fin li mal repressi, scoppiano in tutta la loro terribile ferocia : Certo, e mestier gli fia berselo tutto ; Chè la mia vita e il mio regnar son uno (1) . Suddito farmi, io , d'un fratel che abborro, E vie più sprezzo ? io, che l'ugual non veggio ? Sarei pur vil, se allontanar dal soglio Potessi anco il pensiero. Un re, dal trono Cader non debbe, che col trono istesso : Sotto l'alte rovine, ivi sol , trova Morte onorata, ed onorata tomba (2) . A questo punto Creonte non ha più ritegni. Mirabile è il vederlo trapassare dal biasimo alla lode, dal dubbio sulla fede di Polinice alle proposte suggestive Eteocle ne rimane interamente soggiogato: E ch'altro bramo, e ch'altro spero, e ch'altro Sospiro io più, che col fratel venirne (1) Pro regno velim Patriam, penates, conjugem flammis dare, Imperia prætio quolibet constant bene. (SEN. , Op. cit. , 162 sq . ) . (2) Polinice parla dei re sventurati che occuparono il trono di Tebe : Quand je devrois au ciel rencontrer le tonnerre J'y monterois plutôt que de ramper à terre . Mon cœur, jaloux de ces grands malheureux, Veut s'élever, madame, et tomber avec eux. Est tanti mihi Cum regibus jacere. (RAC. , Op. cit. , at. IV, sc. 3a). (SEN. , Op. cit. , 651 sq . ). 94 N. IMPALLOMENI All'arme io stesso ? (1) . In me quest'odio è antico Quanto mia vita ; e assai più ch'essa il curo (2) . Cr. Tua vita ? oh! nol sai tu ? nostra è tua vita. Non ha il valore, è ver, più nobil seggio Che il cor d'un re : ma, ai tradimenti opporre Schietto valor dovrai? non è costui Traditor forse ? in Tebe oggi che il mena ? Col brando in pugno, a che parlar di pace? A che nomar la madre? egli a sedurla Vien forse; e già l'empia sorella è sua ... Gran macchinar vegg`io . Deh ! tante fraudi Non preverrai ? La domanda è la forma con cui Creonte cerca d'insinuare nell'animo del nipote l'idea del tradimento ; ma Eteocle vi ripugna, e allora egli cambia accortamente tono. Dalle proposte di sangue passa a quelle di pace. Con quest'artifizio sarà facile che il traditore perisca di tradimento : Dunque di pace io 'l grido Spargo ad arte : di pace alle proposte Non cederai , che a stento : al par gli amici E i nemici ingannare oggi t'è d'uopo . Ma, più che a nullo, alla tremante madre, D'ogni sospetto sia tolta anco l'ombra. E così si chiude una scena, la quale se non peccasse di una certa rigidezza nella forma , non sarebbe indegna della penna dello Shakspeare. Nel second' atto gli animi son disposti alla pace. Creonte, divenuto tutto zelo nel conciliare i due fratelli, annunzia a Giocasta (1) Καί μοι γένοιτ' ἀδελφὸν ἀντήρη λαβεῖν καὶ ξυσταθέντα διὰ μάχης ἑλεῖν δορί . ( EUR., Op. cit. , 754 sq. ) . (2) Je ne sais si mon cœur s'apaisera jamais : Ce ne pas son orgueil, c'est lui seul que j'hais. Nous avons l'un et l'autre une haine obstinée ; Elle n'est pas, Créon, l'ouvrage d'une année ; Elle est née avec nous ; et sa noire fureur Aussitôt que la vie , entra dans notre cœur. IL POLINICE » DELL'ALFIERI 95 esser prossima la venuta di Polinice, e costei si rivolge ad Eteocle supplicandolo a mostrarsi umano e generoso ed a por termine ad ogni contesa. La scena seguente, in cui i due fratelli s'incontrano alla presenza della madre e le loro feroci discordie si riaccendono, è una delle più drammatiche e spontanee di tutta la tragedia. In questo punto, pieno di movimento e di calore, l'Alfieri spiega una perizia affatto particolare e si lascia di gran lunga addietro Racine, Seneca ed Euripide stesso, che vi fecero sfoggio di non poca rettorica. E poichè abbondano in questa scena le reminiscenze degli altri autori, che il nostro poeta ebbe a modello,. non credo fuor di luogo riferirne i passi più importanti con tutti quei riscontri che m'è venuto fatto di raccogliere : (1) (2) Gioc. Oh da gran tempo invan bramato figlio ! Pur ti riveggo in Tebe ! ... Al fin ti stringo Al sen materno (1 ) ... Oh quanto per te piansi ! Or di' : miglior fatto ti sei ? chiedesti La madre ; eccola : in lei l'orrido incarco Di fraterna querela a depor vieni ? Deh! dimmi ; a me, consolator ne vieni, O troncator de' miei giorni cadenti ? (2) . Ἰώ τέκνον χρόνῳ σὸν ὄμμα μυρίαις τ᾽ ἐν ἀμέραις προςεῖδον· ἀμφίβαλλε μαστὸν ὠλέναισι ματέρος. παρηΐδων τ᾿ ὄρεγμα βοστρύ χων τε κυανόχρωτα χαιτας πλόκαμον, σκιάζων δέραν ἐμάν. Ἰὼ Ἰώ, μόλις φανείς ἄελπτα κἀδόκητα ματρός ωλέναις. Junge complexus prior, Qui tot labores totque perpessus mala Longo parentem fessus exilio vides. Accede propius. Me voici donc tantôt au comble de mes vœux, Puisque déjà le ciel vous ressemble tous deux ... Commencez donc, mes fils , cette union si chère ; Et que chacun de vous reconnoisse son frère : Tous deux dans votre frère envisagez vos traits ; Mais pour en mieux juger, voyez- les de plus près ; Surtout que le sang parle et fasse son office. Approchez, Étéocle ; avancez, Polynice ... (EUR. , Op. cit. , 304 sq. ). (SEN. , Op. cit. , 465 sq.) . (RAC. , Op. cit. , at. IV, sc. 3a). 96 N. IMPALLOMENI Pol. Così pur fossi al tuo pianto sollievo , Madre, com'io il vorrei ! Ma tale io sono , Che meco apporto, ovunque il passo io volga , L'ira del cielo. Ancor, pur troppo ! o madre, Lagrime assai dovrò fors'io costarti . Gioc. Ah no! fra noi non di dolor si pianga; Di gioia, sì. Vieni ; al fratel ti appressa ; Mi è figlio, e caro al par di te : se nulla Ami la madre, placido a lui parla; Porgigli amica destra ; e al seno ... (1). Questo tenero ricambio di parole affettuose viene interrotto bruscamente da Eteocle, il quale domanda al fratello per qual ragione sia venuto nella reggia armato di spada, di elmo e di scudo. Polinice gli risponde che le armi sono necessarie dove regna il tradimento ; ma Giocasta l'ammonisce: Deh! ciò non dir : non v'hai tu madre in questa Reggia? e, finchè ve l'hai , ti estimi inerme? Ecco il tuo scudo, miralo, il mio petto ; Questo mio fianco, che ad un tempo entrambi Voi già portò (2) : deh ! l'altro scaglia ; ai nostri Caldi amplessi ei s'oppon; tacito dirne Par, che nemico infra nemici stai. (1) (2) Et. Nè tu segno aspettar da me di pace Se pria non apri il pensier tuo ; se il dritto Quoi! vous n'en faites rien ! C'est à vous d'avancer ; Et, venant de si loin, vous devez commencer : Commencez, Polynice, embrassez votre frère , Et montrez (RAC. , Op. cit., loc . cit. ). Quo vultus refers Acieque pavida fratris observas manum? Affusa totum corpus amplexu tegam : Tuo cruori per meum fiet via. Quid dubius haeres ? an times matris fidem ? (SEN., Op. cit. , 473 sq. ). (STAT. , Theb. , VII, 511 sq.). Anne times ne forte doli et te conscia mater Decipiam ? Pourquoi sur votre frère attachez- vous les yeux ? Je vous couvrirai tout, et pour vous faire outrage Il faudrait que par moi son fer se fît passage. ( ROTROU, Antig. , at. II , sc. 4a) . IL « POLINICE » DELL' ALFIERI 97 Pria non esponi, onde ti attenti in Tebe Suddito cittadin tornarne in armi (1) . Pol. Narrar mio dritto a chi sol forza è dritto, Mal potrei, se con me forza non fosse. Et. Grecia il sa tutta ; e tu nol sai ? tu il chiedi ? Io dirtel vo' ; regnasti ; e or più non regni (2) . Folle, il saprai, s'io regno. Il dialogo diviene sempre più animato e pungente. I due fratelli si scambiano i più amari rimproveri. Giocasta, disperata, interviene gridando : Et. Pol. Et. Alme feroci, Questa è la pace? Uditemi, ven prego, Udite ... - In trono io seggo ; io re, ti dico , Che fin che Adrasto e gli Argivi abborriti Stringon Tebe, di pace io no, non odo Proposta niuna; e te non soffro innanzi Al regio mio cospetto (3). Ed io rispondo A te che il trono usurpi, e re ti nomi ; Rispondo io qui che rimarran gli Argivi, Ed io con lor, se non attieni pria Tuo giuramento tu. Madre, tu l'odi : Odi mercè che ai suoi delitti implora. Che fai tu in Tebe ? Escine dunque (4). Hé, madame ! à quoi bon ce mystère? Tous ces embrassements ne sont guère à propos : Qu'il parle, qu'il s'explique , et nous laisse en repos. (1) (2) Quoi! faut-il davantage expliquer mes pensées ? On les peut découvrir par les choses passées : La guerre, les combats, tant de sang repandu, Tout cela dit assez que le trône m'est dû. (RAC. , Op. cit. , loc . cit . ) . (3) ταῖς γὰρ ἂν θήβαις τόδε γένοιτ᾽ ὄνειδος, εἰ Μυκηναίου δορὸς φόβῳ παρείην σκήπτρα τἀμὰ τῶδ᾽ ἔχειν. ( EUR. , Op. cit. , 512 sq. ) . (4) Καὶ σὺ τωνδ᾽ ἔξω κομίζου τειχέων ἢ καταθνεῖ. (EUR. , Op. cit. , 602 sq. ). Giornale storico , XXI, fasc . 61. Bayerische Staatsbibliothek München 98 N. IMPALLOMENI Pol. In Tebe Me rivedrai ; ma in altro aspetto : agli empi Apportator d'inevitabil morte. Gio. Empi, voi soli ; ed io, che a voi son madre. Or via si ammendi il fallo mio : quel ferro Volgete in me; son vostro sangue anch'io. Emuli al male oprar, d'Edippo figli, Nati al delitto, ed al delitto spinti Dalle Furie implacabili, qui, qui Torcete i brandi ; eccolo il ventre infame Stanza d'infame nascimento (1) . Ucciso Non il fratel, da voi la madre uccisa ; Ben altro è il fallo ; è ben di voi più degno. Le terribili invettive di Giocasta costringono i due contendenti a calmarsi. Eteocle finge di arrendersi replicando in tono dimesso: Madre, tu il vuoi ? perdonerogli io dunque L'oltraggio, a Tebe, ed a me, fatto. Ei primo Ceda; ei fu primo ad assalirci. Appena I nostri campi avrà dall'oste sgombri ; Ed ei fia il re. Dargli ben voglio il trono, Non ch'ei mel tolga. E mel potrebbe ei torre, Finchè di sangue in me riman pur stilla ? Scegli omai tu: me presto vedi a tutto : Ma, se tra noi rotta è la pace, il sappi, (1) In me arma et ignes vertite, in me omnis ruat Unam juventus quaeque ab Inachio venit Animosa muro, quaeque Thebana ferox Descendit arce; civis atque hostis simul Hunc petite ventrem qui dedit fratres viro, Haec membra passim spargite ac divellite. Ego utrumque peperi. (SEN. , Op. cit. , 443 sq. ). Plongez, plongez, cruels, vos armes dans mon sein, Deployez contre moi votre aveugle colère, Contre moi qui donnais des frères à leur père. Hatez-vous donc, cruels, de me percer le sein; Et commencez par moi votre horrible dessein. Ne considérez point que je suis votre mère, Considérez en moi celle de votre frère. Si de votre ennemi vous recherchez le sang, Recherchez-en la source en ce malheureux flanc. (ROTROU, Op. cit. , loc. cit. ) . (BAC., Op. cit. , loc. cit. ). IL POLINICE » DELL' ALFIERI 99 Che ria cagion sol ne sei tu : ricada L'orrore in te d'iniqua guerra, e il danno (1). Se c'è osservazione da fare in questa scena, essa è provocata dal personaggio di Giocasta. Al lettore non sarà sfuggito di certo, esaminando i riscontri da me riferiti in nota, che il nostro autore, nell'esprimere i sentimenti dell'infelice madre, si attenne a Seneca più che a Racine, e che in alcuni luoghi si lasciò trasportare dalle esagerazioni poco poetiche del suo modello. Quanto abbia nociuto quest'imitazione alla verosimiglianza del carattere da lui posto in iscena, si può vedere paragonandolo a quello immaginato da Euripide. In questo poeta infatti l'incesto commesso non è ricordato pur una volta da Giocasta, neppure nel momento della massima concitazione, cioè quando i due fratelli, venuti a colloquio nella reggia, si scambiano in presenza di lei le più acerbe rampogne. Giocasta ci è rappresentata come una madre tenera, affettuosa, sensibile che vorrebbe vedere i suoi figli in pace, che adopera ogni mezzo per conciliarli, ma che pure è condannata dal destino a soffrire i più crudeli strazi e le più amare disillusioni . Mai non le sfugge dal labbro una parola che accenni alle sue colpe ed alle sue passate sventure. Le sanno tutti, le ripete il Coro nelle sue digressioni ; ma essa non le ricorda mai. L'Alfieri invece , come Rotrou e Racine, fu colpito dalle bellezze più appariscenti della Giocasta di Seneca. Quel continuo ricordare il proprio delitto, quell'avvilirsi con le più infamanti espressioni, quel tono rettorico ed esagerato ond' ella manifesta i suoi sentimenti nei due scrittori francesi, ma più (1) Χρῆν δ' αὐτὸν οὐχ ὅπλοισι τὰς διαλλαγάς, μῆτερ, ποιεῖσθαι· παν γὰρ ἐξαιρεῖ λόγος 8 καὶ δίδηρος πολεμίων δράσειεν ἄν. Αλλ᾽ εἰ μὲν ἄλλως τήνδε γῆν οἰκεῖν θέλει , ἐξεστ᾽, ἐκεῖνο δ᾽ οὐχ ἑκὼν μεθήσομαι. ἄρχειν παρόν μοι, τῷδε δουλεύσω ποτέ ; πρὸς ταυτ᾽ ἴτω μὲν πῦρ, ἴτω δὲ φάσγανα, Ζεύγνυσθε δ᾽ ἵππους, πεδία πίμπλαθ᾽ ἁρμάτων ὡς οὐ παρήσω τῷδ᾽ ἐμὴν τυραννίδα. (EUR. , Op. cit. , 515 sq.) . 100 N. IMPALLOMENI particolarmente nel nostro poeta, derivano dalla pedantesca imitazione ch'essi fecero del tragico latino. Per il che questo personaggio nei loro componimenti riuscì assai inferiore a quello concepito da Euripide, il quale se pur fece, com' essi, larga parte alla declamazione ed alla rettorica, non si spinse mai oltre i confini della verosomiglianza poetica. Ciò non ostante l'Alfieri ebbe qualche momento di resipiscenza e ne abbiamo una prova nella scena seguente. V'ha un punto nel dramma di Euripide, in cui Giocasta, delusa nella sua speranza di poter disarmare l'ira dei figli con le preghiere e con le lagrime, cambia tono d'un tratto, e, passando ai ragionamenti, si sforza persuaderli della vanità del loro rancore, dipingendo loro in un discorso, molto declamatorio del resto, la caducità dei beni della vita, le cure del trono e della fortuna e, per contrario, i vantaggi della mediocrità e dell'uguaglianza che ha diviso i numeri, stabilito i pesi e le misure, regolato le vicissitudini del giorno e della notte. Un'eco di questi argomenti si trova pure nelle Fenicie di Seneca. Giocasta per distogliere l'animo di Polinice dalla brama di regnare gli rammenta essere stato il trono di Tebe fatale ai suoi possessori e lo esorta a lasciarlo pure al fratello, il quale troverà nel possedimento di esso la più terribile punizione dei suoi delitti. Non dissimili ragionamenti adopera anche la Giocasta dell'Alfieri nella quarta scena del second' atto. Ma qui il dialogo è rapido e commovente, ed è tolta quella monotonia, quel frasario enfatico ed ampolloso che distrugge ogni effetto estetico nella scena di Seneca. La regina chiede a Polinice che deponga le armi e ceda ai desiderii del fratello : (1) Se disgombrar tu neghi Tebe dall'armi, io crederò che fama Di te non mente ; e che, a rovina nostra, Con Adrasto novelli empi legami Di sangue hai stretto; e che funesta dote Tu richiedesti al suocero la guerra (1) . Σοὶ δὲ, Πολύνεικες, λέγω IL « POLINICE » DELL'ALFIERI 101 Polinice si sente il cuore lacerato da questi rimproveri ; ma pure non sa risolversi a licenziare il suo esercito, perchè non ha fiducia nelle promesse del fratello. Allora la madre ripiglia con amara ironia : (1) Odi virtù! Pregiar Grecia ti debbe, Perchè al fratel di te peggior non cedi? Sublime fin d'ogni tuo voto è dunque Di Tebe il trono ? Oh! non sai tu, che in Tebe Sommo infortunio è il trono? Il pensier volgi Agli avi tuoi : qual ebbe in Tebe scettro , E non delitti? Illustre certo è il seggio Dove Edippo sedea. Temi tu forse , Non sappia il mondo ch'ebbe figli Edippo ? Virtude hai tu ? Lascia ai spergiuri il trono. Vuoi tu vendetta del fratel ? ch'ei venga In odio a Tebe, a Grecia, al mondo, ai Numi? Lascia ch'ei regni (1) . Anch'io, sul soglio nata, Miseri giorni in fra sue pompe vane, - ἀμαθεῖς Αδραστος χάριτας ἐς σ᾽ ἄνήψατο, ἀσύνετα δ᾽ ἦλθες καί σύ, πορθήσων πόλιν. Gazas socer non arva, non urbes dedit Dotale bellum est. Car quelle est cette guerre et quels sont ses objets ? Vos parens, vos amis, vos païs, vos sujets. C'est ce qu'on peut nommer votre parti contraire : De ce funeste hymen nous sommes le douaire. Ne metue : poenas et quidem solvet graves Regnabit. Est haec poena ; si dubitas, avo Patrique erede. Cadmus hoc dicet tibi Cadmique proles. Sceptra Thebano fuit Impune nulli gerere, nec quisquam fide Rupta tenebit illa ; jam numeres licet Fratrem inter istos. Thebes, vouz le savez , est un fatal empire, Et son trône est un lieu bien funeste à son roi ; Les exemples de Laye et d'Oedipe en font foi. Si vous lui souhaitez en effet tant de mal, Élevez-le vous même à ce trône fatal . Ce trône fut toujours un dangereux abime ; La foudre l'environne aussi bien que le crime: Votre père et les rois qui vous ont devancés Sitôt qu'ils y montoient, s'en sont vus renversés. (EUR. , Op. cit. , 568 sq.). (SEN., Op. cit. , 509 sq .) . (ROTROU, Op. cit. , loc . cit.). (SEN. , Op. cit. , 645 sq.). (ROTROU, Op. cit. , loc . cit.). (RAC. , Op. cit. , loc. cit. ). 102 N. IMPALLOMENI Giorni di pianto, ogni più oscuro stato Invidiando, io trassi. -Oh fero trono! Ch'altro sei tu, che un'ingiustizia antica (1), Ognor sofferta, e più abborrita ognora ? Mai non t'avess'io avuto, onor funesto ! Ch'io non sarei madre or d'Edippo, e moglie ; Ch'io non sarei di voi , perfidi, madre. A queste parole Polinice non sa più frenarsi. Ma ai rimproveri della madre egli non risponde con quelle arroganti espressioni piene d'insania e d'orgoglio che gli fan pronunziare Seneca e Racine; si bene col tono rispettoso e insieme delicatamente risentito dell'uomo onesto che vede fraintese le sue intenzioni. No ; egli non si sente inferiore alla dignità a cui aspira, non vuol far legge d'ogni sua voglia e pareggiarsi con insano orgoglio ai Numi ; ma più del trono ama la virtù, la quale se nei di lieti non era in lui vana parola, ora, negli avversi, gli riesce più cara e più gradita. Il ritorno di Giocasta alla tenerezza ed all'affetto già ci rivela quale profonda impressione abbiano prodotto nell'animo di lei le sdegnose proteste di Polinice : Più che ottenere il regno Dunque abbi caro il meritarlo, o figlio, Spero, l'avrai ; ma pur s'ambo c'inganna Il tuo fratel, di chi è l'infamia, dimmi ; Di chi la gloria? A mie ragioni , ai prieghi, Al pianto mio, deh ! cedi ; al pianto cedi Dell'infelice patria tua : vorresti Pria che in Tebe regnar, distrugger Tebe? (2). La comparsa di Creonte mette fine a questa scena commovente. (1) τυράννιδ᾽ ἀδικίαν εὐδαίμονα. (EUR. , Op. cit. , 549). Simul ista mundi conditor posuit deus Odium atque regnum. (SEN. , Op. cit. , 654 sq.) . (2) Ne, precor, ferro erue Patriam ac penates neve quas regere expetis Everte Thebas. Quis tenet mentem furor ? Petendo patriam perdis? ut fiat tua Vis esse nullam ? Le trône vous est dû, je n'en saurois douter ; (SEN., Op. cit. , 555 sq. ). IL POLINICE » DELL' ALFIERI 103 Perch'egli venga, non si sa, o per lo meno non ha il tempo di manifestarlo. Egli è il genio infernale che viene ad avvelenare la dolcezza di questo tenero ricambio di rimproveri e d'affetti . Giocasta, al primo vederlo , gli affida Polinice per correre dall'altro, e gli raccomanda che finisca di vincere il cuore di lui, troppo docile e ubbidiente, perchè si possa disperare della riuscita. Creonte l'accompagna col guardo ed esclama : Misera madre! oh quanto io la compiango! Mal suoi figli conosce! Oh sol da questo Pendesse pur! lieta ella fora. - Or dimmi, Tu dunque cedi, al tuo fratel t'affidi ? ... Un simile tratto non s'incontra in tutta la tragedia del Racine ! E qui si sviluppa una scena del tutto simile a quella del primo atto. L'odio, la compassione, la gelosia e tutte le altre passioni, di che possa esser capace il cuore umano, sono maneggiate con terribile astuzia da Creonte. Il furore di Polinice vien destato a poco a poco con mirabile crescendo. Anche qui Creonte comincia dalle lodi per passare ben presto alle più mordaci insinuazioni, e quando l'ira di Polinice è al colmo, quando l'eroe dichiara che il brando lo salverà da qualunque violenza , egli, cogliendo il destro, l'interrompe ed esclama: Il valor contro all'iniqua fraude Che può? Qui aspetti generoso sdegno? Polinice domanda con ansietà se a lui si tendano insidie ; ma Creonte non ha il coraggio di una risposta franca e sincera, e allora una calma terribile sopraggiunge nell'animo del guerriero tebano. Le sue parole, fredde e misurate, minacciano e in pari tempo chiedono una spiegazione : Mais vous le renversez en voulant y monter. Ne vous lassez-vous point de cette affreuse guerre? Voulez-vous sans pitié désoler cette terre, Détruire cet empire afin de le gagner? Est-ce donc sur des morts que vous voulez régner? (RAC. , Op. cit. , loc. cit.). 104 N. IMPALLOMENI A farmi Vil traditore il rio terror non basta D'un tradimento. Parla : o mezzi avravvi Onde salvarmi ; o ch'io cadrò, ma solo Io sol cadrò ... Prima di manifestare il segreto, di cui si mostra possessore, Creonte chiede un giuramento, Polinice giura sulla vita della madre ; ma quando già ci aspettiamo una rivelazione, la scena improvvisamente finisce. Creonte, per rendere sempre più verosimile il suo contegno, propone al nipote di recarsi ad un tempio vicino, dove gli dirà tutto. Polinice acconsente e tutt' e due lasciano la reggia per avviarsi al luogo designato. L'ansietà e l'interesse destatoci da quest'ultima scena non diminuiscono punto nell'atto seguente, il quale si compone di una serie di scene preparatorie destinate a rendere più efficace la drammatica scena del quart'atto, in cui i due fratelli fingono di riconciliarsi alla presenza del popolo e dei sacerdoti. Qui i germi dell'odio, sparsi a larga mano dall'iniquo Creonte, cominciano a produrre i loro frutti. Nella prima scena, che per altro, come abbiamo notato, ha molta analogia con quella corrispondente del quart'atto dei Fratelli nemici, Eteocle e Creonte si trattengono a parlare della pace, dei modi onde farla creder vera e della vendetta che in questo mezzo prepareranno. Eteocle è feroce e risoluto e Creonte si avvale di questa disposizione per compiere l'opera sua : Et. Visto l'hai tu quel Polinice ? e stimi Ch'ei, quanto io l'odio, m'odj ? Ah! no ; ch'io troppo Troppo lo avanzo in ogni cosa (1). (1) Oui, Créon, c'est ici qu'il doit bientôt se rendre ; Et tous deux en ce lieu nous le pouvons attendre. Nous verrons ce qu'il veut ; mais je répondrois bien Que par cette entrevue on n'avancera rien. Je connois Polynice et son humeur altière ; Je sais bien que sa haine est encor toute entière ; Je ne crois pas qu'on puisse en arrêter le cours ; Et, pour moi, je sens bien que je le hais toujours . ( RAC. , Op. cit, at. IV, sc. 1). IL « POLINICE » DELL' ALFIERI 105 Cr. Ei pago Non è di odiarti ; a scherno anco ti prende. Vedi, riman brev'ora A prevenir l'un l'altro ; e qual dà tempo Svenato cade. È chiaro omai, ch'ei vuole I tuoi rifiuti a forza : in alto il brando Fatal ti sta sulla cervice ; il segno Darai tu stesso di vibrarlo ? T'era Util finor soltanto, or ti s'è fatta Necessaria sua morte (1) . Acceso l'odio di Eteocle, Creonte non ha più nulla da fare. Il resto della scena si aggira sui mezzi che saranno messi in opera per incutere terrore all'esercito nemico. E quando agli sguardi del tiranno si presenta la madre per distornarlo dai suoi funesti propositi, egli si allontana col suo fido non avendo il coraggio di sostenerne la vista. Giocasta ne rimane sconsolata e non sa che pensare. Eppure il suo cuore di madre non sente che amore e indulgenza per lui. Ella lo compatisce, lo scusa e, non ostante le proteste di Antigone, attribuisce alle minacce di Polinice l'origine prima della discordia. Nella scena seguente la misera donna, non illusa forse nel suo secreto sull'ambizione di Eteocle, torna a pregare l'esule figlio, e le sue preghiere hanno un so che di dolce e d'insinuante che scende al cuore e ti commuove: Figlio, in te spero ; in te solo omai spero ; Di vera pace (ah, sì) Tebe, la madre, E la sorella che tant'ami , e tanto Ama ella te, tutti or ne vuoi far lieti . Parla, non dico io il vero ? Ottimo figlio, Buon cittadin, miglior fratel non sei? Adrasto in Argo a ritornar si appresta? Pol. Eteocle di Tebe a uscir si appresta? (1) Domptez-le donc, Seigneur, s'il demeure inflexible Quelque fier qu'il puisse être, il n'est pas invincible ; Et puisque la raison ne peut rien sur son cœur, Éprouvez ce que peut un bras toujours vainqueur. (RAC. , Op. cit. , loc. cit. ). 106 N. IMPALLOMENI Gio. Che sento? A danno nostro, ad onta tua Udirti ognor degg'io pace negarmi, O non volerla primo ? Andrà (pur troppo !) Lontano anch'egli il tuo germano, andranne Esule, qual ne andasti (1) : a eterno pianto Dal ciel, da voi, dannata io son ; nè fia Che cessi omai. Ten pasci tu, del mio Pianto materno? Ah! di' : non eri dianzi Tutto in parole pace? Ma Polinice non è più il figlio rispettoso e ubbidiente di prima. Il tarlo del sospetto, insinuatogli destramente da Creonte, ha cominciato a rodere il suo cuore. Egli si mostra agitato, perplesso, preoccupato da un'idea che lo tormenta, e alle insistenti interrogazioni della madre risponde ora con amare proteste, ora con brevi e interrotte parole. Ed allorchè Antigone gli manifesta che Creonte lo tradisce e si fa giuoco dei suoi diritti, la sua agitazione è al colmo : Ove l'incauto Piede inoltrai ? Qual laberinto infame Di perfidia inaudita ! lo qui tra' miei Annoverar deggio i più feri atroci Nemici miei? - Ma voi, ch'io ascolto ; voi, Che in amica sembianza a me dintorno Rimiro; oh ciel ! chi ' l sa, se in voi non entra Il pensier di tradirmi ? A me tu madre (2) ; (1) Hic abfuit : sed pacta si fratrum valent Nunc alter aberit. Ergo jam numquam duos Nisi sic videbo ? Celui-là fut absent ; mais si le pacte tient, Celui-ci le sera, puisque l'autre revient ; Ainsi je perds l'espoir de vous revoir ensemble, Si ce n'est que la guerre encor vous ensemble. (SEN. , Op. cit. , 461 sq.) . ( ROTROU, Op. cit. , loc. cit. ). (2) Anche in Seneca Polinice mostrasi diffidente verso la madre : Timeo: nihil jam jura naturae valent Post ista fratrum exempla, ne matri quidem Fides habenda est. La nature n'a pas d'inviolables droits. (SEN. , Op. cit. , 478 sq. ). (ROTROU, Op. cit. , loc. cit. ). IL POLINICE » DELL'ALFIERI 107 Sorella tu ma che perciò ? son sacri Tai nomi, è ver ; ma son pur troppo in Tebe Tremendi nomi. A me fratel non era L'usurpator? Creonte, zio non m'era? Ahi, dura reggia, ov'io (misero ! ) i lumi Alla odiata luce apria ! congiunti, Quanti ne serri in fra tue mura infami, Tutti a me son di sangue ; ed io di tutti Sono il bersaglio pure. Non ostante tanta aggiustatezza nell'espressione dei vari sentimenti che agitano il cuore del protagonista, pure questa scena ha un non so che di eccessivo e di artificioso che stanca il lettore e lo lascia freddo e scontento . I sospetti, le smanie, le reticenze di Polinice son troppo studiosamente prolungate ; giacchè egli non arriva mai a manifestare la cagione del suo turbamento, e sul punto di manifestarla si tace improvvisamente non si sa per qual ragione. Senza dubbio il poeta, scrivendo questa scena, mirava all'effetto del quart' atto. Ma v'ha di più. Polinice cerca di allontanarsi dalla reggia. In questa capita Creonte, il quale viene ad annunziare che Eteocle, stretto oramai dalla necessità, acconsente a cedere il trono al fratello e vuol farne ampia testimonianza innanzi al popolo ed ai sacerdoti. La condotta di Polinice in questo momento è inesplicabile. È vero ch'egli, al primo udire tale notizia, non può frenare un moto di maraviglia, la quale gli vien dissipata da alcune sommesse parole di Creonte ; ma in generale troppo credulo si mostra e troppo baldanzoso, perchè si possa pensare ad un vero mutamento avvenuto nel suo animo. Nè sappiamo spiegarci com'egli sia pervenuto, nel quart'atto, a sventare la trama ordita dal fratello, dopo aver saputo che Creonte era anche lui un traditore. Pure questa mancanza di coerenza nella condotta di Polinice viene corretta da Giocasta, i cui funesti presentimenti chiudono mirabilmente la scena: Oh ciel ch'io debba tanto Sperare? Ah! no: mi lusingò fallace Mille volte la speme, e mille volte Delusa m'ebbe. 108 N. IMPALLOMENI Cr. Pol. Omai, che temi? è l'opra Compiuta già ; manca il sol rito ; io pure Temer potrei, se in sua virtù dovessi Sol mi affidar; ma in suo timor mi affido. Dei Tebani ei non ha, nè il cor, nè il braccio : Ciò che a lui toglie il susurrar di Tebe , Vuol parer darti ; e in ciò il compiaci. Io ' l voglio. Ant. Ah! no ; diffida. In cor sento un orrendo Presagio ... Pol. In breve, tornerem qui tutti. Gio. Ed io pur tremo. Ant. Ahi, lassa me! Pol. Non io, Non tremo io, no ; ch'io mai nol seppi. È giusto, Sacro è il mio dritto : avrò per me gli Dei Questo mio brando, in lor difetto, ayrommi. - Il quart'atto è, si può dire, il punto in cui si concentra tutta l'abilità dell'Alfieri. A rischio di qualche inverosimiglianza egli l'è venuto preparando a mano a mano con tutte queste scene preliminari che, pur mantenendo desta l'attenzione dello spettatore, servono insieme a dargli riposo per prepararlo allo scioglimento del nodo. E difatti l'accennato tradimento, l'improvvisa e mal simulata dedizione di Eteocle, le parole di Creonte, i funesti presentimenti di Giocasta e di Antigone , la baldanza di Polinice, tutto dà indizio di un prossimo conflitto, in cui le mire ambiziose e le feroci passioni dei due fratelli scoppieranno furibonde. L'Alfieri spiegò in questa grande scena del quart' atto tutta l'arte del suo dialogo rapido, incisivo, energico e pieno di quel furore concentrato, di cui diede stupendo esempio nel suo Filippo. Benchè il mezzo di conciliazione da lui immaginato non sia nuovo e ricordi gli esempi del Rodoguna di Corneille e del Tieste ed Atreo di Crebillon ( 1) , pure non ha minore efficacia di (1 ) In queste due tragedie infatti troviamo usata la stessa finzione di cui si valse l'Alfieri. Nella prima Cleopatra, regina di Siria, vedendo di non po- IL « POLINICE » DELL' ALFIERI 109 quello adoperato dai tragici francesi. I due fratelli, come abbiam detto, devono rappacificarsi alla presenza del popolo e dei sacerdoti, ma, per i consigli di Creonte, Eteocle ha avvelenato la coppa che dovrà offrire in segno di pace al fratello, e lo stesso Creonte ha rivelato a Polinice il segreto del tradimento tramato contro di lui. Si comprende quale terribile spiegazione dovrà seguire, s'indovina quale scoppio di furore, quale raddoppiamento di odio dovrà produrre una tale spiegazione. Eteocle da prima è sostenuto e pieno di massime. Egli promette di lasciar Tebe per non dare sospetto al fratello. Ma tosto ricominciano i rimproveri, le accuse. Eteocle diventa feroce, incisivo. Un'acerba ironia mal nasconde tutto lo sdegno del suo cuore esulcerato : Or di' non sei tu quegli Ch'onta minacci e incendio e strage a Tebe? Chi, se non tu, rassicurar gl'incerti Suoi cittadini or può, per te dolenti, E sol per te? - Le madri sconsolate Da te pendono ; i vecchi, da te pendono ; E le tremanti spose, e la innocente Età (mira) le supplici lor destre Sporgono a te. -Che indugi omai ? ben vedi , Che aspettiam tutti, e sol da te, la pace. Pol. Questo, che or m'offri, è di amistà fraterna 11 pegno adunque,. e di tua fede ? Et. Pol. Et. . Si, d'amistade sacro ... Tu dubitarne? Il pegno Osi accertarlo? tersi vendicare di Rodoguna, già stata sposa di suo marito , ed ora ambita ardentemente dal figlio Antioco , ricorre all' inganno , e , fingendo di acconsentire al loro matrimonio, nel punto stesso in cui stanno per celebrarsi le nozze, offre loro , in segno di conciliazione , una tazza avvelenata. Vistasi scoperta poi, con la medesima tazza avvelena sè stessa. Nella seconda Atreo finge di riconciliarsi con Tieste , e gli presenta parimenti una coppa avvelenata. Però il tradimento è frastornato dall'annunzio della morte crudele di Plistene, figlio di Tieste, fatta eseguire dallo stesso Atreo ; alla quale notizia il misero padre si uccide. 110 N. IMPALLOMENI Pol. Ecco ricevo io dunque Dal mio fratello ... un fero pegno ... infame , Ch'è del più orribil odio orribil pegno; D'odio eterno fra noi, che sol nel sangue D'ambi noi spento si vedrà. —Giocasta, Antigone, Tebani, ecco la fede D'Eteocle : veleno è questo nappo. L'inaspettata rivelazione di Polinice gitta lo sgomento nell'animo degli astanti. Indarno Giocasta s'interpone tra i due contendenti, indarno chiede che le si dia il nappo avvelenato. Eteocle, vistosi scoperto, lo strappa di mano a Polinice e lo scaglia a terra, giurando di affidar al brando la vendetta. E qui s'impegna tra i due fratelli un dialogo a botta e risposta, pieno di passione e d'energia, il cui segreto è conosciuto assai bene dal nostro Alfieri : Pol. Uso al velen mal tratterai tu il brando. Et. Troppa ho la sete del tuo sangue (1). Pol. Il tuo Sparger prima potresti (2) . Et. Entrambi a gara (1) (2)€2 Nell'abborrito nostro sangue a un tempo Bagnar potremci in campo. Altra, ben altra Tazza colà ne aspetta : ivi l'un l'altro Beremci il sangue ; e giurerem sovr'esso Anco oltre morte di abborirci noi. Pol. Punirti io giuro e disprezzarti . Ah! degno Non fosti mai dell'odio mio ; nè il sei. Cadrà con te l'abbominevol trono, Per te contaminato. In un potessi Strugger così dell'esecrabil nostra Orrida stirpe ogni memoria ! Et. Or vero Fratello mio sei tu. Αντιτάξομαι κτενών σε Κἀμὲ τοῦδ᾽ ἔρως ἔχει. (EUR. , Op. cit. , 620 sq.). IL < POLINICE » DELL' ALFIERI 111 Gio. D'Edippo or figli Veraci siete, e figli miei. Ravviso Le Furie in voi che al nuzial mio letto Ebbi pronube già. Ma, il mio misfatto Già, già voi siete ad espiar vicini , Fia dell'incesto il fratricidio ammenda (1). Le invettive di Giocasta e l'annunzio recato da Creonte che Adrasto ha assalito le mura di Tebe interrompono questa scena violenta. Ma il furore di Eteocle non conosce limiti. Egli minaccia ed il tono solenne, con cui esprime le sue minacce, lo rende maestosamente tremendo : Adrasto Il traditor non è, ben io il conosco Il traditor ; di lui, di Adrasto a un colpo E di costui, vendetta aspra pigliarmi Potrei ; chi mel torrebbe ? Ma mel vieta L'odio che mal di un sol colpo fia pago. Polinice, di Tebe esci securo : Abbiti in pegno di mia fe' l'ardente Brama che in petto da che nacqui io nutro Di venir teco al paragon dei brandi . Tu, Creonte, a morir pensa nel campo : Tra il ferro Argivo e la tebana scure Scelta ti lascio. Creonte tace. Egli vede troppo bene l'effetto delle sue perfidie, perchè debba perdersi in vane proteste. I due fratelli si dividono per incontrarsi in campo. Giocasta vuole calmarli, vuole raggiungerli ; ma la sua autorità, le sue lagrime , le sue preghiere non bastano ad impedire l'eccidio di quei forsennati. Una mesta disperazione l'invade. Stanca di vivere, ella si abbandona fra le braccia di Antigone, e a tanto strazio crede di morire : (1) Surpassez, s'il se peut, le crime de vos pères : Montrez, en vous tuant, comme vous êtes frères ; Le plus grand des forfaits vous a donné le jour, Il faut qu'un crime égal vous l'arrache à son tour. (RAC. , Op. cit. , loc . cit. ) . 112 N. IMPALLOMENI Ahi! lassa ! Non li vedrò mai più ! ... Sola mi avanzi Pietosa figlia ... Ah ! vieni, alla infelice Tua madre chiudi i moribondi lumi. Oramai la catastrofe è vicina ; ed il quint'atto, breve e tumultuoso, come tutti i quint' atti delle tragedie alfieriane, in tre sole scene risolve e compie l'azione. Nella prima, in un monologo ispirato da Seneca, la regina manifesta le sue ansie, i suoi dubbi, i suoi terrori. La pugna è incominciata , i due fratelli si battono ferocemente in campo aperto ed ella non sa per chi pregar vittoria : Or non più inteso Fero martire ! io tutti in me gli affetti Sento di madre, e d'esser madre abborro. Ma che sarà ? Subitamente in campo Il fragor cupo dell'armi cessò ..... Al suon tremendo un silenzio tremendo Succede ... Oh reo silenzio ! a me presago Di sventura più rea. Chi sa? ... sospesa La pugna han forse ... Oimè ! forse a quest'ora Compiuta l'hanno. Omai (lassa ! ) che debbo Creder, sperar, temer? per chi far voti ? Qual vincitor bramar? Nessuno: entrambi Miei figli sono. O tu, qual sii, che palma N'hai colto, innanzi ah ! non venirmi ; trema Fuggi, iniquo ; si aspetta al vinto intera La mia pietade (1). Questa triste sequela di pensieri viene interrotta da Antigone. Il suo volto è cosparso di mortale pallore , i suoi passi sono incerti e tremanti. Giocasta affannosa l'interroga e poche parole (1) Quid optem, quidve decernam haud scio ... ..... Vota quae faciam parens ?.... Utrimque natum video : nil possum pie, Pietate salva, facere : quodcumque alteri Optabo nato, fiet alterius malo. Sed utrumque quamvis diligam affectu pari, Quo causa melior, sorsque deterior trahit IL « POLINICE » DELL' ALFIERI 113 bastano a certificarla della sventura che l'ha colpita . Eteocle è caduto per mano di Polinice. La regina si scaglia con feroci maledizioni contro il superstite, ed Antigone, volendo attenuare l'orrore del delitto commesso dal fratello, le narra i particolari dello scontro. Ma questo dialogo pecca soprattutto di sconvenienza. Troppo violente ed esagerate sono le invettive di Giocasta, e troppo energico e descrittivo il racconto del duello fatto da Antigone. Nel comporre questa scena il nostro autore ebbe presente quel luogo delle Fenicie di Euripide, in cui il Nunzio narra a Giocasta il combattimento e la triste fine dei suoi figli ; ma non avvertì che altro è il racconto di un personaggio che rimane semplice spettatore degli avvenimenti, altro quello di una timida donzella che assiste da lontano all'orrendo spettacolo dell'uccisione di un fratello. Ad ogni modo la descrizione è ben fatta, ed Antigone riesce in parte nell'intento che si è prefisso : Ah! come Sottrarsi a tanto, a sì feroce orgoglio? Eteocle prorompe all'onte ; il taccia Di codardo, e lo sfida ; a viva forza Vuol ch'ei ne venga a singolar tenzone. « Tebani » (ei gridava in suon tremendo) Argivi, << Dal reo furor cessate. Armati in campo, << Prodighi a nostro pro del sangue vostro, << Scendeste voi : fine alla pugna ingiusta << Porrem noi stessi in faccia vostra, in questo Inclinat animus, semper infirmo favens. Miseros magis fortuna conciliat suis. Nutat utroque timor, quemnam hoc certamine victum (SEN. , Op. cit. , 377 sq .) . Quem vicisse velint : tacite praeponderat exsul. (STAT. , Theb. , VIII, 614 sq.) . Son frère plus que lui commence à me toucher Devenant malheureux il m'est devenu cher. (RAC., Op. cit. , at. V, sc. 2a). Questo luogo ci fa rammentare anche di Sabina, moglie di Orazio, che trovasi, nella tragedia del Corneille, nelle medesime condizioni di animo: Je ne suis point pour Albe et ne suis plus pour Rome, Je crains pour l'une et l'autre en ce dernier effort, Et serai du parti qu'affligera le sort. Giornale storico , XXI, fasc . 61 . (CORN. , Hor. , at. I, sc. la). 8 114 N. IMPALLOMENI << Campo di morte. E tu, ch'io più non deggio << Fratel nomar, tu dei Tebani il sangue « Risparmia ; in me, tutto in me sol rivolgi « L'odio, lo sdegno, il ferro » (1). Ε il dire , e addosso A lui scagliarsi , è un punto solo. Allora un gelo universale trascorre per le ossa dei due eserciti. I due fratelli si battono. Eteecle, inferocito, abbandona se stesso, il braccio e la spada contro il suo avversario. Polinice, generoso, freme e intende solo a ribatterne i colpi ; ma, vista inutile ogni resistenza, chiama in testimonio gli Dei, gli si slancia addosso e lo ferisce. Antigone, agitata, continua : Altro non vidi , al crudo Atto, mancar sentia quasi i miei spirti Gli occhi appannarsi; e fuggendo con passi Mal sicuri, a te vengo ... Oimè ! qual fia Del lagrimevol caso, o madre, il fine ? Il fine è che Eteocle vien trasportato morente sulla scena seguito da Polinice che, immerso in profondo dolore, chiede grazia e perdono. Ma la bella luce onde fin qui l'Alfieri si è studiato di porre quest' eroe, ad un tratto si dilegua. Indarno egli dice alla madre : (1) Al tuo cospetto Vivo tornar, no, non volea ; quel ferro , Che tronca a lui la vita, in me ritorto L'aveva io già con più adirata mano ... · Ἔλεξε δ᾽ ὦ γῆς Ἑλλάδος στρατηλάται Δαναῶν τ᾿ ἀριστῆς, οἵπερ ἤλθετ᾽ ἐνθάδε, Κάδμου τε λαός, μήτε Πολυνείκους χάριν Ψυχὰς ἀπεμπολᾶτε μήθ᾽ ἡμῶν ὕπερ. Ἐγὼ γὰρ αὐτὸς, τόνδε κίνδυνον μεθεὶς, μόνος συνάψω συγγόνῳ τὠμῷ μάχην· κἂν μὲν κτάνω τόνδε, οἶκον οἰκήσω μόνος, ἡσσώμενος δὲ τῷδε παραδώσω πόλιν. Ὑμεῖς δ᾽ ἀγῶν᾽ ἀφέντες Αργείαν χθόνα νίσσεσθε, βίοτον μὴ λίποντες ἐνθάδε σπαρτῶν τε λαός ἅλις, ὅσος κεῖται θανών. (EUR. , Op. cit. , 1225 sq. ) . IL « POLINICE » DELL'ALFIERI 115 indarno si sforza di placare il moribondo fratello promettendo di sacrificarsi per lui ; noi non ci sentiamo punto disposti a pietà per un uomo che, essendo vincitore e potendo far circondare dai suoi il fratello, ha preferito di ucciderlo. Oltracciò un altro grave difetto rende questa scena poco accessibile alle sublimi commozioni dell'arte. Eschilo, Euripide e Racine, con sagace discernimento, hanno sottratto alla vista del pubblico il truce spettacolo del combattimento di due fratelli, ed hanno fatto raccontare da altri il loro duello e la loro morte. In Euripide anzi quest'atroce scena, come bene osserva il Patin ( 1 ) , si corregge con l'espressione inattesa dei sentimenti più universali e più commoventi dell'umana natura . I due fratelli, vicini a spirare, odono ancora i gridi di dolore che mandano sui loro corpi Giocasta ed Antigone, e un senso di tenerezza penetra nelle loro anime, ancora possedute dalla rabbia del combattimento e dai furori del fratricidio. Eteocle volge un ultimo sguardo alla madre, con gli occhi bagnati di lagrime, Polinice le indirizza poche e pietose parole interrotte dagli estremi singulti. Il nostro poeta invece, con una concezione originale ma poco felice, a mio parere, volle mettere in azione tutto ciò che nelle altre tragedie era semplicemente narrato. Onde quanto ne siano scapitati la naturalezza e l'effetto drammatico dell' ultima scena , si può di leggieri immaginare. Eteocle, indotto dalle preghiere della madre, finge di acconsentire a perdonare il fratello ; ma, sul punto di abbracciarlo, trae un pugnale e lo trafigge. Le ultime parole da essi pronunziate sono in conformità dei loro caratteri. Eteocle, morendo, esprime il suo eterno odio contro il fratello. Polinice spira perdonando. Ma del resto nessuna sfumatura, nessuna gradazione di ombra e di luce attenua l'orrore di questo spettacolo. V'ha una certa crudezza nelle tinte e nei colori che non sodisfa pienamente e ci lascia freddi e perplessi. Nè più patetica degli altri personaggi riesce Giocasta. Alla vista di quell'orrendo misfatto ella, non che pregare, non che sciogliersi in lagrime, come fa in Euripide, è invasa da un (1) Études sur les tragiques grecs, vol . III , pp. 320 seg . 116 N. IMPALLOMENI furore di belva. Quel delitto, che le sta continuamente in bocca e che la rende così poco amabile agli occhi dello spettatore , qui ricorre per l'ultima volta come segno di uno spaventevole delirio : Ecco perfetta è l'opra : empi fratelli , Figli d'incesto, si svenan tra loro : Ecco madre cui nulla a perder resta. Dei, più iniqui di noi, da tutto il cielo Me fulminate a prova, o Dei non siete (1) . Una tremenda visione la conturba. Ella vede risalire dal nero fondo di un abisso, in forma di pallide ombre, tutti i personaggi che funestarono miseramente la sua casa ; vede i loro delitti, le loro sventure, le loro discordie ; vede le Furie implacabili che li condussero all'ultimo sterminio ed infine, dopo aver dato libero corso alla disperazione del suo cuore angosciato, cade tramortita fra le braccia di Antigone. Così finisce il Polinice, il quale, se vogliamo riguardarlo dal lato dell'arte, è, in complesso, di molto inferiore al Filippo ed alle altre tragedie di argomento classico che lo seguirono ; ma considerato storicamente è di somma importanza , come quello che ci mostra quanto studio facesse il nostro poeta prima di por mano ad un componimento drammatico, e quanta diligenza adoperasse nell'assimilarsi le forme ed i concetti non solo dei classici ma eziandio degli stranieri scrittori. Il quale studio evidente , più che in altre , in questa tragedia da me presa in esame, ho cercato mettere in luce men con le mie povere osservazioni che coll'accennare alle fonti a cui si deve ricorrere, quando si voglia fare un lavoro compiuto sul teatro dell'Alfieri. NICOLA IMPALLOMENI. (1) Del resto è inutile ripetere che questa concezione barocca gli fu ispirata dal finale dei Fratelli nemici. Anche lì Creonte delira e impreca agli Dei: Perdez-moi, dieux cruels ! ou vous serez decus ... Un coup de foudre est tout ce que je veux de vous. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA GIOSUÈ CARDUCCI. rini. - pp. 367). "" Storia del Giorno ,, di Giuseppe PaBologna, Cesare e Giacomo Zanichelli, 1892 (16°, È libro, sia detto fin dal principio, di singolare importanza e per la storia di quel gran secolo che nelle lettere nostre va dal 1750 al 1850, e nella vita letteraria di Giosuè Carducci, il quale a' tanti meriti eminenti ch'egli ha verso l'arte e la coltura italiana, è venuto in questi ultimi anni aggiungendo ancor quello di prosecutore e allargatore degli studi sul Parini, di colui che « mostrò (per usar le belle parole d'un altro insigne cultore di tali <<< studi, il Cantú) la connessione della letteratura colla vita, della coltura <<< mentale colla civiltà attiva ; rese la poesia coadiutrice dell'incivilimento, << espressione della società, banditrice degli oracoli del tempo » ( 1 ). Ma non è libro per tutti : e non è, perché non poteva essere. Prima d'imprenderne una coscienziosa lettura, occorre saper piú d'una cosa ; e aver studiato non solo le opere del Parini, ma molto di quel moltissimo che intorno ad esse fu scritto, innanzi di riuscire a comprender bene quanta sia la dottrina racchiusa in queste pagine, che, il più delle volte, pel magistero della forma, paion cosí facili e semplici, e celano la fatica di chi le pensò e scrisse. << L'arte che tutto fa, nulla si scopre » è sentenza famosa del Tasso ; e quel vigoroso ingegno del Manno scrive : « L'erudizione è il nutrimento dell'uomo << di lettere, ed al pari del nutrimento dee convertirsi, per cosí dire, in sugo <<< ed in sangue. Or siccome il sangue avviva ed innaffia le parti tutte del << corpo, e non pertanto tinge solamente di color di porpora le gote le piú << dilicate, e solo accende il viso in qualche forte concitamento della per- << sona ; cosí anche l'erudizione ..... dee trasparire ne'detti, nelle allusioni, << ne' cenni dello scrittore, non mai spicciare a larga vena » (2) . Tale è di questo libro, ove la dottrina non è alla superficie, ma nel fondo ; e però (1) Della letteratura italiana , esempi e giudizi, Torino, Unione tip .- edit. , 1856, p. 558. (2) De' vizi de' Letterati, libri due, Firenze, Le Monnier, 1855, lib. I, cap. V, p. 281. 118 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA riesce cosa difficile farne la dovuta estimazione e darne retto e sicuro giudizio. Se non che il gran pubblico, che non può starsi al metodo proposto << da tanto tempo, d'osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di par- « lare » (1) ed ha bisogno di leggere e di sentenziar alla lesta, ne ha discorso, anche lodando, in modo (ciò dico in generale) , da far intendere a' pochi giudici veri che la materia per lui era ostica e il modo onde fu trattata anche più. Eppure l'autore ha in non molto spazio raccolto e addensato, con ordine chiarezza e parsimonia notabili , tutta la storia del Giorno, alcune cose aggiungendo ne' fatti o nell'esame di essi interamente nuove, altre e , com'è naturale, le piú, riassumendo da que' che lo precederono, ma con informata coscienza di critico e squisitissimo gusto d'artista. E alla storia del poema pariniano giova anche e non poco il saggio di bibliografia ch'egli ha posto su la fine del volume, ricchissimo e vorrei dir completo, se non fosse qualche tenue difetto, che non mette conto notare (2) . E dopo ciò altri potrà chiedere : è un libro nuovo? È un libro vero e bello, e nuovo quanto poteva essere. - Consta di sette capitoli e il primo serve d'introduzione generale, mostrando in quali tempi e tra che vicende di vita fosse pensato e in gran parte scritto il Giorno. Quando nel luglio del '63 uscí in Milano pe' tipi dell'Agnelli il Mattino, il poeta, che volle conservar l'anonimo come fece poi anche pel Mezzogiorno, non passava i trentaquattro d'età e si trovava ad esser compagno nell'Accademia de' Trasformati di Pietro Verri e di Cesare Beccaria: quello aveva pubblicato poco prima le Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano ; questo avrebbe dato alla luce poco dopo il trattatello famoso Dei delitti e delle pene. Viveva già da parecchi mesi oppresso dalla piú squallida miseria e per giunta con la madre ammalata, come mostra il capitolo scritto in quel torno al canonico Agudio. Ciò, in causa dell' essere stato licenziato improvvisamente l'autunno anteriore, per un'avventura curiosa ma a lui molto onorevole (3), di casa Serbelloni, dov'era entrato fin dal '54 come prete di famiglia e precettore de' figliuoli di donna Vittoria (spiritosissima, di alti sensi e di coltura allor non comune, che leggeva e ammirava il Rousseau, ma che non dimenticò mai d'esser nata duchessa), e dove avea potuto, in comodo stato, esaminar da presso e per più tempo i vizi e le ignominie di quell'aristocrazia feudale, ch'egli e la rivoluzione avrebbero fatto scomparir dalla terra. Perché il Giorno è (chi nol sa ?) un poema, sotto veste magnifica e vorrei dire aristocratica, democratico fino a mai, anzi a dirittura rivoluzionario. Afferma a buon dritto il Borgognoni, ch'esso è « né piú né meno che un assalto contro la nobiltà, una battaglia (1 ) A. MANZONI, Pr. Sp. , cap. XXXI, in fine. (2) Noto invece, per una seconda edizione , che il v. 94 del Messaggio si deve leggere Te renderan beato e non Ti, come si legge a p. 32 ; che a p. 183 è un altro verso , ma del Mattino , di lezione errata (guido invece di guida) ; che a p. 235 è una citazione del Reina la quale dovrebb'essere XXVI, ed è XXXII ; che, finalmente, la data del libro del Cantú è 1854 e non '56 , come sta a p. 248. Minuzie tipografiche. (8) Cfr. Le Odi dell'abate G. P. ecc. , con prefazione e note di F. SALVERAGLIO, Bologna, Zanichelli, 1881, p. x1 ; e CARDUCCI, pp. 33 e seg. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 119 - <<< contro il diritto del sangue, combattuta da un equalitario d'ingegno e <« di studi elegantissimi ..... Il Parini combatteva l'aristocrazia del sangue, << la ricchezza del privilegio, la plebe cieca adoratrice di chi la calpesta. << Non era, e non poteva essere, un settatore dell'eguaglianza incondizionata, << assoluta, che si risolve nel nullismo politico e civile. Egli dunque vagheg- << giava una società fondata sull ' aristocrazia dell'ingegno, sulla ricchezza << del lavoro, sulla democrazia dei caratteri , sulla democrazia concepita come << una lega dei buoni contro le possibili prepotenze dell'ingegno e della ric- «< chezza » ( 1 ) . Alto e nobile ideale, a raggiungere il quale egli, << nemico << acerrimo della tirannide, ed altissimo maestro di libertà » (cosí il Reina a Napoleone) ; egli, che i nobili voleva far ricredere e vergognare perché, abbandonati il fasto le mollezze e le vane superbie di casta, divenisser buoni e laboriosi cittadini , e che al grido morte agli aristocratici rispose in pieno teatro e con terribil voce : viva la repubblica : morte a nessuno (2) ; egli << si offre precettore di bella mondanità a un cavaliere servente ; se non che << ben presto con la scusa d'insegnare descrive ; e animandosi di grado a << grado nella descrizione, atteggia l'alunno, che diventa un personaggio, e << ne racconta le azioni ; e quando all'attore primo si aggiungerà un'attrice << prima, e poi intorno a' due si accoglieranno altri, il poeta allora anche << metterà nella rappresentazione l'aggruppamento e il movimento del dramma. << Cosí del Giorno la mossa è didascalica, descrittivo il procedimento, tra << epico e drammatico lo svolgimento ». Queste vere e belle parole son del Carducci, che nel capitolo secondo dell'opera sua viene a dire del Mattino e del Mezzogiorno , e a rilevare, piú di quel che altri abbia fatto sin qui , tutta l'importanza che nel primo ha l'episodio di Amore e d'Imene, nel secondo la favola del Piacere. L'episodio di Amore e d'Imene è la satira del costume de' serventi e dei cicisbei, che meglio si direbbe dell'adulterio legalizzato ; satira tanto più amara, quanto la corrotta e corruttrice opinione che il perfetto amore non si potesse trovare nel matrimonio era piú radicata e profonda. Imene or porta Non più serti di rose avvolti al crine, Ma stupido papavero, grondante Di crassa onda Letea ; Imene e il Sonno Oggi han pari le insegne. (Mezzog.). lo non posso in questa rassegna che di natura è sommaria e dee , sorvolando su molte cose, restringersi a dar breve notizia di ciò che il libro esaminato contiene di più particolarmente notevole, io non posso fermarmi a dire delle testimonianze che l'autor nostro, ad illustrazione storica dell'episodio, ricava da varie fonti, il tutto contemperando in armonica unità. A me basta notare ch'egli, sobrio sempre, non si lascia prender mano dalla seducente materia, tanto piú che de' costumi quali erano a' tempi del Parini (1) Il Giorno a cura di ADOLFO BORGOGNONI, Verona, Tedeschi, 1892, pp. 25 e 33. (2) F. REINA, Vita di G. Parini, p . LXI (innanzi al I vol . delle Opere). 120 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA avea trattato con certa ampiezza nel suo magnifico libro il Cantú. Ma non debbo restarmi dall'accennare alla trionfal difesa dell'uso della mitologia (connaturata, per cosí esprimermi, alla concezione poetica) nel Giorno e in quest'episodio contro il De Coureil e compagni : cosa di maggior importanza di quel che alle prime possa parere. Nella favola di Amore e d'Imene << l'amarezza del sarcasmo è fatta maggiore dal tono artisticamente ma- << nierato dell'invenzioncella mitologica, fiorita spontanea della moda del << tempo. Salotti , talami, specchiere, letti, canapè, tutto era allora mito- <« logia : mitologia gli amori de' poeti , i pseudonimi delle belle, i nomi dei << cavalli e de' cani , i balli , i drammi , starei per dire le prediche : la moda << della mitologia fu consacrata nell'arte dall'Appiani e dal Canova. Gl' ico- << noclasti romantici hanno il torto di recare la schifiltà loro dove non è il <« luogo. Nel Giorno la mitologia è il colore locale ». L'altro episodio del Piacere è il punto fondamentale del Mezzogiorno, anzi di tutto il poema, come quello che determina, per mezzo d'un'altra favola che nell'intimo suo senso è una derisione terribile della sciocca vanità de' grandi, la origine della diversità fra gli uomini e della nobiltà ereditaria. « -— Forse vero non è ; ma un giorno è fama Che fur gli uomini eguali , e ignoti nomi Fur Plebe e Nobiltade · · A un rivo stesso , A un medesimo frutto, a una stess'ombra Convenivano insieme i primi padri Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri De la plebe spregiata. << Il quadro giudicò l'Ugoni (1 ) - nella pittura gareggia coll'Albano, né << forse è indegno d'un socialista nell'intenzione » . E questo quadro richiama il Carducci ad esaminare minutamente il Dialogo della Nobiltà, che, dopo i buoni argomenti addotti dall'Agnelli, i piú pensano e credono fosse scritto dal Parini prima del Giorno; ché anzi del Giorno sia « il precedente piú << esplicito e piú significativo » (2) . E cosí è davvero ; poiché tutte quelle che ci sono indicate come fonti e quanto alla materia e quanto alla forma del poema pariniano, e che danno soggetto a' capitoli terzo e quarto dell'opera che vengo così alla meglio riassumendo ed esaminando, a nulla o a ben poco concludono. Per me, il fatto stesso dell'essere queste fonti quasi altrettante quante le teste de' critici, prova da sè solo la inanità delle ricerche fatte per togliere o diminuire originalità a questo originalissimo poema. Quanto alla materia, dopo l'esame spassionato accorto intero che il Carducci ha fatto delle supposte fonti, a nessuno dovrebbe venir piú voglia di tornar a ripetere quel che il Bramieri, il Sismondi ed altri, già tempo e senza prova alcuna, affermarono, specie per quel che riguarda le imitazioni del Giorno dal Leggio di Nicola Boileau (1) Della letteratura italiana nella seconda metà del sec . XVIII , Milano , Bernardoni , 1856 , vol. I, p. 380. (2) Precursori e imitatori del Giorno di G. Parini , Bologna, Zanichelli , 1888 , pp. 35 e seg. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 121 • e dal Riccio rapito di Alessandro Pope. Già l'Agnelli aveva tradotto in prosa letterale i nove passi del Riccio che lo Zanella diede come imitati dal Parini, per mostrare luminosamente che imitazione non c'era, se non molto ma molto superficiale ; ed ora l'autor nostro , con raffronti eruditi e ragionamenti pieni d'equità e di giustizia, rincalza l'opinion dell'Agnelli e mostra per conto suo la falsità delle altre supposte imitazioni. Somiglianze piú apparenti, se non reali, sono, per quel che riguarda l'uso dell'ironia didascalica e descrittiva, fra il Mattino e la satira In antemeridianas improbi iuvenis curas del Gesuita secentista Gian Lorenzo Lucchesini, che (cosa degna di nota e curiosa) promise, ma non scrisse mai, altre due satire sul pranzo e su la sera de' giovani malviventi ; e fra il Giorno e i quattro sermoni De tota graeculorum huius aetatis litteratura dell'altro gesuita Giulio Cesare Cordara (Lucio Settano) , che « sono una parenesi << di precetti ed esempi indirizzati a fare un grecista o piú largamente un << dotto, un letterato alla moda, moda, s'intende, d'intorno al 1730 ». Ma siam sempre lí: somiglianze anche queste esteriori e tutte superficiali (molto meno però di quelle del Leggio e del 'Riccio) ; e ci vuol della gran buona fede, ed io non ne ho quanta basti , a credere che il Parini potesse togliere, per un poema ch'è tutto vita e vita degli anni suoi, idee da' su ricordati poeti latini, che, tra l'altre cose, siamo incerti s'egli abbia conosciuti anche solo di nome. - - Né è il caso di pensare a derivazioni da' satirici latini o italiani. «< I poe- << metti del Parini - giudica finamente il Carducci, dopo un discorso che << mi duole non poter riassumere stanno da sé, comprensibili e godibili << senza raffronti ai satirici : imperocché satirico il Parini è, secondo il signi. << ficato usuale all'ingrosso ; ma non ha movimenti e forme né della satira << letteraria fissata, né della satira popolare vagante; non la declamazione né << la invettiva né la predica , non il gioco né il sermone né la farsa : egli <« rappresenta l'azione molteplice d'una società in continuato svolgimento : « il Giorno è l'epica della satira ». Neppure la stupenda originalità del verso sciolto pariniano può esser messa in alcun dubbio. Per me, troppi anche qui sono i presunti maestri , né, d'altra parte, si giunge a veder bene e a determinare con chiarezza quel che l'immensamente piú grande scolare abbia da loro imparato. Oltre di che sappiamo dal Reina, autorità irrefutabile, che il Femia di Pier lacopo Martelli << fu l'UNICA opera che desse a Parini, per propria confessione, alcuna norma << del suo verseggiare » (1 ) . E come potesse aver dato alcuna norma, specie per quel che riguarda certe inversioni latineggianti, mostrarono benissimo lo Gnoli (2) ed il Carducci ; ma alcuna norma ; non piú. Certo è a dolere che andasse smarrito un carteggio su l'orditura degli sciolti, córso, alla pubblicazione del Mattino, fra il Parini e il Frugoni , di tali versi creduto da sé stesso e dagli altri maestro fino allora insuperato. Il Reina, che ci (1) Vita cit. , p. xiv. (2) Cfr. Questioni pariniane, in Nuova Antologia , fasc . 1 dicembre 1879 e in Studi letterari, Bologna, Zanichelli , 1883, pp. 327 e segg. 122 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA dà tale notizia, afferma che questo carteggio, dopo la morte del suo grande amico, « alcuni barbari abbruciarono » (1) ; ma ciò può essere avvenuto per le lettere del Frugoni al Parini , non già, stando alle parole dell' autorevol biografo, di questo a quello. Orbene, le lettere pariniane al Frugoni ove sono andate? Io ne ho fatta invano e per piú tempo e in diversi luoghi inutile ricerca ; c'è qualcuno meglio fortunato di me? La conoscenza di esse gioverebbe, od io m'inganno , non poco a darci una ragione storica e positiva dell'arte dal Parini usata nel verso sciolto e nello stile, quantunque non potesse che confermare quel ch'è giusto e universal giudizio per ciò che ne riguarda la insuperata e insuperabile perfezione. Il Mattino e il Mezzogiorno al loro primo apparire ebbero un successo clamoroso e suscitarono, com'è nella natura delle cose, molti imitatori (a quelli comunemente noti il Carducci aggiunge altri due, uno veneto e l'altro napolitano, anonimi autori del Gioco e dello Studente alla moda) , di scarsissimo valore tutti, se ne togli, per certo rispetto storico, il Colpani (2) . Al successo contribuí in gran parte lo scottante argomento preso a trattare ; ché anzi il Foscolo affermò non esservi stato milanese che nel Giovin Signore non riconoscesse il principe Alberigo Barbiano di Belgioioso (3) . Ma ciò fu nelle intenzioni del poeta ? Si noti che Alberigo, pur da giovane, appare storicamente ben diverso da quel fatuo che il Parini dipinge, e che s'egli potè, per una parte, esser tenuto modello de ' raffinati milanesi ; per l'altra, combattė (diciamone una sola) come tenente generale alla battaglia di Rosbach (1757). Orbene, con qual giustizia e ragionevolezza avrebbe il poeta potuto rimproverargli che invano lo chiamasse il dio dell' armi e ch'egli aborrisse dal sangue? Però il Carducci , dopo aver discorso un po' a lungo del Belgioioso << perch' ei rimane tuttavia la figura che rappresenta nel meglio o nel << meno male la società del Giorno » , s'accorda col Bernardoni, col Cantú, col De Castro e con più altri nel credere (tale opinione mi par sempre giustissima) << che alla natura del Parini come all'arte di lui ripugnasse <« fissar tipo un individuo. La satira sociale non può esser personale. La << scelta che il poeta ha da fare tra le realità disseminate le idealizza di << necessità » . - - Se la satira non è né poteva esser personale, perché il Parini non pubblicò subito la Sera? Risposta a una tale domanda si cerca dare nel capitolo quinto. A questa che doveva essere, secondo il primo ordinamento, la terza ed ultima parte del lavoro, il poeta avea posto mano già fin dall'autunno del '66 . Ma poi « stomacato (sono sue parole) dall'avidità e dalla << cabala degli stampatori » che gli avevano <<< ristampato in mille luoghi » le prime due parti, « senza veruna partecipazione seco, senza mandargli una << copia, senza lasciargli luogo a correggervi pur un errore » (4) , e occupato anche dagli uffizi delle cattedre a cui fu eletto dal Firmian nel '69 e nel (1) Vita cit. , p. xvi. (2) Cfr. GNOLI, Op. cit. , pp. 310 e segg. (3) Opere, vol . XI, p. 210. (4) Lettera in data 10 settembre 1766 all'editore veneto Colombani, in CANTú, L'Abate Parini ecc. , p. 238, e in Storie minori, vol . II , p. 632. L'originale conservasi nella Marciana. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 123 "74 e da altri lavori, non pensò a terminare e a pubblicare cosí presto l'ultima aspettata parte. E nell'inverno dell'85 ricordava, in un'ode mirabile, come la patria lo incitasse a poner fine al Giorno, per il quale egli era indicato a dito (come già Orazio) allo straniero . Intanto nella sua mente s'era venuto maturando il concetto di chiudere il poema non con una, ma con due parti : il Vespro e la Notte. Se non che, a confessione del Reina, << sospese piú volte il lavoro : tanto lo rendette difficile la tema di non << parer minore di sé nella pubblica opinione » ( 1 ) . Finché a terminarlo ebbe nel '91 quel che avea cercato già fin dal '66 : uno stimolo ; e tale fu il desiderio espressogli dall'arciduchessa Maria Beatrice d'Este di veder finito il laborioso poema. A questa donna buona e generosa, ornata di domestiche insigni virtú e protettrice degli studi (alla quale, sia detto di passaggio, il Carducci suppone, non senza buoni argomenti, fosse indirizzato il sonetto A Clori ispiratrice dell'estro) , non si poteva dir di no : quindi il Parini s'accinse con alacrità al lavoro, promettendole di darle a vedere le ultime parti non solo, ma anche le prime corrette e stampate fra breve. Quando a fargli sospender di nuovo, e questa volta per sempre, le sue fatiche, venne nell'aprile del '96 l'invasione francese. Vide allora che, per le idee trionfanti della rivoluzione, non solo il Giovin Signore era morto, ma già decaduta e sfasciata quella nobiltà, ch'egli aveva cosí acremente derisa quando da tutti era posta in trono. E però all'animo suo nobilissimo , dopo aver tanto procrastinato, lo stampar allora il poema parve (com' egli ebbe a scrivere all'amico Pompilio Pozzetti) « pretta viltà, niente men turpe che « l'insaevire in mortuum » (2) . Di maniera che, in causa di politici rivolgimenti, come prima la Bassvilliana e poi la Mascheroniana del Monti, cosí anche rimase incompiuto il poema del Giorno, che sta sopra ai due per valore d'arte e specialmente per quell'alta importanza morale e civile, onde a Pietro Giordani sembrò « grandissimo e utilissimo dopo Dante tra tutti i << poeti il Parini » (3). Ma se il non aver fatto, per causa cosí nobile e generosa, un' edizione completa e definitiva del poema può esser di gran lode al magnanimo ed austero lombardo, fu, non c'è dubbio, di danno non piccolo all'arte , e tanto piú, se si ricordino queste memorabili parole di lui già settuagenario : « Gli altri «< lodano le cose mie : io non le posso lodare. Ora che sono vecchio conosco << ove sta il bello : se potessi dar addietro di trent'anni, comporrei forse cose << non indegne del nome italiano » (4) . E fu danno anche perché si sarebbero, a risparmio di tempo e di fatica, evitate le logomachie de' critici sul testo da seguirsi, specie per le due prime parti , date le molte e importantissime correzioni e giunte che nelle sue carte lasciò il poeta. Il Reina non ardi metter mano nell'opera del maestro, e quel che trovò di pentimenti e di passi inediti fra i mss. pariniani , diè senz'altro in nota nel primo volume (1) Vita cit. , p. xxii . (2) Della vita e degli scritti di G. Parini 47. , Lettere di due amici, Piacenza, Ghiglioni , 1801 , )P. (3) Opere di P. G. , vol . XI (IV degli Scritti inediti e postumi pubblicati da ANTONIO GUSSALli) , p. 131 , Milano, Sanvito success. di Borroni e Scotti , 1857. (4) REINA, Vita cit. , pp. xxx e seg. 124 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA della grande edizione delle Opere di lui (1) . Non cosí fecero il Bramieri prima, poi il Colonnetti e il Cantú, che, servendosi delle note del Reina, rimaneggiarono il testo con gusto, non v'ha dubbio, e criterio non comuni, ma ponendo mano (ciò che non può farsi mai) nell'opera lasciata incompiuta dal suo autore. Il testo del Cantú, il migliore certo dei tre, crede il Carducci sia quello da seguirsi, ed egli in fatti seguí. Dissi già altra volta (2) con quali norme dovrebb'esser, secondo me, condotto un testo veramente critico (3) : né qui giova ripetermi . Soltanto vorrei mi fosse lecito far notare al Carducci (che, del resto, sa insegnare a me, e non a me solo, come si faccia a condur testi critici) che se il Parini nell'apparecchiar le varianti e specialmente le giunte, ebbe l'intenzione di tenerne conto per la stampa definitiva, noi certo non possiamo dire (tranne per le correzioni a tutti evidenti) se, giunto all'atto, avrebbe accettato questa o quella forma, avrebbe o non avrebbe messo questo quel passo. Tanto è difficile anche al grande artista il veder sempre chiaro e senza alcun dubbio se nuoca o giovi il porre o non por questa giunta, e se sia meglio sceglier l'una o l'altra di due lezioni che sembrino e siano, come accade non di rado, ambedue, per diversi rispetti, efficaci ed appropriate all'idea ! Né anche mi par difficile il rispondere a un'interrogazione ch'egli fa al Borgognoni, il quale mostrò in modo luminoso come fosse criticamente erroneo il metodo seguíto dagli editori venuti dopo il Reina, e sostenne doversi stare attaccati il più possibile ai vecchi testi. << Perché non rese al Mezzogiorno le spoglie onde uscí poi <<< adornato il Vespro, certamente per man del poeta? » Ma perché, si risponde, non poteva assolutamente, appunto perché noi sappiamo e di certa scienza, che tanto la descrizione del tramonto quanto quella del corso fu proprio il Parini, e non altri che lui, a collocarle nel Vespro ; e ciò fin da quando ebbe la giusta idea di divider la Sera in due parti, e di farne un Vespro ed una Notte. Che se il Parini nel '65 pubblicò quelle due descrizioni nel Mezzogiorno, ciò fu perché allora al Vespro e' non pensava e credeva che una sol parte mancasse al compimento dell'opera : la Sera. Se avesse perseverato nella primitiva idea di scriver soltanto la Sera, il tra- (1) Milano, stamperia e fonderia del Genio tipografico , 1801-1804, voll . 6. ( 2) In questo stesso Giornale, XVII , 408 e seg. - (3) Quello dato recentemente dal Borgognoni non è, né, trattandosi di un'edizione scolastica, volle essere ancor tale : 10 perché non furono, com'era necessario, riveduti per esso ed esaminati gli autografi pariniani ; 20 perché non fu adornato delle varianti e de' brani aggiunti, de' quali in una completa edizione critica non si può far a meno ; 30 perché v'è stata , a mio credere , usata una strettezza soverchia nell' accogliere quelle che appaiono vere correzioni del poeta, e delle quali non mi par possibile dubitare. Per un esempio, il v. del Mezzogiorno E dagl'infimi chiostri i mesti servi pensò di mutare il Parini in quest'altro : E dall'infime chiostre i mesti servi , manifestamente per togliere quel suono continuato e poco gradevole di cinque . È dunque una vera e propria correzione, e, sembra a me, da doversi accettare a chius'occhi . Cosí dicasi di altre cotali. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 125 monto e il corso avrebber dovuto stare, benché molto a disagio, nel Mezzogiorno: non avendo, quelle spoglie sono del Vespro, non solo perché il Parini ve le pose di sua mano, ma perché sarebbe cosa inconcepibile che egli, non appena ideata questa terza parte, non avesse pensato anche a toglier la descrizione d'un tramonto dalla seconda intitolata Mezzogiorno. - - Il Vespro e la Notte, che furono editi la prima volta dal Reina di su gli autografi del poeta nel 1801 e benché incompleti suscitarono al loro primo apparire non minore artistica ammirazione delle altre due parti, possono, specie la seconda, essere per valore di concepimento e d'esecuzione messi a paro e talvolta sopra il Mattino, se non anche al Mezzogiorno, quello dei poemetti che nel suo complesso vince gli altri , benché non vanti due descrizioni portentose quali sono quelle al principio del Vespro e della Notte. Che cos'è ciò che manca a queste due ultime parti per esser finite? La risposta a tale domanda è nel capitolo sesto della storia che volge al suo fine, capitolo che svela molte cose finora ignote d'una grandissima importanza storica, e però ci fa doler meno che il poema non fosse compiuto. Tutti sanno che tra l'episodio famoso della partoriente e il corso è nel Vespro una gran lacuna. Ora il Carducci, dall'esame di alcune note in prosa di mano del poeta, alle volte con ordine, alle volte no, disseminate in alcuni fogli e foglietti che sono tra le carte di lui, ha ricavato che in quell'episodio « tutta << doveva esser messa in rilievo con l'ironia consueta l'educazione puerile e << l'educazione cavalleresca di collegio e di casa, un po' per via della con- << versazione tra i presenti invitati e intervenuti, un po' forse anche per via « di quello che la Musa invisibile andasse susurrando alle orecchie del neo- « nato. Messa in iscena la nascita del primogenito, che doveva riuscire un << futuro Giovin Signore (Dis genite et geniture deos), il poeta doveva neces- << sariamente allargarsi nelle circostanze e nelle conseguenze. Era, per chi non << volle cominciare ab ovo come l'autore del Cicerone, l'antefatto del poema, << in forma d'episodio. Tutto ciò avrebbe riempito la lacuna che pur troppo << vaneggia in mezzo al Vespro. In un foglietto anche leggo scritto a matita, « Confidenze tra padre e figlio. Chi sa maraviglie ne sarebbero uscite ! » Ancora: in un foglio a parte trovò stese di seguito le note per una accademia. « Sono cedo sempre la parola a lui, ché meglio e più chiaramente << non si potrebbe dire - sono come le prime linee al disegno d'una nuova << occupazione del pomeriggio signorile : andare all'accademia, al saggio cioè << di esperimenti in varie discipline che ad anno finito usavano dare i nobili <<< allievi o nel collegio dei reverendi educatori o nel palazzo gentilizio. Non << che nella compiuta stesura del poemetto occupazioni o faccende dovessero << seguirsi l'una dopo l'altra in uno stesso pomeriggio : sí bene il poeta << avrebbe avvertito l'alunno che il tal giorno era il caso dell'amico amma- << lato e dell'amica dalle convulsioni ; un altro giorno era il parto della << marchesa o duchessa tale, e il battesimo ; un terzo giorno poteva essere << l'accademia del duchino tale o del principino tale altro; ne'giorni poi di < festa il corso ». -- - Quanto alla Notte, chi ne abbia letto poco oltre del principio, sa che il poeta s'era proposto di accompagnare il suo alunno alla veglia frequente o all'ampia scena : dunque, secondo i casi, o alla conversazione o al teatro. 126 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA La prima parte fu eseguita ; non cosí la seconda, che tuttavia, mercè un altro gruppo di note prosastiche pariniane poste ora in luce pur dal Carducci, ci è dato di comodamente indovinare. « Il teatro è un alveare, i palchi le <<< celle , i giovani le api che fanno il miele ». Trattando di quest'alveare, il poeta avrebbe anche toccato degli attori fischiati o applauditi, delle donne di teatro, de' celibi, del cavalier savio e della dama savia, di vari caratteri di donne alle quali si deve far visita, delle maschere, de cavalieri giovani che mantengono donne de' vecchi che, non potendo altro, dànno ciarle e protezione alle attrici, de' ballerini e delle ballerine, del parlar forte dalla platea al palco e di minori cose. Centro di tutta questa vita sarebbe stato, s'intende bene, il Giovin Signore ; e chi conosce la potenza satirica descrittiva e rappresentativa del Parini, può senz'altro figurarsi come la materia di questo nudo schema, pur cosí varia nella sua unità, sarebbe stata ornata De' vaghi fiori de lo stil ch'ei colse Ne' recessi di Pindo e che già mai Da poetica man tocchi non furo . Secondo altre note ancora e alcuni versi fin qui inediti , sembra che il poeta avesse ideato di condurre per ultimo il suo alunno ne' regni della morte. Né di te degno e de l'eterna Clio Saria il tuo vate, se de gli altri al paro Poi non guidasse il suo cantato eroe Felice temerario in faccia a Pluto. Si chiede il Carducci : « ma dove avrebbe cacciato la morte dell' eroe e la << discesa all'inferno ? >> Certo, a me pare, su la fine del poema ; e il punto di collegamento fra la trattazione del teatro (che, si noti, « è l'estrema << delle fatiche del giorno ») e la conclusione, dirò cosí, funerale, sarebbe stato questo: << Maraviglie de' posteri pensando che tu abbi fatto ogni giorno << tante cose per tanti anni » . L'eroe, dopo aver passato tanti anni come il poeta ha detto, si sarebbe naturalmente invecchiato e avrebbe dovuto morire. Morte da eroe, perché avrebbe ottenuto << funerali e apoteosi » come il tipo piú bello, piú insigne di cavaliere che potesse esser proposto ad esempio de' venturi giovini signori. Dall' apoteosi alla discesa dell' anima ne' regni di Plutone il passo è breve e senza difficoltà. Ma, a proposito di questa ideata chiusa, nota giustissimo il critico che « certe fantasie di reminiscenza << troppo avrebbero stonato con la realità viva che animava tutto il poema » . Se il capitolo sesto è storicamente il più importante, il capitolo settimo è criticamente ed esteticamente il più bello. Tratta dell'arte nel Giorno e della composizione elocuzione e verseggiatura, e rimarrà fra le piú geniali e profonde pagine di prosa del Carducci, che pur tante ne ha e cosí mirabilmente varie ; perocché nessuno meglio di lui avrebbe saputo sposare tanta coltura a tanta agilità di forma, cosí profondo esame di critica a cotal finissimo gusto d'artista. Riassumere è impossibile : sarebbe un guastare, tanto piú che nulla si saprebbe aggiungere e nulla si vorrebbe fosse tolto. Solo mi contento di segnalare come cosa tra l'altre preziosa l'esame della descrizion della Notte, e di concludere (è ben tempo) che con questo libro l'autore RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 127 e maestro ha da par suo provveduto a far completamente intendere e quindi anche apprezzare tutta l'importanza artistica, morale e sociale del capolavoro di Giuseppe Parini, di questo grandissimo italiano, non animale e canaglia letterata, come lo salutarono , ne' suoi primordi, i Verri ; ma buono, leale, equanime e grande quanto può essere chi ad un'arte sovrana seppe accoppiare il santo amore del giusto e il desiderio appassionato del bene. ALFONSO BERTOLDI. - SALVATOR ROSA. Poesie e lettere edile ed inedite, pubblicate criticamente e precedute dalla vita dell'autore rifatta su nuovi documenti per cura di G. A. CESAREO. Napoli, tip. della R. Università, 1892. Due volumi in-4° (I, pp. VIII-410; II, pp. 160) . - L'uomo, il pittore, il poeta, intitolava il Carducci uno dei paragrafi del suo scritto su Salvator Rosa, premesso all'edizione del Barbèra ( 1860) delle Rime e lettere, e più volte poi ristampato. E veramente Salvator Rosa merita questa triplice designazione, per quanto l'uomo, che noi ora siamo venuti a conoscere, non sia più quel certo eroe patriottico e romantico, uscito mezzo dalla fantasia del De Dominici e mezzo da quella di Lady Morgan. Non mai allo studio del Rosa come uomo, come pittore, come poeta, era stata consacrata un'opera tanto ampia quanto ora questa del Cesareo. Necessaria preparazione di un simile studio erano una larga ricerca biografica, un'edizione critica ed illustrata delle sue opere letterarie , un catalogo descrittivo della sua opera di pittore coll'indicazione delle collezioni nelle quali oggi si trova sparsa. Sopra queste fondamenta solo potevano elevarsi lo studio psicologico dell'uomo, la determinazione del posto e del significato del letterato e dell'artista. La pubblicazione del C. abbraccia in uno questi varii lavori di preparazione e di costruzione , recando a ciascuno d'essi buoni contributi , ma non riesce a compierne nessuno definitivamente, e qualcuno anzi sfiora appena. Io, dopo aver reso omaggio alle fatiche compiute dal C. e agli utili risultati da lui raggiunti, entro in materia, esaminando capo per capo il suo libro rispetto ai desiderata che ho accennati , e mostrando ciò che ha fatto, e ciò che ancora resta da fare. E prima di tutto, movendo dalla ricerca biografica, il C. si è trovato a fronte i tre più antichi biografi del Rosa, che sono il Passeri , il Baldinucci e il Pascoli, dei quali egli riconosce il molto valore (1) . Anche giustamente qualifica come impostore il biografo De Dominici, che aggiunse non poco all'opera dei tre primi e specialmente la spiritosa e fortunata invenzione (1) Dell'opera del Pascoli cita un'ediz. del 1736 ; io ne ho presente una anteriore di Roma, 1780. 128 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA della parte che il Rosa avrebbe presa alla rivoluzione napoletana del 1647-8. Se non che, a questo proposito, io avrei desiderato che il C. avesse mostrato una maggiore coscienza della impostura del De Dominici ; il quale non inventò solo quei particolari biografici del Rosa, ma, si può dire, un'intera storia dell'arte napoletana, che trovò tutti credenti per oltre un secolo, e serba ancora i suoi fedeli, benchè sia stata sfatata negli ultimi cinquanta anni per opera dello Schulz, del Catalani, del Faraglia, del Frizzoni ecc. , ecc. ( 1) . E, d'altra parte, dichiarato il carattere dell'opera del De Dominici, il C. avrebbe fatto bene a non servirsene mai, come pure fa qualche volta, ed anzi, a non più discuterla, come fa spesso, perchè è tempo perso. Il piacevole libro di Lady Morgan, per la parte biografica non porge nessuna notizia nuova, e solo esagera le invenzioni del De Dominici, la cui opera la Morgan non conobbe neanche direttamente, ma solo per quel tanto che ne passò nella vita del Rosa tratta da quella che ne scrissero Filippo Baldinucci, Giambattista Passeri, Leone Pascoli, Bernardo De Dominici ed altri, che si trova premessa a varie edizioni delle satire fatte nel secolo passato (2). Oltre queste fonti ed alcun'altra a stampa il C. si è accinto alla nuova biografia con un materiale manoscritto, formato da alcuni documenti sul matrimonio e la morte del Rosa, e di un grosso manipolo di 105 lettere di lui, indirizzate a Giulio, Giovanni e Ludovico Maffei, le quali tutte, fuor che tre, si trovano autografe nella biblioteca dei Marchesi Ferraioli di Roma; più di due lettere inedite dirette all'ab. Don Antonio Ruffo da Messina, e di alcuni carteggi contemporanei diretti allo stesso, e concernenti cose d'arte. Del Rosa erano già a stampa venti lettere all'amico G. B. Ricciardi pubblicate per la prima volta dal Bottari, e poi dalla Morgan, che vi unì una sua traduzione inglese, e dal Gamba, nell'edizione della Vita del Baldinucci, Venezia, tip. di Alvisopoli, MDCCCXXX, pp. 161-200, e nell'edizione del Carducci. Il C. ora le ristampa. Tardi egli si è accorto che anche delle 105 lettere ai Maffei una piccola scelta era stata pubblicata nel 1878 a Firenze in un opuscolo per nozze (3). Più grave omissione è l'aver ignorato che il carteggio autografo col Ricciardi, dal quale furono tratte le venti lettere del Bottari, si conserva ancora, e che di esso varii brani, editi ed inediti, venne citando l'Ademollo, nel suo volume I teatri di Roma nel secolo XVII, che sfortunatamente è restato sco- (1) L'intera questione De Dominici è stata da me riassunta ed esposta in due articoli intitolati I Falsario, e pubblicati nella Napoli nobilissima , Rivista di topografia ed arte napoletana, I (1892), ni 8-9. (2) Il C. si serve della traduzione francese del libro della Morgan. Io ne ho sott'occhio l'originale inglese, ch'è intitolato così : The life and times of Salvator Rosa by LADY MORGAN, in two volumes, Paris, Galignani, 1824, xvi-286 ; vini-286. (3) Lettere inedite di Salvator Rosa, per nozze Banchi-Brini, Firenze, Barbèra, 1878. Il C. lo cita a stampa finita, II , 133, avendone avuto cognizione per mezzo della pubblicazione del Toci intorno al Ricciardi , da lui pure troppo tardi conosciuta. Dalla stessa avrebbe potuto trarre anche l'indicazione delle lettere inedite del Ricciardi conservate presso il cav. Niccolò Maffei di Volterra, e di altre dello stesso conservate presso Aurelio Gotti e presso il marchese Campori di Modena, nelle quali ultime si contengono « non poche notizie assai importanti alla vita del Rosa » (Rime burlesche di G. B. Ricciardi, p. xxx1). RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 129 nosciuto al C. (1) . I brani citati dall'Ademollo si riferiscono agli spettacoli teatrali di Roma, e portano le date del 1652 e 1653, del maggio e giugno 1654, del 20 novembre 1660, del 5 febbraio 1661 , del 26 gennaio 1666, dell'8 gennaio 1667, del 15 settembre 1668. A proposito di queste lettere, il compianto Ademollo scrive in una nota di averne avuto comunicazione dal cav. Filippo Mariotti di Firenze (2). Io ne ho fatto ricerca a mia volta, ed essendo morto il Mariotti e trovandosi molte carte di lui alla Biblioteca Nazionale di Firenze, ho saputo che da queste risulta che il Mariotti le copiò appunto dal carteggio Ricciardi, posseduto da Aurelio Gotti (3) . Oltre i brani citati dall'Ademollo, altri ne produce il Mariotti nella sua opera Storia dei teatri (ms. della cit. Bibl.), e propriamente due brani uno in data 12 febb. 1650, e l'altro 14 gennaio 1652 ; e una lettera intera , in data 19 maggio 1668, riferisce fra i documenti. Nella Biblioteca Nazionale di Firenze, inoltre, tra alcuni manoscritti del Ricciardi , si trovano due altre lettere del Rosa (4). Che le 105 lettere ai Maffei abbiano molta importanza, e aggiungano qualche cosa di sostanziale alla biografia del Rosa, io non oserei dire : le venti lettere edite già dal Bottari restano sempre le più curiose del carteggio. Ma, certo, sono tutt'altro che inutili, e servono specialmente a dare un'impressione più viva e diretta del Rosa qual'era nella vita ordinaria . - Ma sia per la scarsa importanza del materiale nuovo, sia per altre ragioni, la biografia che ricostruisce il C., poco aggiunge a quello che ci dicono le tre antiche biografie, che contengono quanto si sa di meglio intorno alla vita del Rosa. E circa il modo nel quale la ricostruzione è condotta, se vi sono alcune indagini felicemente compiute, altri particolari non mi soddisfano interamente. Per la data della nascita, il C. , tra il Passeri che la mette al 21 luglio 1615, e il Baldinucci che la mette al 20 giugno, propende pel primo, quantunque non possa scegliere con sicurezza tra le due, e non è un gran male ( 5) . — Alcune notizie, quali l'amicizia del Rosa col pittore Marzio Masturzo , il suo frequentare col padre la casa di un tal D. Angelo Pepe, intendente di pittura e di musica, e l'avere studiato col pittore Aniello Falcone, e le inimicizie con Micco Spadaro, e con altri pittori napoletani (6) non dovevano esser accolte nel testo, perchè unica fonte di esse è appunto la biografia del De Dominici, che il C. ha riconosciuto per impostura; e il De Dominici, anche quando dà notizie credibili , non forma autorità. Non risulta (I, 8) da nessun luogo che il Rosa precisamente si disgustasse di Napoli perchè non gli riusciva di entrare nelle « leghe ed associazioni (1) Roma, Pasqualucci , 1888 ; cfr. pp. 66, 93, 95 , 96 , 106 , 139 , 140. ( 2) Il Mariotti (da non confondersi coll' omonimo traduttore di Demostene) era segretario dell'Istituto tecnico di Firenze, ed è morto qualche anno fa. (3) Passarono quindi nell'autografoteca Campori e di là ora nell'Estense di Modena. (4) Cominciano: Questa mattina il Fabbrini... » ; e « Ieri sera lasciai scritto ... » . Una decina di lettere del Rosa, in cui si parla della villa di Strozzavolpe, fu acquistata dal dr. A. Bizzarri , quando questi divenne proprietario della detta villa. Sono tutte pubblicate nell'opuscolo nuziale edito dal Barbèra. (5) Nella nota , un piccolo trascorso di penna dove si parla del libro dei morti del 1615, che deve essere, invece, il libro dei battezzati. (6) Vedi vol. I , pp. 6-7, 13-14, 16, ecc. Giornale storico , XXI, fasc. 61 . 9 130 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA << di pittori gelosi dei loro privilegi e dei loro diritti che dell'arte volevano << avere il monopolio e riuscivano a procurarsi titoli di nobiltà, illustri pa- << rentele e patrimoni vistosi »; queste corporazioni, ch'io sappia, non esistevano a Napoli ; quantunque ci fosse come c'è ancora (e c'è dappertutto) quella che da noi si dice camorra, altrove chiesuola, o come altro si voglia. Nè il Rosa ne parla nel brano della satira La Babilonia, che il C. cita subito dopo, dove si accenna solo ai seggi, ossia alle associazioni familiari della nobiltà, ch'erano la base della costituzione politica del regno.. Una breve illustrazione (I , 9) avrebbero meritato le tre famiglie napoletane che il Rosa cita a titolo d'onore, i Cantelmi, i Terracusi (ossia Caracciolo Marchesi di Torrecuso, dei quali a quel tempo fioriva Andrea, che prese parte gloriosa alle svariate fazioni della guerra dei Trent' anni e comandò in capo le truppe spagnuole e italiane in Ispagna), e gli Avalos. . Ed è un po'ingenuo, accettata dal De Dominici la notizia dei quadri dipinti dal Rosa nel suo primo ritorno da Roma a Napoli, soggiungere (I , 13-14) , « che forse <<< ancor si ritrovano in casa de' Mataluni, dei principi d'Avellino, e dei duchi << di Caetano d'Aragona di Laurenzano » , quando è noto che la più parte di queste famiglie sono estinte o decadute. - Una notizia più minuta (I , 15) si sarebbe desiderata del gubbiense poeta Antonio Abati, l'autore delle Frascherie, che fu amico del Rosa nella sua gioventù, e al quale appartiene un curioso ragguaglio inedito (forse del 1640) intorno alla pittura del Rosa che il C. , al solito, ha dovuto aver troppo tardi, perchè nel testo non ne parla, e lo stampa alla fine del secondo volume, dove resta non utilizzato . Tornato a Roma il Rosa nel 1639, il C., ripetendo una enumerazione fatta già da varii biografi antecedenti, parla degli artisti che in quell'anno vi si trovavano ; ossia << della scuola dei fratelli << Caracci, il Domenichino, Guido Reni, l'Albani, il Guercino, il Lanfranco ; << della francese il Poussin, il Vouet e Claudio di Lorena ; della fiamminga, << il Rubens e il Van Dyck » : bel mazzetto di nomi, senza dubbio, ma che in realtà è sparso lungo varii anni di quel periodo. · Circa il famoso anno 1639, famoso nella vita del Rosa per la bizzarra réclame colla quale egli diè principio alla sua celebrità, il C. sta contento a riferire la narrazione del Passeri, come già altri aveva fatto. Tuttavia francava la spesa di citare, almeno in nota , il garbato studio su Salvator Rosa nel personaggio di Formica, pubblicato il 1885 nella Nuova Antologia dal sig. G. Martucci (1) ; e anche l'opera dell'Ademollo (2), che non aggiunge notizie nuove, ma ci rimette nell'ambiente dei divertimenti teatrali romani di quegli anni ; per non dire che, anche in nota, avrei voluto veder ricordata la novella dello Hoffmann su questo tema. Il Rosa faceva il personaggio napoletano di Pascariello Formica, e (come sappiamo dal Lippi) anche l'altro di Coviello Patacca ; e a questo proposito, occorre notare come tanto Pascariello quanto Coviello solessero, ordinariamente, nella commedia d'arte, aver altri cognomi, intitolandosi il primo Pascariello Pettola, e il secondo Coviello Ciavola. (1) Nuova Antologia , 16 ottobre 1885, pp. 641-658 (2a serie, vol . LIII , della Raccolta LXXXIII) . (2) I teatri di Roma, pp. 86-9. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 131 - - Si noti che la partenza del Rosa per la Toscana, la quale, nel testo, è data come accaduta alla fine del 1639 ( I , 24) , deve riportarsi alla fine dell'anno seguente, come il C. stesso avverte nell'appendice (I, 401-403) sulla base di documenti pubblicati da Adolfo Venturi ; uno dei quali occorreva anche riferire, tratto da una lettera dell'ambasciatore estense a Roma del 27 aprile 1641, che dice che il Rosa era « fuggito a Firenze per salvarsi dalle perse- <<< cuzioni dei suoi nemici » ( 1) . Molte notizie dà pel primo il C. della Lucrezia, concubina del Rosa, e ne accerta il vero nome, Lucrezia Paolino del fu Silvestro di Firenze. Del Cunto de li Cunti del Basile, libro prediletto dal Rosa che fu intermediario della conoscenza ed imitazione di esso che appare nel Malmantile del Lippi, il C. , se fosse giunto in tempo a vedere la mia edizione e lo studio premessovi, avrebbe potuto parlare con più esattezza ; ma in ogni caso, gli bastava un semplico sguardo all'opera del Basile, per non dire che « il Basile assimila, fa sangue del suo sangue « l'antica novella di Luigi XI, o di Poggio o di Margherita di Navarra od « altro » (I, 37) ; il che è grave errore, giacchè l'opera del Basile è una collezione di fiabe. · Dal 1649 ( 2) fino alla sua morte il Rosa ebbe stabile dimora in Roma, le faccende sue in questo periodo ci sono minutamente rivelate dal carteggio coi Maffei, che il C. pone a profitto nella biografia. Ma a proposito delle relazioni tra il Rosa e il Ricciardi , sarebbe stata fortuna che il C. avesse conosciuto in tempo la nota edizione del Toci : Rime burlesche edite ed inedite di G. B. Ricciardi (3) ; che gli avrebbe dato modo d'illustrare convenientemente questo amico del Rosa. Intorno alla morte del Rosa il C., come ho già detto , è in grado di aggiungere l'atto di matrimonio e l'atto di morte , tratto dall ' Archivio di S. Andrea delle Fratte in Roma. - -- Precipuo merito del C. è l'aver definitivamente distrutto la leggenda del De Dominici circa la partecipazione del Rosa alla rivoluzione di Masaniello ; ma anche su questo punto occorre fare qualche osservazione. Noto anzitutto due piccole inesattezze : a p. 47 l'espressione : « il pescivendolo d'Amalfi, << Masaniello » , laddove ora è notissimo (la fede di nascita è stata più volte ristampata) che Masaniello era napoletano e d'Amalfi il suo cognome ; è vero che presso Amalfi indicano la casa di Masaniello, ma anche al castello d'If indicano la prigione del conte di Montecristo. E a p. 49 l'affermazione che il De Dominici « pubblicò l'opera sua quando la dominazione spa- << gnuola inferociva peggio di prima » , laddove l'opera del De Dominici fu pubblicata nel 1742 quando la dominazione spagnuola era finita da 35 anni, sotto il paterno governo del buon re Carlo III . Ma principalmente bisogna notare che la leggenda Dedominiciana era caduta già in discredito con tutto il resto dell'opera del falsario ; e circa la famosa Compagnia della morte, composta di pittori e diretta contro gli Spagnuoli, che Salvator Rosa avrebbe (1 ) ADOLFO VENTURI, La R. Galleria Estense in Modena , Modena, Toschi, 1882 , p . 221 . (2) Così , esattamente nella biografia , p. 57 ; ma la lettera relativa ( II , 20) ha , per evidente errore di stampa, la data del febbraio 1648. (3) Con prefazione e note di Ettore Toci , In Livorno , coi tipi di Francesco Vigo, 1881 ; bellissima edizione tipograficamente parlando. Il C. la cita una sola volta , in fine del II vol . ( II , 133) . 132 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA organizzata in Napoli, la notizia decisiva, tratta dai Giornali manoscritti del Fuidoro, che il C. stampa a p. 55, era stata già citata dal Faraglia (1) e riferita poi integralmente dal De Blasiis ( 2) . Apparisce da essa che una Compagnia della morte ci fu, ma era composta di malandrini e diretta contro il Vicerè e gli Spagnuoli , quando la rivoluzione di Masaniello era stata già del tutto sedata, al tempo del conte d'Ognatte ; e per essa furonoeseguite carcerazioni e supplizii in Napoli nell'anno 1651 . Al C. spetta il merito di aver, coll'aiuto dell'inedito carteggio, distrutta definitivamente ogni possibilià di credenza nel racconto del De Dominici. Secondo il quale, infatti, Salvator Rosa, recatosi in Napoli sulla fine del 1646 vi sarebbe restato durante il 1647, laddove « la serie consecutiva e non interrotta << delle sue lettere ai Maffei dimostra ch'ei non si mosse dalla Toscana fino << a tutto il settembre del 1646, e vi si trovava ancora nel gennaio 1647 »; di quest'anno 1647 c'è anche conservata una sua lettera da Firenze colla data del 26 settembre. Del resto, nessuno dei primi biografi del Rosa accenna pur lontanamente alla sua attività di rivoluzionario ; e lo stesso Rosa, alludendo nella satira La Guerra alla rivoluzione di Masaniello , ne discorre col tuono di chi guardava a quei fatti da lontano (3) . Malgrado queste, ed alcune altre osservazioncelle che potrei fare , la biografia del C. contiene, come ho già detto, molte utili cose ; ed è peccato che una certa fretta e l'incompleta informazione bibliografica, cause della maggior parte degli errori notati (la prima si riflette anche nell'esposizione che avrei voluto meglio disposta ed equilibrata) abbiano impedito che questa biografia riuscisse una perfetta e definitiva ricostruzione della vita del Rosa, attinta criticamente da tutte le fonti esistenti. Alla biografia s'accompagna, nel I volume, una nuova edizione delle satire e delle poesie del Rosa. Molte cure il C. ha speso intorno a questo testo ; intendendo a dare (come dice) « o la lezione certamente voluta dall'autore, o << dove manca l'autografo, la lezione più prossima » ( I , 126) . Di quattro satire (la Musica, la Poesia, l'Invidia, la Babilonia) egli ha ritrovato gli autografi esistenti quale a Roma presso gli eredi Rosa, e quale a Napoli. Delle altre due (la Pittura, la Guerra) , mancando gli autografi , si è giovato di un codice Angelico ( n. 2032) che per le altre satire si rivela più prossimo alla lezione di quelli . Della settima satira poi esistono due autografi, l'uno posseduto anche dagli eredi Rosa, e l'altro pervenuto di recente nell'Archivio Municipale di Napoli. Ma con poca esattezza il C. parla ripetutamente di essa come ine- (1) Nell'Archivio storico per le provincie napoletane, an. VIII ( 1883) , p. 286 n. (2) Ivi, IX (1884) , pp. 153-4. (3) Senti come cangiato ha il mio Sebeto • In sistri bellicosi le zampogne, Nè più si volge al mar tranquillo e cheto. • Mira l'alto ardimento, ancorchè inerme ! Quante ingiustizie in un sol giorno opprime Un vile, un scalzo, un pescatore, un verme! (La guerra, vv. 55-57, 64-66). RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 133 dita, e a p. 363, nell'avvertenza ad essa premessa, comincia : « Il testo di << questa satira, ignota fin qui, ecc. »; giacchè egli stesso conosce e cita in una noterella a p. 22, l'edizione che ne dette fin dal 1876 in Napoli l'illustre Filippo Palizzi. Della quale do qui la descrizione, essendo l'opuscolo molto raro, tirato in soli 110 esemplari su bella carta a mano. Numera pagine 63, e ha il seguente titolo : SALVATOR ROSA | ABBOZZI DI POESIE ; e in fine la nota : Napoli 1876 | Cav. De Angelis e figlio tipografi di S. M. il Re d'Italia | Porta Medina alla Pignasecca, 44. L'edizione riproduce appunto l'autografo ora esistente nell'Archivio Municipale e allora di proprietà del Conte Giberto Borromeo di Milano ; e lo riproduce nella sua integrità, riportandone a fronte quasi tutte le varianti . Gli autografi, dunque, e il codice Angelico sono stati presi a fondamento dell'edizione. Nelle note sono relegate le varianti delle due edizioni a stampa, dalle quali derivano tutte le altre : l'edizione colla falsa data di Amsterdam, presso Severo Protomastix (s. a. , ma probabilmente del 1695, come con giusti argomenti sostiene il C.) ( 1 ) e quella del 1781 che fu fatta « su di un << ottimo testo a penna » . Le due satire date sul codice Angelico recano le varianti, talora anche accettate nel testo, di un codice Vaticano (n. 8880). Tale faticoso lavoro è stato compiuto dal C. con molta diligenza, per quanto ho potuto io stesso riscontrare. Ma è facile vedere ch'egli non ha, con questo, risposto veramente all'annunzio del frontespizio d'un'edizione critica delle Satire. Gli autografi e i manoscritti più ad essi prossimi , assunti a fondamento dell'edizione, non c'è nessuna garanzia che ci conservino la lezione definitivamente voluta dall'autore; e forse con troppa sicurezza il C. parla delle varianti e delle aggiunte che si leggono nelle stampe come derivanti, tutt'al più, da una redazione anteriore a quella da lui riprodotta. Perchè anteriore ? Talvolta è forse così : p. e. , l'autografo della satira I mi pare in generale più corretto della stampa, e reca in fine un buon numero di terzine che nella stampa non si trovano . Ma, per contrario , l'autografo della satira l'Invidia, oltre ad esserne in generale la lezione inferiore a quella delle stampe, ha in meno su di queste tre terzine da v. 247 in poi, un'altra terzina vv. 670-2, indispensabile anche per le rime, quattro terzine dopo il verso 946 , e altre sette in fine dopo il verso 996. E queste aggiunte sono talmente rispondenti alla letteraria intemperanza dell'autore che io oserei quasi affermare che la lezione più copiosa dev'essere quella definitivamente voluta da lui. Gli autografi, ancora esistenti e ritrovati dal C. , possono essere certo un validissimo aiuto alla formazione di una edizione critica ; ma per sè stessi non danno quest'edizione. E il sol modo di averla è di lavorare su tutte le varianti degli autografi, dei manoscritti e delle stampe, cercando di stabilire un testo critico delle satire, da valere in mancanza di meglio come definitivo, dando in nota ragione della scelta, e riportando le varianti di maggior (1 ) Cfr. vol. I , 404-5. II NICODEMO nelle sue Addizioni al Toppi , Napoli, 1683, pp. 222-8, reca alcune notizie intorno a Salvator Rosa, e dice : « comechè di esso le composizioni non sieno date < alle stampe , si veggono nientedimeno manoscritte per le mani di molti, e il signor Antonio « Magliabechi dice d'averne diverse ». 134 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA rilievo. Per ora, il testo del C. è ancora qualche cosa di provvisorio, quantunque colla pubblicazione degli autografi e col diligente spoglio delle varianti porga una solida base a chi voglia compir l'opera. Ed è anche provvisorio per l'ortografia, che il C. ha voluto conservare integralmente e conforme all'originale, in tutta la sua barbarie seicentista : scrupolo del quale io non veggo la ragione, trattandosi di un testo dei bassi tempi, quando le particolarità ortografiche sono notissime per tanti documenti e presentano un interesse minimo, ed assolutamente impari alla guerra che fanno agli occhi del lettore. Le satire del Rosa furono ampiamente annotate dal Salvini , e queste note furono per la prima volta pubblicate nell'edizione di Amsterdam (Firenze), 1770. Delle note del Salvini, scegliendo, correggendo, ed aggiungendo, si servì il Carducci nella sua edizione ; e altre scelte, più o meno felici, di note accompagnano le altre edizioni, come quella stampata a Milano dal Sonzogno nel 1879 e curata dal Costèro. Per l'indole della pubblicazione del C., che si dirige agli eruditi, io intendo bene ch'egli non abbia tenuto necessario ristampare le note del Salvini, o rifarle, spiegando le numerosissime allusioni mitologiche, geografiche e storiche, delle quali fa sfoggio il Rosa. Tuttavia, confesso che a me sarebbe sembrata necessaria una qualche illustrazione a quei versi che contengono richiami a fatti e costumi del tempo : fatica ch'è proprio di competenza dell'erudito e che gli annotatori precedenti hanno in gran parte trascurata. Dichiaro il mio pensiero con qualche esempio. Nella satira La poesia, vv. 775-780, si dice: Miserie in ver da piagnere a signozzi ; Ch'al par de' banchi omai de' saltimbanchi, Vanta il pergamo ancora i suoi scatozzi ; dove il Salvini annota : «< cioè ecclesiastici ignoranti » . Ma Scatozza era un tipo napoletano della commedia dell'arte , intorno al quale varie notizie si trovano raccolte nel mio volume su I Teatri di Napoli, come anche in un articoletto di E. Rocco (1 ). Dice un poeta seicentista napoletano , Antonio Muscettola, in una sua epistola : Come veggiam nel Largo del Castello, Con qualche sgualdrinuzza infranciosata , Cantar Scalozza ed atteggiar Coviello. E il Largo del Castello era in Napoli il regno degli istrioni e dei saltimbanchi. Così nella satira III, La Pittura, nell' enumerazione dei soggetti vili e bassi, che molti pittori del suo tempo solevano trattare, vv. 235-246, si dice fra l'altro: Niregnacche, Bracon, Trentapagnotte, ecc.. e fra i varii ignoti, Bracone, che doveva essere una specie di pagliaccio, è (1 ) B. CROCE, I teatri di Napoli, pp. 95, 96, 142 , 779 ; e E. Rocco , nel Giambattista Basile, Arch. di lett. pop. , an. VI ( 1888) , no 8, p. 64. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 135 noto per la menzione che se ne trova nel Cunto de li Cunti del Basile: Vracone che sàuta, e nelle poesie del Cortese e dello Sgruttendio. Ed egualmente, nella stessa satira, vv. 788-9: e non li basta Che faccin la Lucia con la sfessaina ; Lucia non è (come dice un annotatore) « Lucia , martire di Siracusa », ma, come la sfessania, un ballo popolare, che ebbe un tempo molta voga: esso formò soggetto di una bella incisione del Callot, e ne discorrono il Del Tufo, il Cortese, il Basile ecc. ( 1 ) . E questi riscontri di nomi col Basile non sono senza importanza, per ciò che dirò in seguito. La parola chiafeo, che il Rosa usa più d'una volta, come nella satira IV, v. 289 : Ma perchè han de' chiaffei le man trovate (var.: Ciaffei) , il Carducci già sospettò che fosse dialettale. E infatti è buon vocabolo napoletano per sciocco, melenso, usato dal Basile e da altri scrittori. Speciale illustrazione meriterebbero i molti versi dei poeti del suo tempo che il Rosa cita nella satira II . Il C. , molto bene ha ritrovato chi fu colui che dell'amata sua I pidocchi... cantando disse : Sembran fere d'argento in selva d'oro, ossia un poeta D. Narducci, le cui rime si leggono in un ms. casanatense (n. 2121). Il legno santo, espressione che è ricordata nei vv. 265-6 : Fin la croce di Dio fu da taluno Chiamata il legno santo ; forse allude al Bracciolini, che dà principio alla Croce riacquistata : Sento trarmi a cantar del sacro legno Dove il figlio di Dio morte sofferse... e non occorre ricordare che il legno santo (guaiacum officinale) s'adoprava per la cura della sifilide . Notissimi sono i due versi : Sudate o fuochi a preparar metalli (v. 630); Ai bronzi tuoi serve di palla il mondo (v. 636); intorno al primo dei quali , ch'è dell' Achillini, bisogna sapere che si trova anche stampato così (e lo scandalo allora finirebbe) : Ardete, o fuochi, a preparar metalli, E voi, ferri vitali , itene pronti, Ite di Paro a sviscerare i monti Per innalzar colossi al Re dei Galli , ecc. ( 2) . (1) Vedi per tutti una nota alla mia ediz. del Cunto de li Cunti, I, p. 7, n. 18. (2) Così in una stampa del sonetto , su foglio volante, ch'è « fra le carte che appartennero al 136 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Ma di chi sono questi altri versi ? Biada d'eternità, stalla di stelle (v. 276) . Boia che tagli Con la scure dei raggi il collo all'ombre ? ( vv. 278-9) . E chi convertì Nettuno in baccalà, chiamandolo il Dio salato ? (vv. 263-4) . Declamando contro le produzioni sporche ed oscene, il Rosa menziona di Curzio la sordida Morneide (o Moneide) che i comentatori non sanno dirmi che cosa sia. Invece i versi seguenti (764-5) contengono più facili allusioni : Quei che, premendo di Saffone i calli , Scrivono la Vendemmia e la Merdeide ; trattandosi del Vendemmiatore del Tansillo, e dell' opuscolo attribuito a Tommaso Stigliani e che porta questo titolo : La Merdeide Stanze in lode degli stronzi della real villa di Madrid del s. Nicola Bobadilla (in coda alla Marineide e Murtoleide, Spira, 1621) . Soltanto di quel Saffone (che altre varianti leggono saffare, zaffare, zaffate) non comprendo l'allusione. E meritano illustrazione, per la storia del costume, i luoghi delle satire dove si discorre dell'uso delle parole virtù e virtuose applicate al canto e alle cantatrici (I, 100-102), dell'arte del canto delle donne romane (ivi, 103-105), dei castrati, dei quali allora cominciò la voga (ivi, 205-207, 301, 303, ecc.); ovvero nella satira IV, dell'introduzione delle mode francesi (vv. 150-6), dell'uso dei guardinfanti ( ivi, 439-41) , dei nani, necessario compimento allora della famiglia signorile ( ivi , 385-399) ; o, nella satira VI, l'importantissima descrizione satirica della nobiltà napoletana (v. 172 sgg.), che si poteva confrontare , per contrasto , con le Lodi della Nobiltà napoletana, che si trovano in tanti libri del tempo, come nel Forestiere del Capaccio, ecc.; e così molti altri luoghi. Il testo delle altre poesie del Rosa differisce poco da quello dell'edizione del Carducci, salvochè fu ricollazionato col testo di alcune di esse conservato dal Burney e con qualche codice : inoltre, si aggiungono un sonetto inedito (p. 141 ), e un'ode di dubbia autenticità (pp. 138-9). In un'appendice al I volume (pp. 404, 407) si dà un saggio di bibliografia delle poesie del Rosa, abbastanza pieno, al quale tuttavia possono farsi alcune giunterelle, come quella dell'edizione del Rosa ch'è nella Raccolta dei poeti satirici italiani (Torino, 1853, II , 301-489), e l'edizione di Milano, Sonzogno 1879, e, in fine, questa, che non so se sia edizione del testo originale o traduzione tedesca : S. Rosa, Die Dichtkunst, mit einer Biographie des Künstlers, Göttingen, 1785, hg. von Fiorillo. Il secondo volume contiene l'epistolario del Rosa. Del quale, come scrittore di prosa, ossia di lettere famigliari, discorse già la Morgan, che dichia- << cardinale Sforza Pallavicino , ora conservate alla Bibl . Casanatense, X, IV, 42 ». Vedi il So- nettiere italiano , raccolto da M. A. Canini , Sez. V, secentisti , Cent. I e II (solo pubbl. ) , To- rino, Candeletti , 1880, p. 71. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 137 rava che anche in questo aveva superato il suo secolo : « There is a some- << thing English and natural in his manner of expressing himself, which << can only be estimated by those who are acquainted with the wretched << prose-style of that day in Italy, or by comparing his epistolary correspon- << dence with the letters extant of Nicholas Poussin, Lanfranco, Domeni- « chino, etc. » ( 1). E non si può negare che alcunchè di vero sia in questo elogio ; a ogni modo, le lettere del Rosa sono, come abbiamo già osservato, un curioso documento biografico. Solo si potrebbe discutere se francasse davvero la spesa di pubblicarle tutte, bastando (per giusto ossequio verso quella virtù della sobrietà che un erudito deve possedere se vuol essere sopportato) spogliarle accuratamente per la biografia, e dare un saggio delle più notevoli ; e in quest'occasione avrei anche riformata l'ortografia per le avvertenze già fatte. Come si leggono più agevolmente le lettere ripubblicate sull'edizione del Bottari, per le quali i lettori saranno forse, come me, contenti che il C. non ne abbia scovato gli autografi ! Circa l'opera pittorica del Rosa, il C. si restringe a menzionare qua e là, nel corso della biografia, le opere principali ricordate dagli antichi biografi , mettendole spesso in relazione con le notizie contenute nelle lettere ; ma non si può dire che neanche tenti un catalogo critico di esse, e quasi tralascia del tutto la descrizione delle singole opere ch'era stata pur fatta con qualche accuratezza dalla Morgan. Anzi la Morgan stampò in appendice al secondo volume della sua opera (pp. 269-286) un catalogo delle opere del Rosa, « chiefly formed - -essa scri- « veva from the collation of different authorities », il quale « can be << considered only as a groundwork for future inquiry » . Questo catalogo comprendeva una prima lista di 113 pitture, appartenenti tutte, nel 1824, a signori inglesi ; e una seconda lista delle opere esistenti in the continental collections, pubbliche e private, di Pietroburgo, Bruxelles, Parigi, Keil, Düsseldorf, Roma, Firenze, Genova, Napoli, Milano. A queste seguiva un elenco delle acqueforti (etchings) del Rosa e finalmente delle incisioni (engravings) delle sue opere o secondo la sua maniera. Tutto ciò è soltanto un fondamento, come la Morgan stessa riconosceva, per un'ulteriore ricerca : è una prima raccolta di notizie, da sottomettersi a una minuta revisione . Salvator Rosa ebbe scolari ed imitatori, e di alcuni di essi, come del Fidenza, del Magnasco, ecc . , si scambiavano le opere con quelle del Rosa (3) . Un catalogo critico dovrebbe indicare : 1º Le opere che, per documenti e testimonianze antiche, risultano come di Salvator Rosa, e dove ora si trovino. Tali, per esempio, il Tisio, dipinto a Roma nel 1638, ed ora nella Galleria Corsini, la Congiura di Catilina del 1663, ora a Palazzo Pitti (ripetiz. in casa Martelli) ; la grande Battaglia, dipinta nel 1652 per Monsignor Corsini , e che ora è nel Louvre (n. 344) , (1) Op. cit. , II , 161 . (2) Delle acqueforti del Rosa dà anche un catalogo il BARTSCH nella sua opera Le Peintre graveur, riportato nell'edizione della Vita di S. R. del BALDINUCCI, curata dal Gamba, pp. 155-160 . (3) Intorno al primo, cfr. la MORGAN, Op. cit. , II, 153 n.; e intorno al secondo, LANZI, Storia pittorica, Milano, 1831, pp. 390, 479 . 138 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA l'Apparizione dell'ombra di Samuele a Saulle , dipinta nel 1669, che si trova nello stesso museo (n. 343) , la Liberazione dei Ss. Cosma e Damiano, dipinto nel 1669 per la chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini a Roma, dove ancor si vede; il Purgatorio, che ora si trova nella Galleria Brera di Milano ; e così moltissime altre. 2º Le opere delle quali ci resta notizia nei documenti scritti, ma che sono ora perdute o delle quali s'ignora il luogo dove si trovino. Così, a modo d'esempio, l'Umana Fragilità, o il famoso sasso, che pare esistesse a Napoli nel secolo passato. 3º Le opere finalmente, che possono attribuirsi al Rosa: o che sieno firmate col suo nome e monogramma , o che per buone congetture risul- tino sue. Lavoro, senza dubbio, noioso e non facile, ma indispensabile: all'indicazione della singola pittura e alla storia delle sue trasmigrazioni dovrebbe aggiungersi la descrizione di essa (1). Il C. non l'ha compiuto, e, per essere giusti, non pare che abbia avuto neanche l'intenzione di tentarlo. Ma, passando dai lavori puramente preparatorii, alla trattazione propria di ciò che fu Salvator Rosa nella sua vita e nelle sue opere, in questo dobbiamo riporre la principale lacuna del lavoro che esaminiamo. Il capitolo finale della biografia intitolato Salvator Rosa (I , 108-122), sembra povero di contenuto, perfino in confronto alla breve caratteristica del Rosa, che forma l'ultimo paragrafo dello scritto citato del Carducci . Incerto, poco elaborato è il giudizio sul carattere morale del Rosa, che oscilla tra osservazioni come quella a p. 70 che dice : « Siamo schietti : << Salvator Rosa ebbe ingegno meraviglioso, ma non molto cuore ; ebbe << più viva e volubile la fantasia, che diritto e profondo il sentimento. (1 ) Non è qui il luogo, ed io non ho l'agio d'indicare con qualche esattezza i quadri che, nei principali musei d'Europa, si veggono attribuiti al Rosa ; ma solo mi sia permesso di notare alcuni appunti presi dai cataloghi dei musei che m'è capitato di visitare. Al Museo del Louvre, oltre i numeri 343 e 344 già indicati, il no 342 , L'Angelo o Tobia ; e il 345 , Paesaggio. Alla National Gallery di Londra , il no 84, Mercurio e il boscaiuolo , e il no 1206, Paesaggio con figure. Al Prado di Madrid , no 356 , Vista del golfo e città di Salerno ( di dubbia autenticità). Nell'Alte Pinachotek di Monaco, no 1242, Gli uomini di Gedeone che si dissetano, no 1243, Costa rocciosa con un castello , no 1244, Paesaggio . Nel Belvedere di Vienna, lo piano, 3a sala, no 36, S. Guglielmo nel deserto , ni 56-59 , Battaglie ; 7a sala, no 38 , Guerriero che s'appoggia alla spada; pianterreno, 4a sala, no 89, Grande battaglia di cavalleria . Nella Galleria Weber di Amburgo, L'uccisione di Abele (cfr. Arch. stor. dell'arte, 1891 , p. 91 ) . Nel Museo di Lione , collezione Bernard, no 133, Paesaggio ( firmato col monogramma), no 37, Paesaggio (firmato col nome intero) . Tralascio gli appunti da cataloghi di musei italiani ; e solo voglio notare che di molte opere del Rosa , esistenti anni sono nelle collezioni private di Napoli , presso il Santangelo , il marchese di Sitizano, il duca di Casarano, la famiglia Postiglione, il principe d'Angri, il principe del Cassaro , il marchese Cappelli , si trova fatta menzione in Napoli e sue vicinanze (Napoli, 1845), guida pubblicata in occasione del Congresso degli scienziati , vol. II, pp. 324 , 325 , 828, 330, 331 , 332 , 336. Una nota manoscritta all ' esemplare dell ' opera della Morgan , del quale mi servo, avverte: « Lady Morgan , with his usual uncorrectness , omits noticing the magnificent < pictury of S. R. in possession of the Prince Stigliano Colonna ». Nel Museo civico Filangieri , c'è ora, no 1491 , Le Vedette. Sulle opere attribuite al Rosa, che comparvero nell'Esposizione retrospettiva napoletana dell'anno 1876, cfr. C. T. DALBONO, Ritorni sull' arte antica napoletana, Napoli, tip. dei Classici italiani , 1878, pp. 56-60. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 139 << E non egli sicuramente era della stoffa, onde si fanno gli apostoli, i << ribelli e gli eroi », e la conclusione finale, dove, dopo aver lodato con gran calore l'élevatezza morale di Salvatore, il C. dice : « Io credo che pochi << uomini di quel secolo, vivendo, dipingendo e scrivendo, mostrassero tanta << severa onestà d'ideali da meritare di stare accanto al grande e biz- << zarro napoletano » . Ne nota, con altri , l'animo libero che gli fece sempre disdegnare i legami delle corti e i servigi dei principi ; l'affetto vivace verso gli amici non accompagnato da eguale affetto verso i parenti ; la poca carità del natio loco, tanto che Napoli era per lui odioso oggetto della sua memoria; l'indole impetuosa ma non tenace ecc. ecc. - Certo, come ho già notato al principio, la parte più notevole della figura di Salvator Rosa se n'è andata via, da che è stata sfatata la leggenda guerresco-rivoluzionario-patriottica del De Dominici e della Morgan. « I was in- << fluenced in my preference — scrive quest'ultima nella prefazione della sua < opera more by the peculiar character of the man, than the extraor- <« dinary merits of the artist ..... I estimed still more highly the qualities « of the Italian patriot , who , stepping boldly in advance of a degraded << age , stood in the foreground of his times , like one of his own spirited << and graceful figures, when all around him was timid mannerism and gro- << velling subserviency »> !. Il patriotta sta « between Michael Angelo, the patriot artist, and Filicaia, << the poet of Liberty » ! Questa interpretazione storica di Salvator Rosa viene, in certo modo, messa in relazione col contemporaneo movimento liberale italiano, cui la Morgan partecipava. Il che apparisce anche più chiaro in un altro luogo del volume II ( pp. 177-8) : « His political opinions, his << philosophy, his taste, all belong to the present times, as they were << splendid exceptions to the tameness, ignorance, and literary degradation << of those in which he flourished : and did he now live to illustrate Italy « and her troubled dawn of regeneration with his powerful and brilliant << talents it may be presumed that the cause which led him to abandon the << painted galleries of Rome for the murky tower of Masaniello, would still « more have directed his pencil and guided his pen in favour of that << liberty, wich, like a pure and persecuted religion, has been miraculously << preserved by some few warm and zealous worshippers, even in a region <<< where every institute has long been, and still is, armed against its exi- << stence >» (1). Tutto ciò è sfumato ; ma la figura di Salvator Rosa, da parte il suo valore d'artista , è sempre caratteristica e attraente. Attraente dal lato intellettuale, per le svariate attitudini del suo ingegno ; e dal lato morale, per alcune disposizioni d'animo certo non comuni. La sua versatilità meraviglid i contemporanei, ma non è veramente un'apparizione rara specie tra gli artisti, e nei paesi meridionali : egli pittore, egli poeta, egli autore e attore di drammi, egli macchinista e decoratore teatrale, egli compositore di musica ( 1) A questo proposito, e a cagion d'onore, voglio qui ricordare lo scritto giovanile su Salvator Rosa di LUIGI LA VISTA (Memorie e scritti, Firenze , 1863 , pp. 274-281) . 140 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA e suonatore di varii strumenti. Della musica di Salvator Rosa discorse pel primo e ne dette saggi il Burney ; poi la Morgan, che, seguendo il Burney, riprodusse anche due arie, parole e musica di lui ( 1); e sento dire che tra breve ne scriverà un noto maestro napoletano , mettendone in mostra alcune curiose particolarità tecniche. Nessuno penserà a fare di Salvator Rosa un austero seguace di virtù, uno di quegli uomini alla Kant, pei quali la vita è un compito morale. Era una natura ricca ed esuberante, facile agli scatti ed all'entusiasmo ; e questa vivacità ed entusiasmo , questa sua ricchezza, metteva ordinariamente in cose alte e nobili, come provano le sue satire, le sue lettere, e tutta la sua vita. Sui suoi gusti semplici e modesti torna spesso, con espressioni delle quali non si può disconoscere la sincerità : È del mio genio ogni cura e diletto Seguir l'orme dei pochi ; e solo studio Che mi legga in volto il cor ch'ho in petto ( La Bab . , 259-61 ) . La state all'ombra e il pigro verno al foco, Tra modesti disii , l'anno mi vede Pinger per gloria e poetar per gioco ( La Pitt. , 130-2) . E quando il sonno agli occhi miei s'attacca Un dolce oblio, santo Morfeo, mi presta... ( La Mus., 361-2) . Così, scorrendo la sua vita per sentieri tranquilli, senza quelle complicazioni che rendono gli uomini nobili o vili , eroi o malvagi, poteva, con animo puro, guardare alle faccende del mondo, e riscaldarsi d'entusiasmo pel bene, d'indignazione pel male. Contro i principi del suo tempo e i loro vizii e il mal governo inveiva, con efficacia di sentimento che si mostra nella frase: Quel popolo ch'a voi giurò la fede Per le vie seminando ed a migliaia, Mendicando la vita, andar si vede ; E pur gettate l'oro... ( La Mus. , 376-9). Han le gabelle omai sino i postriboli ; E lo spolpato mondo, ancorchè oppresso, Per sollevarsi un po' , sprezza i patiboli ( La Guerra, 73-5) . E in vece d'un castrato ingordo e rio, Tenete un rusignol che nulla chiede, E forse i canti suoi son inni a Dio ! (La Mus. , 373-5) . E sincero è il suo disdegno contro la mollezza, la corruttela, l'oscenità, che a una tempra sana e virile come la sua ripugnavano vivamente. Le sue parole trovavano riscontro nei fatti , perchè Salvator Rosa fu pittore castigato come pochi, e se le sue satire son piene di frasi grossolane e sporche, gli è alla maniera di quei santi e di quei predicatori che non avevano peli sulla lingua: onde non si vede chiara la ragione per la quale furono messe all'Indice. Non voglio negare che a questi sentimenti sinceri si mescolasse qualche (1) Op. cit. , II, 226-7. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 141 cosa di esagerato, di teatrale , la fanfarronade meridionale ; ma l'uomo è una strana mescolanza di verità e di bugia e spesso d'illusione interna ; e la parte dell'esagerazione non distrugge quella della sincerità. Così anche, affettuoso ed esagerato, si mostra nelle sue relazioni con gli amici pei quali le lettere porgono curiose testimonianze : rimprovera un amico, chè , essendo un altro comune amico malato, non ne abbia chiesto notizia, dando prova di poca sollecitudine : « Per amor di Dio, Giulio mio caro, non siate freddo <« in siffatte dimostrazioni d'affetto, a ciò l'amico conosca che la generosità << nel vostro core è sempre viva e ben radicata, e che da voi agli altri v'è << qualche differenza. Basta, è una gran fortuna in un core come il nostro << l'incontrarsi in occasioni di beneficare. Però non mancate di farlo con << mostrarne zelo strasordinario » (1 ) . Ad altri offre continuamente la sua opera, i suoi danari quando ne ha : « In ogni caso, Ricciardi mio, son qui per voi, «< e vi giuro che , mentre avrò un giulio , sarà mezzo vostro : però state << allegro e ridete in faccia alla disgrazia. Adesso ne incachiamo i Cresi e << i Cecili, e tanto basta, essendo in anima e in corpo tutto vostro » (2). Ed allo stesso, per una briga che aveva avuto con lui : « Vedi, Ricciardi : << se la nostra contesa si restringesse in materie letterarie, facilmente ti ce- << derei ; ma trattandosi di volermi tacciare di poco grato e d'uomo d'animo << misurato nella corrispondenza, ti mostrerò sempre i denti , se non per mor- << derti, almeno per difendermi, e mi sarà facilissimo il provarti il contrario, << essendo oggimai bastantemente conosciuto, se non da voi , dal resto di tutto <« il mondo » (3). Come poi si conciliassero la severità della sua morale e l'affetto vivissimo per gli amici con la lunga vita di concubinato da lui mutata in regolare matrimonio solo in punto di morte, e con la durezza di cuore, che mostrò verso i figli, che aveva dalla signora Lucrezia, e che (non dissimile in questo da G. G. Rousseau) mandò quasi tutti ai trovatelli, è difficile dire. Ma del modo in cui discorre di tali cose, e da varii indizii, si può forse sciogliere la contradizione, attribuendo questa parte riprovevole della sua vita e del suo carattere, più che ad altro, a una certa rozzezza di costumi solita a quei tempi e nella vita bohémienne degli artisti. Certo , la stessa sfrontatezza colla quale parla della sua concubina e dei suoi figli, è, fino ad un certo punto, la sua scusa. Di Salvator Rosa come artista, il C. nota (I, 112-117) che preponeva il colore al disegno e ammirava i Veneziani e Paolo Veronese. Nei pittori voleva erudizione e scienza ; non tollerava le nudità e le oscenità. Questi, in breve, i suoi principii di arte. A proposito delle opere, ripete un bel paragone del Lanzi tra Salvator Rosa come paesista, e gli altri due grandi paesisti che vissero in Roma, circa quel tempo, il Lorenese e il Poussin, che erroneamente il C. chiama Nicola, essendo invece il paesista Gaspare (4). (1) Lett. a Giulio Maffei , 24 dic. 1651 (vol . II , 90). (2) Lett. a G. B. Ricciardi, 17 agosto 1652 (II, 97) . (3) Allo stesso , 4 giugno 1664 (II , 123) . (4) Gaspare Doughet , nato a Roma il 1613 , fu detto Poussin dal suo maestro e cognato Ni- cola Poussin. 142 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Ben caratterizzato, del resto, è il fare del Rosa nel paesaggio, come anche quello delle sue battaglie, e dei quadri di figura. Sarebbe stato bene, in una pubblicazione come questa, raccogliere i varii giudizii dati sul Rosa, e tentar la storia della sua fama, movendo dalle pagine ammirative del contemporaneo Antonio Abati (1) . La Morgan riferisce i giudizii di Giosuè Reynolds e del Barone De Non (2). Ma trascura il giudizio del Milizia, al solito molto originale e individuale : « Merita qualche lode « come paesista e una tal lode lo faceva andare in bestia . Egli si credeva << glorioso nel gran genere della storia. E come aveva da esserlo senza aver << voluto mai studiare nè l'antico , nè il moderno, nè la natura ? Egli credeva << saperne più di tutti i maestri suoi antecessori . Tutta la sua scienza era <<< in bizzarie e in capricci . È un barbaro che stupefà colla sua fierezza. << Qualche cosa di agresto domina sempre in qualche parte delle sue opere. << Non aveva altro modello che sè stesso : avanti ad uno specchio si metteva << nelle attitudini che avea da rappresentare. Per dare sveltezza alle sue figure << le faceva gigantesche, e invece di correzione fuoco. Si piccava della mag- « gior prestezza fino a fare un quadro in un giorno ; e allora ne giubilava ; << e allora doveva rattristarsi se avesse avuto il senso comune. Bisbetico in << pittura, del pari bisbetico nella sua condotta civile ..... » (3) . Temperato ed esatto quello del Lanzi, che istituisce un paragone tra il Rosa, Claudio e il Poussin : il primo dei quali « ammirò la natura in con- << vulsione e nell'aspetto più terribile » , il secondo « la ritrasse ridente », e il Poussin << pomposa » . « Scolar dello Spagnoletto e nipote, per così dire, del « Caravaggio, come nelle grandi storie imitò il fosco e il naturale del capo- << scuola, così nei paesi par che si facesse una massima di ritrarli per lo << più senza scelta o piuttosto di scerre in essi il men vago ». Segue una vivace descrizione del genere dei paesaggi del Rosa. « Simil gusto a propor- << zione conserva nelle marine. E tuttavia il suo stile affatto nuovo è gradito << per la sua stessa orridezza, non altramente di quel che piaccia al palato << l'austero nei vini . Nè poco contribuiscono farlo accetto le piccole figu- - << rine de' pastori, de'marinai , e quei soldati specialmente, ch'egli ha inseriti << quasichè in tutti i paesi ; criticato già dai suoi emoli, perchè ripeteva con- << tinuamente le stesse idee, e quasi copiava sè stesso ecc. , ecc. » (4). Dopo essere stato in grande voga nella prima metà del secolo, e specie in Inghilterra, tanto che la sua opera passò in gran parte nelle collezioni inglesi, voga connessa col predominio del romanticismo e aiutata dalla simpatia fantastica che storici e romanzieri avevano aggiunta a quella reale della figura del loro autore negli ultimi tempi la sua fama è andata declinando. Avverso gli si mostra il pontefice massimo della critica d'arte in Inghilterra, il Ruskin, che in varii punti della sua celebre opera Modern Painters, parla delle « caricatury and brutalities of Salvator » , della « bru- << tal ferocity and butchered agony of which the lowest and least palliated (1) Vol. II, 149-155. (2) Op. cit. , II , 157-8. 19 (3) MILIZIA, Dizionario delle belle arti del disegno , Bassano, 1797, II, 160. (4) LANZI, Storia pittorica , ed. cit. , pp. 206-8 ( Libro III, Epoca V) . RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 143 << examples are those battles of Salvator Rosa : which none but a man ba- << seborn, and thief-bred could have conceived without sickening ecc. , ecc. » (1). Lo studio più acuto e completo ch'io conosca dell'arte di Salvator Rosa fu fatto da Antonio Tari in un suo saggio pubblicato la prima volta, non saprei dir quando, ma, credo, tra il 1840 e 1850, e poi raccolto in un volume postumo nel 1886 (2) . Movendo da una giusta determinazione del periodo artistico nel quale visse il Rosa, come quello nel quale, disseccate le fonti di vera ispirazione, la semplicità e la grandiosità, ideali di due scuole rivali, erano entrambe artificiali , egli a queste condizioni di cose riconnette l'arte del Rosa. Dotato di vero genio pittorico, il Rosa << si salvò dal comune naufragio, più per << istintiva aderenza alle immutabili forme del bello, che per alcuna meto- << dica elezione di esso. E' rasentò le sirti dell'errore, e tanto si accostò a << quello stile ricercato aculeato in certa guisa, che dipoi prevalse tra noi, << che, potrebbesi asserire, nelle sue opere più apparentemente irreprensibili , << scorgesi già l'embrione del Giordano, siccome un secolo innanzi , sotto alla << tuberosità dei concetti del Tasso, scorgesi a vegetare il fungo del Marino ». Ebbe incompleta educazione artistica, al che è da attribuire « la poca cor- << rettezza dei nudi, la pallidezza delle carnagioni , stategli sempre rimpro- << verate ; in una parola, la sproporzione perenne che fu in lui tra la gran- << dezza delle idee e l'impacciata esecuzione » . Meno apprezzati di quanto meritano sono i quadri storici, dove i pochi difetti tecnici sono largamente ricomprati dalla rappresentazione viva dell'azione storica. Tuttavia il Rosa è principalmente il pittore delle battaglie, delle marine e dei paesi . Paesista, non dipinse vedute, come i paesisti ordinarii : il Rosa « esce dalla comune << schiera, sol quando non copia le apparenze, ma divina l'anima della na- <« tura: simile a quel giovane greco che ritraeva la sua bella assai meglio << de' suoi rivali , solo perchè ritraevala innamorata, siccome eragli incontrato << di vederla » . Introdusse la figura nel paesaggio, non già subordinando la prima al secondo o viceversa ; ma unificando le due rappresentazioni : << col- << locando il centro dell'interesse fuori del quadro in un'idea che in sè rac- << colga i rapporti dell'universo con l'uomo, e di questo con quello : dell'a- <<< zione con la scena dell'azione, e viceversa ; e sia come una diagonale <<< artistica in cui si risolvano due moti diversi ed eguali » . Rifà, con molta penetrazione, il paragone tra la maniera del Rosa, come paesista, e di Claudio di Lorena; e dà una giusta spiegazione psicologica della monotonia di argomenti, della quale il Rosa soleva essere accusato, rispetto alla varietà scenografica del Lorenese, gran raccoglitore ed espositore di cose belle. Ma lo studio del Tari, degno del filosofo che lo dettava, non basta a soddisfare il desiderio di un lavoro fondamentale sull'arte di Salvatore. E troppo brevi e incidentali, quantunque fatti con sicura mano, sono gli accenni critici che si leggono nel Cicerone del Burchkardt ( 3) . In generale, l'arte ita- (1) J. RUSKIN, Modern painters , 4a ediz. , Londra , 1891 , vol. II , P. I, pp. 112-3, 208, 327 ; P. II , p. 91. (2) Saggi di critica di ANTONIO TARI, Trani, Vecchi, 1886, pp. 483-507. (3) Le Cicerone, Guide de l'art antique et de l'art moderne en Italie. Vedi la trad . francese, 144 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA liana della decadenza non è un soggetto prediletto degli studiosi moderni, e intorno alla storia di essa, nel suo complesso, la migliore trattazione resta sempre quella del Lanzi ; senza parlare delle poche ma succose pagine del l'opera ora citata del Burchkardt (1 ) . Bisognerebbe studiar con accuratezza le derivazioni dell'arte del Rosa ; la genesi del paesaggio moderno, che cominciato nella scuola bolognese , si svolse nell'ambiente artistico romano della prima metà del seicento , in modo quasi del tutto indipendente dal contemporaneo svolgersi dello stesso genere nella pittura olandese ; la connessione dell'arte del Rosa con quella dei suoi contemporanei coi quali aveva qualche affinità, come il Tempesta, pittor di marine, e Michelangelo delle Battaglie e il Borgognone ; ciò ch'egli ebbe di propriamente originale ed individuale ; l'efficacia sua sulla pittura seguente ; i suoi scolari quali il figliuolo Augusto, il Montanini, il Torregiani, i suoi imitatori quali Giovanni Grisolfi, Alessandro Magnasco, e l'inglese Cook, fin, giù giù, al cavalier Fidenza, che fu quegli che più davvicino imitò il Rosa nelle buone, come nelle cattive qualità. E ne verrebbe fuori un bel libro , che io mi piaccio d'immaginare accompagnato da una serie di quelle esatte ed abili riproduzioni di opere d'arte in fotoincisione ed eliotipia, che i mezzi tecnici odierni permettono. Nè contenta la rapida trattazione ( pp. 118-121) che il C. consacra al Rosa, poeta. Le satire sono state, su per giù, sin dal seicento, giudicate da tutti allo stesso modo, e con sufficiente esattezza. Severo giudizio ne riferisce il Quadrio: << sono sei (satire) ma di lega inferiore a molte altre ; non pure << perchè lor mancano molte bellezze interiori , ma perchè ancor di lingua << e stile son barbare ..... Bisogna anche avvertire che la citata edizione di << dette satire è dalla Chiesa vietata » (2) . Ma, da parte questo giudizio unilaterale, ciò che ne dissero lo Sforza Pallavicino e il Baldinucci confronta, su per giù, con quel che ne dissero, in miglior stile , ai tempi nostri, il Giusti ed il Carducci. E il C. non aggiunge nulla a questo giudizio comune, e, ripeto, esatto. Egli non ha stimato che fosse « il caso di fare un'analisi particolareg- << giata delle satire di Salvator Rosa » (p. 119); ed era, invece, appunto quello che ci voleva, per uscire finalmente dalle generali . Circa i modelli che il Rosa potè aver coll'occhio, il C. afferma : « La << satira di Salvator Rosa procede direttamente da quella dell'Ariosto , vale << a dire, ch'è fatta sul modello latino principalmente d'Orazio » . Ma, lasciando stare l'Ariosto che non c'entra, io affermerei più volentieri colla Morgan : « With more of Juvenal than Horace (though he imitated both) << in the character of his genius, he occasionally displays, with the strength << of the former, too much of his coarseness » (3). Del resto, queste imitazioni lontane e generiche della satira italiana dalla latina, sono cosa molto ovvia, da non fermarcisi troppo su. testè pubblicata, del secondo volume ( Art moderne) , Paris , Firmin Didot , 1892. Cfr. pp. 790, 798, 603, 817, 819, 820, 324. ( 1) Cfr. pp. 779 sgg. , La peinture moderne. (2) QUADRIO, Storia e ragione d'ogni poesia, t. II , P. I, pp. 547-8. (8) Op. cit. , II, 169. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 145 Maggiore interesse avrebbe avuto un confronto delle satire del Rosa con quelle degli altri satirici contemporanei o di poco posteriori, quali l'Abati, il Soldani, il Menzini, l'Adimari. Ma di grande utilità sarebbe riuscito un confronto colle quattro satire napoletane o egloghe, contenute nel Cunto de li cunti, e colle Muse napoletane, del Basile. Sappiamo già che il Rosa predilegeva queste opere del Basile, e abbiamo visto come varii nomi di persone e di cose, accennate in quest'ultimo, sieno ripetute nelle satire. Ma, qua e là, si sorprende addirittura l'imitazione di alcuni luoghi del Basile . Così, per esempio, la descrizione dei poeti che fa il Rosa (La Poesia, vv. 289-312): Che per parer filosofi e saputi, Se ne van per le strade unti e bisunti, Stracciati, sciatti, sudici e barbuti, ecc. ecc. ricorda quella del Basile, nell'egloga La Coppella : Va comme a spiretato, Stentato e nsallanuto Pensanno a li conciette, Che mpasta nfantasia, E va parlanno sulo pe la via, Trovanno vuce nove, a mille a mille: Torreggianti pupille, Liquido sormontar di fiori e fronde, Funebri e stridule onde, Animati piropi Di lubrica speranza; O che dismisurata oltracotansa ! La descrizione del Basile finisce : Dà le fatiche soje A chi mai le dà zubba ; Cossì la vita sfragne : Canta pe gloria e pe miseria chiagne (1) . E il Rosa, vv. 109-114 : Superate la fama, e poi l'oblio, Che voi non manderete il grano a frangere Se non prendete Cerere per Clio. Il vostro stato è troppo da compiangere, Mentre vi mira ognun, cigni dispersi , Cantar per gloria e per miseria piangere. Qualche colore toglie anche dall'egloga del Basile, per la vigorosa descrizione del mercenario, che fa nella satira La Guerra, vv. 202-210: Par che andando a pugnar vada in cuccagna, Con paludati arnesi e fogge vaghe, Sicario de la Francia e de la Spagna! Sol per portarne poi mercè di piaghe, Corre cieco a sborzar senza cagione Contante il sangue a credito di paghe. (1) Cfr. la mia ediz. , I , 164. Giornale storico, XXI , fasc. 61 . 10 146 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA E il Basile avea descritto allo stesso modo l'allegria di chi va ad arrolarsi soldato di ventura: E più in là : Se veste a la Iodeca, Se mette la scioscella, E te pare na mula de percaccio, Co lo pennacchio e lo passacavallo ! Si n'amico le dice : « Adove jammo? », Responne allegramento, Nè tocca pede nterra : « A la guerra, a la guerra ! » L'è sempre lo pericolo a li shianche, E lo premio da rasso; Le ferite ncontante, E le paghe ncredenza ecc. ( 1) . Ma l'efficacia del Basile sul Rosa non si restringe a questi pochi riscontri e a quegli altri che si potrebbero ancora notare ; ed investe tutta la concezione e lo stile delle satire. E la loquacità, la passione per la sinonimia, il dire e ridire una stessa cosa in cento guise, quella maniera di predica morale che si tien sempre sulle generali , non so fino a qual punto vengano a Salvator Rosa dal suo temperamento, e fino a qual punto dalla lettura e dalla famigliarità colle opere del Basile. - — - - - Delle satire del Rosa, la prima tratta della Musica ; ed eccone la contenenza : Il mondo è pieno d'asini (vv. 1-36) Questi asini sono i musici, che pure tutti ricercano (37-57) Non s'intende biasimare la musica come arte, della quale si ricordano i fasti antichi e gloriosi (58-81) · Ma la musica odierna è solo arte di corruzione (82-132) Viltà dei musici e loro oscenità (133-162) Favori che loro accordano indegnamente i principi (166-183) Musici che profanano i sacri tempii colle loro voci (184-237) . Superbia dei musici ( 238-285) - I castrati (286-309) · Si lodano quei principi e popoli che scacciarono i musici dagli stati (310-351) — Si esortano i principi a svegliarsi ad alte azioni (352-408) Cosa ben più degna di essi che non il culto della lasciva musica. Discorso di Antigono ad Alessandro (409-585) - Applicazione del rimprovero ai principi del suo tempo ; Nerone corrotto dalla musica (586-648) Applicazione dell'esempio di Nerone. Corruttela dei suoi tempi. E ci vogliono rimedii, non musica (649-785). - ― - - - La seconda, si volge alla Poesia ; e comincia col parafrasare Giovenale intorno ai poeti del suo tempo (vv. 1-21) — Così l'autore è mosso dalle colpe dei poeti del suo (22-51) Colpe morali e letterarie : adulazioni, lascivie ; iperboli, ampollosità (52-84) La poesia non dà pane : miseria dei poeti. Favola del corvo e della volpe (85-249) - Metafore ridicole ed esagerazioni dei poeti (250-279) -Descrizione del poeta, che, con l'apparenza di pensare ·- - a gran cose, finisce col produrre scioccherie (280-315) - Soggetti vili e meschini da essi cantati ; nomi strani che assumono (316-342) Se la virtù è sbandita dalle regge, anche i poeti hanno avvilita la poesia (343-384) ·- (1) Cfr. la mia ediz. , I , 144, 145. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 147 - - - Lodi riscosse da poeti sciocchi (385-405) - Plagi dei poeti (406-462) - Lodi ingiuste di poeti antichi : Dante, Burchiello, Iacopone ; e pedanteria boccaccesca e petrarchesca (463-501) Pretesti che soglion addurre i poeti nel mandare alle stampe le loro opere, e titoli che mettono in fronte ai loro libri. Accompagnamenti di versi laudatorii (502-519) Professori ignoranti (520-555) - Dediche ed adulazioni (556,660) — Indicazioni di alti argomenti cui i poeti dovrebbero rivolgersi (661-735) Essi trattano, per contrario , soggetti lascivi ed osceni (736-783) Vana scusa che la loro vita sia casta e solo la poesia lasciva. Aneddoto del trombetta. Corruttela mossa dai poeti (784-831) Scopo vero della poesia. Cose empie scritte da poeti (832-867) Esortazione ai poeti (868-934). - - - - - - - D'allora La terza è la Pittura. - Stava per scrivere contro i vizii del tempo, quando gli comparve innanzi un fantasma in figura di donna (vv. 1-33) Descri. zione di esso (34-66) Quella donna lo esorta a lasciar da parte i vizii generali, e parlare invece dell'arte sua, della pittura (67-114) in poi, desiderio irrefrenabile di parlare dei pittori : sua vita : è spassionato e sincero (115-141 ) - Gran numero di pittori ( 142-153) Ma pochi che non sieno ignoranti (154-210) . Pittori in Roma : enorme quantità di quadri che producono varii gruppi di pittori: pittori di bestie, pittori di soggetti tenui e vili, prediletti dai principi e signori. - I principi col loro mal governo hanno ridotto il mondo alla povertà, ed è giusto che la pittura ritragga pezzenti ( 211-306) —I pittori peggiorano quando cominciano a venire in credito : non studiano più : inferiorità verso gli antichi : donne antiche anche pittrici e donne moderne (207-351) . Superbia dei pittori. Aneddoto di Cimabue, di Michelangelo e del suo Giudizio. Tratti superbi di pittori antichi. Titoli e croci dei pittori del suo tempo (352-453) Vita turpe di scultori, raccontata da una bertuccia che si mise all'arte presso un pittore. - Loro sporcizie, loro vizii , l'invidia, truffe ed inganni , loro libidini (454-681) - Pitture lascive ; finanche nei soggetti sacri ( 682-825) — Loro poca osservanza religiosa (826-843) — Conclusione : odioso il mestiere del critico; perciò fa punto (844-865) . - - Le tre satire seguenti, 4 , 5ª e 6ª, sono in dialogo. La satira quarta la Guerra, è tra l'Autore e Timone, che il primo évoca a mirare, i vizii del secolo. Il titolo, messo alla satira è improprio, perchè essa contiene una dipintura generale dei vizii più svariati, e solo in piccola parte ( vv. 178-372) tratta dei mali della guerra. La satira quinta, fra l'Autore e l'Invidia, che appare a lui in sogno, e lo respinge dal tempio dell'immortalità alla cui soglia s'era fermato. Comincia il dialogo con una interrogazione dell'autore e una descrizione che l'Invidia fa di sè stessa « tratta da vari Autori » (1). La parte sostanziale della satira è la difesa del Rosa e delle sue opere (1) Così una postilla in margine dell' autografo. Si noti a questo proposito , che la postilla al v. 160, Alesandro ab Alendro , è letta male, essendo facile correggere Alessandro ab Alexandro. 148 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA contro gli assalti degli invidiosi. La satira contiene un'esposizione ampia e violenta dei danni che produce l'Invidia (1) . La satira sesta, la Babilonia, tra Tirreno ed Ergasto, il primo dei quali rappresenta l'autore, che lamenta l'avversità della fortuna ; e racconta la sua vita disgraziata, specie i suoi primi anni in Partenope. Ergasto è invece nato in Babelle (Roma), dove ora anche l'altro dimora. Segue una lunga declamazione contro i vizii di Roma. - La satira settima, che non fu stampata se non ai tempi nostri, doveva servire come di conclusione alle altre sei. L'autore, conservando il nome di Tirreno, del quale s'era servito nella precedente, « si duole con sè medesimo « I dice egli stesso nel sommarietto del poco frutto cavato dalle sue < tanto invettive contro de' vizzi. Esagera l'impossibilità dell'impresa me- << diante l'ostinazione dei malfattori ; e, fastedito, risolve abandonare affatto << il mestiere dello scrivere come cosa inutile e pericolosa, di darsi in tutto << e per tutto in braccio de la quiete lontano da le Cità e dagl'huomini ». Chi si reca innanzi questo contenuto delle sette satire (che ho riassunto più largamente per le tre prime speciali, e rapidamente per le altre d'indole più generale) non lo trova certo di molto notevole per originalità d'idee e di argomenti: sono prediche morali e, insomma, luoghi comuni. Salvo qua e là, dove l'autore parla di sè stesso, o del suo mestiere, come nel bollare vivamente i pittori che presceglievano soggetti vili , o anche nella descrizione dell' oppressione del popolo, che rese necessaria la rivoluzione napoletana. La poca determinatezza dei concetti si tradisce anche in certi luoghi caratteristici ; così nella satira della Poesia (vv. 52-54): No, che tacer non vo ! Ma poi , dubbioso Donde io muova il parlar, rimango in forse : Tanto ho da dir, che incominciar non oso ; ed al lettore fa proprio questa impressione ch'egli non sappia donde cominciare. Confuso, disordinato, illogico, salta da una cosa a un'altra diversissima , dice e ridice ; il suo pensiero è poco formato ed elaborato. Quello che non gli manca mai è la foga, la violenza, la loquacità, proprie della sua natura. Il miglior comento alle satire è quel passo del Baldinucci che ci descrive Salvator Rosa in atto di recitarle. Par di sentire la sua voce levata e vedere il suo gesticolare vivace in certe terzine che quasi non si possono leggere con tuono calmo : Per Dio, poeti, io vo' sonare a festa ! Me non lusinga ambizion di gloria ; Violenza moral mi sprona e desta ! Lo spirito sboccato e grossolano e molto napoletano, di certe altre, era di quello pel quale egli, volgendosi agli spettatori, esclamava: Siente chesso, (1) Satira insieme e apologia bizzarra Sarà quest'opra ... Questi versi con altri mancano nell'autografo. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 149 vi ; auza l'uocchie! Cosi dove parla della corte e del favore che godevano i musici : Ma mi par troppo gran contradizione Ch'abbia sorte con lei solo il castrato, S'ha fortuna con lei solo il c ....... (La Mus. , 346-8); ovvero, poco diversamente, vv. 625-7. Così l'apostrofe contro il critico cru- scante del Tasso: Se Infarinato sei, vatti a far friggere ! (La Poesia, 399). Così, anche a proposito dei cruscanti : E mentre vanno di parole in busca, I toscani mugnai legislatori Li trattano da porci con la crusca ! (La Poesia , 490-2) . E come si sente il compatriota e l'ammiratore del Basile in quelle lunghe filze di terzine, nelle quali uno stesso concetto è voltato e rivoltato in sempre nuovi modi ! Discorrendo, per esempio, dei pittori, che espongono i ritratti delle proprie mogli, egli dice : Quel della moglie sua forma il ritratto, E le di lei bellezze orna ed addobba : Così due mercanzie spaccia ad un tratto . Chè, se il quadro non è da guardarobba, Almen palesa che, per farsi amici , Se non ha buon pennello, ha buona robba. Oh! questi può vantar gli astri felici , Chè , spesso, per ornare un quadro solo , Fabbricate a lui son cento cornici ! Poichè è ben noto allo scaltrito stuolo, Che chi la copia fuor d'esporre ha in uso , Vuol dir che dà l'originale a nolo ecc. (La Pitt. , 739-50). Il Tari, nel suo scritto già citato, porta un severo giudizio delle satire : « Di < proposito non ci parve di occuparci delle rime e massime delle satire. << Esse non sono, da qualche bel luogo in fuora, che una compagine d'epi- << grammi nullamente poetici per sè, nè renduti tali da effusioni , come la << satira, pochissimo poetiche » . E soggiunge col suo solito linguaggio pieno di fraseologia filosofica, e al tempo stesso, immaginoso : « In somma, am- << messo anche che un sol uomo possa, con uguale successo attendere a due << diverse imitazioni a una volta, e, con una specie di bigamia artistica, ba- << stare alla fruizione di due muse, il che a noi sembra in verità a conce- << pire difficile ; pure, dicevamo, se ciò fosse possibile, e si potesse essere << vero pittore e vero poeta a un tempo, Salvator Rosa non fu quell'uno » (1 ) . Ma nella sua severità è anche giusto : solo che si aggiunga che i bei luoghi non son davvero pochi, e che le satire del Rosa, paragonate con quelle dei contemporanei, hanno doti pregevolissime di vivacità e di freschezza : e se non poesia grande e schietta, sono certo prodotto di un ingegno e di un'indole fuori dell'ordinario. (1) Saggi di critica , pp. 506-7 . 150 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Le altre poche poesie possono confrontarsi con quelle del Ricciardi, del Redi, e in generale del gruppo dei poeti seicentisti toscani. Colpisce, per la efficacia e la sobrietà del tocco, pel metro adattissimo, quella dov'è descritta una strega che si mette all'opera dei suoi incanti. Il Lamento è pieno di sveltezza e di grazia, e ha versi di un movimento tutto moderno : Credete al vostro Rosa, Che senza versi e quadri il mondo è bello ; E la più sana cosa, In questi tempi, è ' l non aver cervello . Le parafrasi di Giobbe, che appartengono a un genere di moralizzazioni allora in voga, han pure qua e là dei brani che mostrano la mano non volgare dell'artista : Che importa al ciel che buono o rio tu sia? Tanto è per te che per altrui tonante. Glinni de l'elefante Cinzia, e del cane ode il latrar molesto ; Nè da quel nè da questo Non si stima onorata e non s'offende ; Ed egualmente, ad, ambedue risplende. Tornando all'opera del C., e concludendo, dirò che il libro rappresenta senza dubbio una somma notevole di lavoro speso all'illustrazione della vita e delle opere di Salvator Rosa : è pieno di documenti e notizie importanti, e in molte parti la trattazione è ben riuscita. Ma vi si desiderano un miglior metodo, un senso più vivo delle quistioni che importano allo studioso, una preparazione più larga, e una ricerca più esauriente (1 ) . Causa di questi difetti è forse la fretta, della quale si scorgono molte tracce nel corso dell'opera anche nella forma dell'esposizione, non in tutto degna di un artista quale il C. Ma i difetti che siamo venuti notando, non debbono impedirci di tributare sinceramente al C. le lodi che merita per quello che ha fatto, che non è poco (2). BENEDETTO CROCE. (1) A proposito della preparazione , confesso che in un'opera di erudito, e diretta ad eruditi , mi sanno male alcune frasi che tradiscono una cognizione incompleta e occasionale delle condizioni generali di quel tempo. Così a p. 111 , quando vien nominato il cardinale Sforza Pallavicino, è curiosa la qualifica che il C. crede di doverne dare : « lodato , come buono , se non perfetto << scrittore di prosa, anche da Pietro Giordani ». Così a p. 404, la domanda : « Chi fu quel Set- << tano a cui le satire del Rosa sono dedicate in tutte le edizioni ? Fu monsignor Ludovico Ser- ◄ gardi » ecc. , è quasi una scortesia verso i lettori , che debbono sapere benissimo che il Settano non è un ignoto, un poetucolo che si scovra e citi per la prima volta. Così a p. 108 il C. sente il bisogno di dire di Cristina di Svezia: • quella Cristina di Svezia, la cui conversione diede ori- « gine a più d'una diceria scandalosa su 'l conto suo ecc. (2) Aggiungo ora in fine di questa recensione la notizia dei due articoli del RENIER sul Rosa, a proposito della pubblicazione del C. , nella Gazzetta letteraria , an. XVI , ni 49-50 , 3 e 10 dicembre 1892, contenenti molte osservazioni critiche sul carattere, l'arte e la poesia del Rosa. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO EGIDIO GORRA. Studi di critica letteraria. - Bologna , N. Zanichelli, 1892 (8° picc., pp. IV- 466). Anni sono questo Giornale ( XII, 470-71 ) ebbe occasione di tributare l'encomio meritato al largo studio che il Gorra consacrò alla ristampa dei sonetti italiani del Fiore inserita nel III vol. dell'Inventario dei mss. ital. delle biblioteche di Francia edito dal Mazzatinti . L'ottima conoscenza che egli vi palesava del Roman de la Rose gli servì egregiamente a mettere insieme i due primi lavori del presente volume. Il secondo dei quali, intitolato Di alcune propaggini del Romanzo della Rosa, ha per iscopo di mostrare quale influsso larghissimo esercitasse quel famoso poema allegoricosatirico su tutto il pensiero letterario francese del secolo XV. Il G. esamina i temi principali trattati in quella letteratura, che tutti si lasciano richiamare al Roman de la Rose, quali : 1 ° il biasimo e la difesa delle donne ; 2º la dea Fortuna e donna Ragione; 3° la corte d'Amore, con le rappresentazioni analoghe dei paradisi, dei purgatorî, degli ospedali, dei cimiteri degli amanti. Si trattiene in fine l'A. su tre poemetti anonimi, che narrano le avventure di amanti banditi dalla corte d'Amore. Sono tutti tre inediti, e di uno, che si conserva nel ms. L. V. 63 della Nazionale di Torino, è promessa qui un'edizione. Lo studio è un gran repertorio di notizie, poco più d'un catalogo d'opere saggiamente classificate, sulle quali avrebbe da scrivere un grosso volume chi intendesse studiarle minutamente. Il soggetto, d'altronde, non è di letteratura italiana, onde ci terremo paghi a questo cenno. Il primo scritto del volume si collega esso pure col Roman de la Rose per più d'un rispetto ; ma ha maggiore attinenza con gli studî nostri, perchè si riferisce ad un romanzo medievale, scritto da un principe di Piemonte in francese, Il cavaliere errante di Tommaso III di Saluzzo. Nato poco dopo la metà del XIV sec. , Tommaso morì nel 1416 ; è verosimile ch' ei componesse l'opera sua in Francia, dove fu più d'una volta. Non è quindi del tutto vero quanto il G. osserva (p. 5), che quest'opera sia « documento della << lingua che si usava nelle corti di Piemonte nel secolo XIV, e docu- << mento della loro coltura, la quale era interamente francese » . Senza dubbio se v' ha parte del Piemonte in cui la cultura francese massimamente prevalesse, essa è la marca di Saluzzo ; ma non è da disconoscere che anche ..... 152 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO là ben presto si fece strada l'uso dell'italiano ( 1) . Se poi dalla corte Saluzzese leviamo lo sguardo per rivolgerlo alle altre subalpine, specie a quella di Monferrato, l'asserzione del G. ci sembrerà ancora più esagerata. Comunque sia, il romanzo di Tommaso è redatto in francese e si conserva in due mss. , l'uno della Nazionale di Parigi, l'altro della Nazionale di Torino. Erano noti entrambi ; ma nessuno sinora li aveva studiati comparativamente. Il risultato che da tale studio ricavò il G. fu che il testo di Parigi è più ampio, ma l'ampiezza è dovuta ad interpolazioni, sicchè il cod. di Torino ci presenta l'opera nel suo assetto primitivo e genuino. Tra i brani interpolati nel cod. Parigino v'è anche la storia di Griselda, non dedotta direttamente dal Boccaccio, ma dalla versione latina che della novella boccaccesca fece il Petrarca (2). Altre due novelle tradizionali sono pure inserite in quel centone, e presentano particolarità notevoli per la storia della novellistica : quella dell'aquila d'oro, nella quale si nasconde un amante per potersi trovare con la sua amata, che il G. stampa integralmente in fondo al volume (pp. 391 sgg. ) e studia altrove (pp. 317 sgg. ), e quella della dama e dei tre pappagalli , edita dal G. nella Romania, XXI, 71 sgg. con alcune illustrazioni, che sono ribadite nel volume presente (pp. 104 sgg.) . La lunga opera, del resto, frutto di letture estesissime, si può dividere in quattro parti : l'introduzione, la corte d'Amore, il regno di Fortuna, la dimora di Conoscenza. Gli elementi svariati di cui risulta vi sono accostati con stucchevole prolissità, più a sfoggio di dottrina che con un disegno ben chiaro e corretto ; ma non pochi di essi hanno il vantaggio di rimontare a fonti a noi ignote, ovvero a redazioni perdute di opere note, onde lo studio ne riesce profittevole. Senza trattenersi sulla parte storica del libro, che fu considerata, quantunque non compiutamente, da altri , il Gorra si propose d'indagarne le fonti nell'abbondantissima parte leggendaria, ed eseguì il suo disegno con grande accuratezza e buona preparazione. Le sue cognizioni larghe nella letteratura francese del medioevo gli permettono molti avvicinamenti e riscontri utilissimi. Nella introduzione ed in più luoghi del romanzo è spiccatissima l'imitazione del Roman de la Rose, mentre il procedimento dell'azione arieggia a quello dei racconti brettoni. La corte d'Amore non somiglia a nessuna delle molte narrazioni congeneri a noi note : le si avvicina solo la Court d'Amours di Mahius le Poriiers, poema allegorico ancora inedito, che il G. promette di dare in luce. Rispetto all'ingegnoso episodio del regno della Fortuna, in cui spesseggiano gli accenni satirici a personaggi contemporanei all'autore, nota il G. i molti riscontri che quel tema trova nella letteratura francese del medioevo, e si trattiene specialmente sull'oscuro Roman de Fauvel e su d'un lungo poema francese intorno alla Fortuna, che è ms. nella Nazionale di Parigi. Difficile lo stabilire d'onde Tommaso abbia attinto (1) Vedi le prove che ne adduce V. PROMIS, nella 2ª ediz . del Dante col commento di Talice, Milano, Hoepli, 1888, I, XLVII 8gg. (2) È noto come la elaborazione petrarchesca della leggenda avesse ancor più fortuna dello stesso testo italiano. Vedi WESTENHOLZ, Die Griseldis- Sage , Heidelberg , 1888 e questo Giorn., XI, 268. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 153 l'episodio della Dame Cognoissance, il cui contenuto è più specialmente morale. Tuttavia il G. ferma la sua attenzione su alcune opere francesi, che gli sembra presentino maggiori simiglianze, ed alle quali il principe Saluzzese può esser ricorso per l'una o per l'altra parte dell'episodio. Più agevole è il determinare a quali sorgenti rimontino le molte storie di eroi dell'antichità classica o del medioevo che sono inserite nell'opera. Il G. le divide a seconda dei cicli e ne indaga la genesi. Allo studio sul Cavaliere errante non la cede certo per importanza quello sul Pecorone, che occupa buona parte del volume ed ha valore veramente capitale per i cultori della letteratura italiana. Nella oscura ed intricata questione dell'autore di quell'opera il G. non comunica risultati nuovi, anzi distrugge quelli passati, cui credevano d'esser giunti egli stesso ed altri. I lettori nostri sanno come il G. avesse il merito di risollevare in queste pagine ( Giorn., XV, 216 sgg. ) la discussione intorno all'autore del Cinquantanovelle, da molti anni sopita, e come allora egli proponesse la candidatura di Giovanni di ser Frosino, bandito da Firenze il 27 agosto 1378. Le obbiezioni che gli furono mosse contro dal Gaspary nella Zeitschr. für rom. Phil. e nella Storia, dall ' Errera ( Giorn. , XVI, 363 sgg. ) e dal Della Giovanna (cfr. Giorn., XVIII, 403), lo hanno scosso nella sua persuasione, onde qui, lungi dal proporre novamente il Frosini, fa valere contro di lui anche un altro argomento, non prima rilevato dai critici. D'accordo col Novati ( Giorn. , XIX, 348 sgg. ) che il celebre sonetto , collocato nelle stampe in testa al Pecorone e nei codici in fine, non sia di ser Giovanni, e d'accordo eziandio con lui nel ritenere che ser Giovanni sia stato detto del Pecorone per motivi diversi dall'essere egli l'autore conosciuto del Cinquantanovelle ; non divide invece l'opinione che quel del Pecorone sia il casato di ser Giovanni e che da esso casato provenisse il titolo del novelliere. Dopo tanto discutere adunque, secondo il G., se ne sa quanto prima, anzi meno di prima : « siamo << riusciti alla mirabile conclusione che dell'autore del Cinquantanovelle << non conosciamo forse neppure il nome! » (p. 186) . Il G. tuttavia ritiene buona l'argomentazione del Volpi ( Giorn. , XIX, 335 sgg.) per cui il proemio che fa da cornice al Pecorone sarebbe autobiografico ed Auretto non altri che l'autore. Raccoglie gli scarsi dati di fatto che sulla sua cultura e sulle sue idee si possono trarre dal novelliere. Sulla cronologia e sulla composizione di esso fa varie osservazioni, alcune delle quali aveva già esposte nel menzionato suo articolo del Giornale. La sua conclusione generale più notevole più ardita è questa : che il Pecorone, quale è giunto a noi, sia opera raffazzonata od interpolata. Probabilmente, scrive egli, l'autore << mori senza pubblicarla e senza darle un titolo : forse anche senza darle << termine, sebbene ne avesse steso il canevaccio ; i copisti si impadronirono << dei materiali da lui raccolti ; qualcuno vi mise le proprie mani, finchè << un capo ameno, riconoscendo nell'ultima parte di essa null'altro che un << plagio, le appiccicò il famoso sonetto, in cui la battezzò con quel nome << che doveva per essa suonare infamia ed attirarle i lazzi e lo scherno dei << contemporanei e dei posteri » (p. 178). In questo volume abbiamo per la prima volta una ricerca compiuta, condotta con metodo, dottrina e discernimento, delle fonti del Pecorone. Il G. 154 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO non si limitò ad accumulare dei riscontri a ciascuna novella, ma cercò di rendersi ragione del valore che hanno i racconti tradizionali di ser Giovanni paragonandoli con quelli analoghi, stabili la loro posizione, fissò la loro derivazione diretta nei rari casi in cui si poteva farlo con sicurezza. La cosa non era agevole, perocchè in parecchie di quelle novelle si trovano amalgamati varî temi tradizionali. Tale amalgama costituisce, si può dire, la speciale originalità del libro e si spiega forse, in qualche caso, con la supposizione che lo scrittore attingesse alla tradizione orale. Da quest'esame il pregio interno del Pecorone esce indubbiamente rialzato. È ben vero, delle 53 novelle 32 sono copiate da G. Villani , due (III , 2 e V, 2) provengono dal Decamerone, altre due da Apuleio ed una da Livio. Ma le altre 16 hanno importanza non esigua per il demopsicologo, giacchè vi si trovano riflessi motivi e leggende largamente diffusi . Sia qui specialmente rilevata la V, 1, che risale ad una redazione ignota del Libro dei Sette Savi, e le IV, 1 (donde lo Shakspeare trasse il Mercante di Venezia) e IX, 1 (leggenda del tesoro di Rampsinite), che il G. vuol richiamate ad una redazione veneta o francoveneta, ora perduta, del Dolopathos. Ingegnosa specialmente è la illustrazione della nov. VI, 1 (pp. 269 sgg.), in cui il G. vede un riflesso della rivalità dottrinaria di Abelardo contro Guglielmo di Campeaux e S. Bernardo, ai quali è sostituito Alain de Lille. Rispetto alla novella di Galgano e Minoccia ( I, 1 ) il G. poteva anche menzionare il rifacimento di Masaccio praticato dal secentista Gianfrancesco Loredano nelle Novelle degli Accademici Incogniti (1) . Piacevole alla lettura è lo scritto con cui questo volume si chiude, Il Reggimento e costume di donna del Barberino ne' suoi rapporti colla letteratura provenzale e francese. Il G. ha qui voluto convalidare con un esame interno del Reggimento i risultati cui giunse il Thomas con lo studio della vita dell'autore e specialmente del commento ai suoi Documenti d'amore. Dell'erudizione speciale del G. su questo soggetto i nostri lettori ebbero già un saggio nelle spigolature da galatei medievali da lui offerte in una recensione di questo Giorn. , XIV, 269. Egli divide la sua trattazione in quattro capitoletti : nel primo considera la donna in società ; nel secondo la osserva nei rapporti amorosi e nel matrimonio ; nel terzo cerca sorprenderla in casa; nel quarto la contempla per istrada ed in chiesa. I componimenti didattici di Francia e di Provenza gli offrono larga messe di raffronti ai precetti del Barberino, il quale vi attinse senza riguardi, quantunque a quelli elementi sparsi egli desse un ordine tutto suo. Quando peraltro l'uso d'Italia lo richiedeva, egli non si fece scrupolo d'allontanarsene : così praticò, ad es. , nel discorrere del contegno delle fanciulle nei rapporti amorosi, soggetto trascurato dai moralisti d'oltralpe, che solo si preoccupavano delle donne coniugate. Quantunque su queste particolarità della vita femminile nel medioevo s'abbiano lavori eccellenti fuori d'Italia, è agevole l'intendere che uno scritto simile potrebbe essere arricchito di non poche notizie ; ma tuttavia, tal qual' è, deve riguardarsi come un contributo non ispregevole a quella storia del costume che qui fra noi è ancor tuttaquanta da ricostruire. R. (1) Cfr. ALBERTAZZI, Parvenze e sembianze, Bologna, 1892, pp. 8 sgg. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 155 MAX GOLDSTAUB und RICHARD WENDRINER. Ein toscovenezianischer Bestiarius herausgegeben und erläutert. Halle a. S., Niemeyer, 1892 (8° gr ., pp. vi-526) . I rapporti di questo libro con la letteratura italiana delle origini e l'importanza grande che ha per tutti i cultori di cose medievali ci inducono a parlarne qui , più da espositori che da critici ; e lo facciamo tanto più volentieri inquantochè si tratta di opera veramente capitale per la storia delle leggende zoologiche e teratologiche in Italia. I due AA. hanno posto a profitto il loro ingegno e la loro larghissima erudizione speciale per darci un libro, che mancava del tutto , e che d'ora innanzi dovrà essere sempre consultato per la letteratura dei bestiari, non solo d'Italia, ma in genere de' paesi neolatini. La collaborazione degli AA. si lascia abbastanza chiaramente dividere così: il Goldstaub studiò il bestiario che qui si pubblica dal lato interno, vale a dire nel suo valore oggettivo , collocandolo nella vera posizione che ha rispetto ad altri prodotti consimili ed annotandolo comparativamente ; il Wendriner curò specialmente la pubblicazione del testo dal lato esteriore, e lo corredo di un largo esame linguistico. Questa la divisione principale : ciò non esclude che in qualche capitolo i due eruditi abbiano lavorato insieme e siansi in tutto il libro amichevolmente avvantaggiati l'uno delle cognizioni dell'altro. La letteratura dei bestiari medievali è complicatissima ; ma nel fiorire degli odierni studî eruditi molti se ne occuparono, specialmente in Germania. Il Lauchert tentò persino , alquanto prematuramente , una Geschichte des Physiologus, che uscì a Strasburgo nel 1889. Tutti i bestiari infatti metton capo ad uno strano e fortunatissimo libro, che s'intitolò bizzarramente Physiologus e che consiste in una miscela di favole zoologiche, erbarie e lapidarie, che diventano tipiche in quel gran dilagare del simbolismo medievale e d'onde si trae una specie di moralità, relativa alle credenze mistiche del cristianesimo, ovvero all'etica umana. I padri greci della Chiesa raccolsero, alla fine del II sec. di Cr. , quella silloge singolare, prevalendosi delle favole che giravano per la bocca del popolo e di qualche raccolta anteriore grecoegiziana. Il libro ottenne una diffusione quasi senza esempio ed entrò in pressochè tutte le letterature dell'oriente e dell'occidente. Al Physiologus latino rimontano le infinite versioni volgari europee, tranne le slave , che sembrano derivate direttamente dal testo greco primitivo. Del qual testo greco lo stesso Physiologus latino è una versione, concordante con le traduzioni siriaca ed etiopica, e risalente, sembra, al sec. V. Quella forma più antica del libro fu riprodotta sino ai confini tra il X e l'XI secolo. Ma la diffusione massima appartiene al secondo periodo, in cui la letteratura del Physiologus si divide in due gruppi : in testa al primo gruppo sta la redazione denominata Dicta Chrysostomi, le piante e le pietre sono eliminate e rimangono solo gli animali, gli antichi tipi si dispongono diversamente e ne entrano di nuovi, le spiegazioni cessano d'essere mistiche e divengono allegoricomorali : nel secondo gruppo entrano quelle elaborazioni che arricchiscono 156 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO specialmente il materiale naturalistico del 'Physiologus . Il primo gruppo diede luogo alle versioni nordiche, il secondo alle romanze. Il libro acquistò una notorietà grandissima : fu introdotto nelle scuole, trionfò nell'arte, offrì imagini alla poesia ed esempî edificanti all ' eloquenza sacra. Culminò questo favore nel XII secolo, ma si protrasse sino al XV. Fu in questo fortunato periodo che sul vecchio tronco del Physiologus si vennero formando i veri e proprî bestiari, che essi pure si dividono in due gruppi, l'uno, il più vecchio, che ha per base il bestiario ascritto ad Ugo di San Vittore, l'altro, più recente, di cui l'esemplare più antico è il frammento trascritto nel sec. XIII nel cod. Hamilton 390. Seguì necessariamente a tanto favore la sfiducia, come doveva avvenire rispetto a prodotti così schiettamente medievali. Gli spiriti più illuminati , come Alberto Magno , non si peritarono di mostrar favolosi quei racconti, il che non impedi che, per la forza conservativa ch'è nel popolo, i bestiari si continuassero a tradurre e trovassero ospitalità nelle enciclopedie. In queste rapide note non abbiamo fatto altro che riassumere ne' suoi tratti essenziali una memoria speciale del Goldstaub (1) , che è quanto di meglio conosciamo intorno alla fortuna del Phisiologus. Nel libro nostro, naturalmente, egli cerca di stabilire con erudizione veramente sconfinata la posizione che il gruppo dei bestiari italiani ha nella letteratura del Physiologus, le fonti di esso gruppo , i suoi rapporti con gli altri bestiari romanzi, vale a dire coi parecchi francesi, con quello provenzale, col valdese, col rumeno, col Libro de los gatos spagnuolo. Il gruppo de' bestiari italiani, oltre i testi prosaici qui inseriti o considerati , comprende il Bestiario moralizzato in versi, quello di Lionardo da Vinci, le tradizioni zoologiche inserite nel Trésor di Brunetto e nell'Acerba. Di tutto il G. tien conto diligentissimo e giunge a ricostruire una vera storia della letteratura del Physiologus in Italia, di cui sinora mancava ogni tentativo scientifico fra noi . Ognun vede quanto profitto potranno ricavarne gli studiosi dell'età di mezzo. Un cod. della biblioteca comunale di Padova (2) è posto a base del testo qui pubblicato con esso si confrontano parecchi mss. , il Laur. Ashb. 649, scritto in Siena nel 1460 , il Laur. gadd. XC, inf. 47, i Riccard. 2260, 2281, 1357, 2183, il Mgl. Strozz. XXI, 135. Difficilmente , ci sembra, si poteva dare il testo con maggiore competenza e precisione, nè era sempre cosa agevole. La lettura si fa con piacere, perchè è uno scritto tutto olezzante di quella semplicità ingenuamente rozza del popolo , che tanto seduce la nostra età raffinata. Al bestiario propriamente detto segue nel cod. un'appendice di favole. Le note dialettali del W. ci parvero fatte con ottimo metodo e con buona cognizione delle fonti , di che potevano già dare affidamento gli egregi studî che l'A. medesimo ha fatti sull'antico dialetto pavano (3). L'analisi comparativa dei singoli articoli del bestiario tosco - veneziano oc- (1) Die Entwicklung des lateinischen Physiologus , estratto dalle Verhandlungen der 41 Philologen- Versammlung. (2) Il medesimo di cui fu pubblicato un saggio, le 12 parole della verità , nella Rassegna Pa- dovana. Cfr. Giorn. , XVII , 451 . (3) Vedi Giorn. , XIV, 293. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 157 cupa buona parte del volume ed è una miniera di riscontri. Di questo prontuario, in cui gli indici alfabetici finali agevolano la ricerca, saranno lietissimi gli studiosi, perchè fornisce loro gran copia d'elementi per ogni com. parazione di leggende zoologiche. Gli AA. nostri non hanno esteso la ricerca (e sarebbe indiscretezza il pretendere lo avessero fatto) ai nostri antichi rimatori. In essi, ed anche in quelli della vicina Provenza, avrebbero trovato gran copia di allusioni bestiarie, specialmente all'unicorno (1) , alla pantera, alla fenice, al pavone, al cigno, alla tortora (2). Se non che il raggruppare quelle allusioni e lo studiarle col confronto delle tradizioni animalesche medievali sarebbe un lavoro a parte di non lieve interesse, cui vorremmo incoraggiare in pubblico, come già facemmo in privato, qualche giovane di buona volontà e di buoni studî. R. GIOVANNI SERCAMBI. - Le croniche , pubblicate sui manoscritti originali a cura di SALVATORE BONGI. Roma, Istit. stor. italiano (Lucca, tip . Giusti) , 1892. Volumi I e II ( 8° gr.; I, pp. XLIV- 460 ; II, pp. 452) . Una nuova ed altissima benemerenza s'è conquistata, mediante questa pubblicazione, l'Istituto storico italiano. La cronaca del Sercambi è un monumento della maggiore importanza, non solo per la storia cittadina di Lucca, ma anche per la storia del costume e, sotto un certo rispetto, per quella delle lettere. Non è necessario rammentare che la cronaca si divide in due libri, il primo dei quali (an. 1164-1400) si conserva in un suntuoso cod . dell'Archivio di Lucca, il secondo (an. 1400-1423) presso la famiglia Guinigi, e che solo un frammento del secondo libro era finora a stampa, nel vol. XVIII R. I. S. tratto da un cod . Ambrosiano per opera del Muratori (3) . I due volumi sinora pubblicati recano il primo libro : il terzo, che deve ancora vedere la luce, conterrà il secondo libro. Dei due codici , del carattere che ha la cronaca, delle sue fonti probabili nella parte non contemporanea allo scrittore, delle ragioni per cui la Signoria di Lucca repugnava a permetterne la stampa, del disegno abortito di pubblicarla nell'Arch. stor. italiano, finalmente dell'edizione presente, discorre S. Bongi nel proemio, non senza addurre notizie e documenti nuovi. Egli rifà eziandio, brevemente, la biografia del Sercambi (n. 1348, † 1424) , aggiungendo a quanto si sapeva alcuni pochi dati, desunti (1 ) Rispetto a quest'animale gli AA. non hanno potuto vedere il saggio del bestiario senese in prosa, che diede il TEZA nella Riv. crit. , I , 156. Possiamo assicurarli che, dalla lingua in fuori , quel testo coincide interamente col tosco-veneziano. (2) Agli AA. non sono sfuggiti i riscontri addotti da V. CIAN nel Giorn. , IV , 23 e 331-32 ; ma non hanno avvertiti quelli del Giorn., XV, 473-74. (3) Cfr. questo Giorn. , IV, 398. 158 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO dalle carte dell'Archivio di Lucca. Nel passare in rapida rassegna le opere del S., cerca detrarrre valore al Monito ai Guinigi (I , XVII-XVIII) con una osservazione, che agevolmente potrà essere ribattuta dagli economisti. Nè questi, nè altri sostennero mai che il sistema di protezione non fosse praticato nei Comuni nostri prima del Sercambi; tutti riconobbero Invece nel Monito una delle prime affermazioni teoriche d'un procedimento economico, che in seguito doveva avere non poca fortuna. Comunque, il B. promette di riprodurre il breve scritto, già bene stampato da P. Vigo per nozze (1), in appendice al terzo volume delle Croniche. Il ms. dell'Archivio di Lucca è ornato di circa 600 figure. Esse compaiono tutte nell'edizione, ridotte, nelle proporzioni, ad un terzo. Furono fotografate e poi incise in legno con precisione encomiabilissima. Chi voglia bene apprezzare questa riduzione, confronti il facsimile d'una facciata del codice ch'è nel vol. II , dopo la p. 376. Si vedrà col confronto che l'impiccolimento e la riduzione a puri contorni non ha punto nociuto alla chiarezza della rappresentazione, anzi l'ha avvantaggiata. Il valore di queste figure, così ingenue e caratteristiche, cosi piene della vita del tempo, è eminente. Esse rivelano una certa sicurezza nel tratto, specialmente quando rappresentano persone. I cavalli pure sono fatti assai meglio che presso alcuni pittori, anche valenti, del trecento. La prospettiva ed il paesaggio sono poverissima cosa; ma tali erano pure negli artisti più esercitati del tempo. In complesso, se quelle figure fossero veramente opera del Sercambi stesso, come il B. sospetta (I , xxxv), egli sarebbe da reputarsi senz'altro miglior disegnatore che scrittore. I disegni rappresentano per lo più battaglie, assedi, esecuzioni capitali (2). Talvolta sono ricchi e festosi, per copia di figure in atteggiamenti svariati. Si può anzi dire che il disegnatore abbia sempre cercato di ritrarre il movimento, la vita, affrontando, con indicibile audacia , difficoltà per lui improbe. In un luogo, per es. (II, 13), ha tentato persino di riprodurre una battaglia navale ! S'intende come, in simili frangenti, gli sia accaduto più volte di naufragare e di commettere di quelli adorabili peccati d'inesperienza, che hanno per noi moderni una così strana attrattiva nei giotteschi. V' ha poi nella rappresentazione la monotonia dello schema fisso, impostosi nell'età di mezzo a tutte le forme dell'arte : le pestilenze, per es. , sono sempre rappresentate con demoni alati che scoccano freccie, spargono veleno od offendono con le falci il genere umano (3). Rispetto al valore iconografico di alcune figure non siamo in grado di dare alcun giudizio, mancandoci la possibilità del confronto ; ma ci sembra che almeno l'intenzione di far dei ritratti il disegnatore l'abbia avuta. Notiamo a questo proposito che una delle due figure inginocchiate a p. 155 del vol. I, e quelle che sono, pure in ginocchio, a pp. 183 e 431 del II, dovrebbero rappresentare il Sercambi medesimo. ( 1) Vedi Giorn. , XV, 833. (2) Il vantaggio che da queste rappresentazioni potrà ricavare il futuro storico delle esecuzioni capitali additò chiaramente C. CIPOLLA, Note lugubri, in Gazzetta letteraria, XVI, no 45. (3) Vedi I , 96 , 118, 207, 242, 261 ; II, 64, 397. Rappresentazione analoga per la discordia. Vedi I, 273-75, 304. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 159 Scheletrica, senza ornamenti, senza leggende nelle due parti del libro primo, in cui sono esposti fatti antichi, la cronaca nostra s'allarga, s'impingua di fatterelli, dilaga negli ammonimenti, entra in sempre nuove e più curiose digressioni in quella parte che espone vicende contemporanee allo scrittore, quorum ipse pars magna fuit. Il Sercambi non manca di vivacità ; nella cura dei particolari si tradiscono in lui le tendenze del novelliere. Del resto, i difetti massimi che furono rilevati in lui come scrittore di novelle ricompaiono qui tutti ( 1) . Lo stile è pieno d'irregolarità e di anacoluti , i periodi procedono talora come Dio non vuole, la lingua è satura d'idiotismi lucchesi, che il glottologo farà bene a non trascurare. Egli ha una gran tendenza a far dei sermoni pratici, a moraleggiare, ed i suoi sermoni dirige all'uno o all'altro personaggio, all'una o all' altra città, specialmente alla sua Lucca. Nel secondo volume questi sermoni assumono proporzioni tali da soffocare il racconto . Notiamo in ispecie il lungo monito a Lucca, ornato di stemmi e di una mappa (Il, 117-144), in cui l'A. rammenta i diritti e le glorie della patria e rileva i torti patiti da essa, specificando le terre lucchesi usurpate dai vicini. Quantunque il S. si schieri fra gli uomini « senza scienzia aquisita » e faccia esplicite e ripetute dichiarazioni di modestia (I, 64-65) , si vede chiaro in lui, qui come nelle novelle, il desiderio di sfoggiare dottrina, anche facendosi bello delle penne del pavone. In un luogo gli viene il capriccio di descrivere l'Italia, perchè, dice egli, « posto che non paia della nostra materia, << nondimeno tucto è di necessità di sapere » , e dopo aver offerto ai lettori un curiosissimo schizzo geografico, in cui la penisola è foggiata a mo' di foglia (opinione, del resto, non sua), trascrive i primi 15 canti del L. III del Dittamondo ( II, 83-117 e 144-154) (2) . Poco appresso il pieno dominio di Roma conseguito da papa Bonifacio IX nel 1398 induce l'A. a dar di bel nuovo la stura ai suoi sermoni ed ai rifacimenti di versi altrui (II , 198 sgg.). Riporta infatti gran parte del C. VII dell'Inferno, un sonetto ed una canzone politica, una prosopopea versificata dei peccati capitali e delle opposte virtù. Ogni virtù ed ogni vizio occupa una terzina ed ha disegnata allato la figura corrispondente (3) . Nel capitolo successivo narra, a mo' di esempio, le vendette compiute dai Troiani sui loro nemici ( II, 218-21) , e poscia contro Nicolao Sbarra, uccisore di Lazzaro Guinigi, avventa un gruzzolo d'esempî classici (II , 416-19). Magnifica ed estesissima, per lo storico e per lo psicologo di valore non piccolo, è nel II vol . (pp. 290-371) la storia dell'origine della diffusione dei Bianchi flagellanti. Vi sono narrati con somma unzione i miracoli che a quel tempo seguirono, sono riferite laudi, profezie, lo Stabat nella sua forma più antica, una leggenda dell'anticristo. Senza dubbio quelle pagine sono delle più notevoli che abbia la cronaca (4). (1) Si richiami specialmente il giudizio del GASPARY, Zeitschr . für rom. Phil. , XIII, 548 sgg. e quindi nella Storia, trad. it. , II , I, 63 sgg. (2) Il lungo brano ha molte varianti , rispetto al testo a stampa , alcune delle quali notevolissime, quantunque gli errori di trascrizione abbondino, specie nei nomi propri. (3) Tali prosopopee poetiche erano un luogo comune della poesia morale del tempo. Vedi RENIER, Fazio, pp. cccxI sgg. e FLAMINI, Lirica toscana , pp. 505 sgg. e 760. (4) Il Bongi dice (II , 450) che già ne fece suo pro Telesforo Bini. Tatto il movimento dei Bianchi andrebbe ristudiato alla luce della moderna critica. 160 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Oltre i versi menzionati, il Sercambi ne inserisce qua e là molti altri, specialmente di Dante e di Fazio. Riporta anche intere canzoni e ballate politiche, ch'egli chiama « romanzi » di Davino Castellani ( 1 ) e di Antonio Pucci (2) , il lungo e bel lamento in ottave di Matteo da Milano (3), e brani d'una profezia di frate Giovanni Becchetti (4). Su questi e sugli altri componimenti politici che compaiono nella cronaca non insistiamo, dopo quello che ne disse, in questo medesimo Giornale (IV, 398 sg. ) il prof. Medin. Noteremo invece che il Sercambi ha riferito eziandio parecchie poesie morali, senza menzionarne l'autore. Alcune di esse, vale a dire le canzoni : 1° Così del mondo o stato alcun ti fida ( II , 332) 2º O tu ch' hai forme d'uom dimmi che pensi (II , 381) . 3º Non è altrui ognun che ama amico (II , 387). 4º O morte, o povertà, o gelosia (II, 292). 5º Perch' io di me non ho chi a me si doglia ( II, 428) , la caccia Chi caccia e chi è cacciato (II, 238) , e la ballata Dà, dà a chi avanza pur per sè ( II, 217) , furono dal Bongi riconosciute come uscite dalla penna di Niccolò Soldanieri. Egli doveva osservare che la prima e la terza delle canzoni allegate trovansi già a stampa secondo un noto cod. di Parma (5), e che al Soldanieri appartiene pure la canzone Dato che fu a questo mondo il lume (II, 309) (6). La congettura del Bongi (II, 449), che al Soldanieri appartengano pure le canzoni O potenzia di Dio che governi (II, 207), Ogloria vana, fummo dei mondani ( II , 235) , Tal si crede segnar, che col suo dito (II, 255), I' sono un pellegrin che non ho posa (II, 423), non è certo destituita d'ogni probabilità, quantunque i parecchi mss. con rime del Soldanieri esaminati dal Flamini non lo confermino. Il ternario con cui la parte prima della cronaca si chiude ( II , 431) potrebbe , per la bruttezza sua e per le molte allusioni alla storia di Lucca , essere cosa del Sercambi stesso ; anzi lo affermeremmo risolutamente, se il suo vezzo di appropriarsi versi altrui non ci consigliasse la massima cautela. Di qualche importanza pei cultori di studî letterarî sono pure le notizie della parte che nelle turbolenze di Lucca, in sullo scorcio del XIV secolo, ebbe Andrea cantore da Firenze (1 , 282-83). Fu costui un cantastorie popolare, di casato Gori o Gregori, ed il Bongi non trascura d'offrircene (II, 452-55) copiose informazioni. R. ( 1 ) I, 154-155, 169, 384. Su Davino Castellani dà qualche notizia il Bongi, I, 447. (2) I , 190-202. Il Sercambi , per ispirito di parte , ha messo le mani in quella poesia, mutandone la chiusa . Vedi Bongi, I, 449-451 . (3) I, 335-49. Pubbl. da A. CERUTI in appendice ai Principi del duomo di Milano e poi nella raccolta FRATI-MEDIN di Lamenti. Vedi ciò che novamente ebbe a scriverne il MEDIN nell ' Arch. stor. lomb., XVIII, 749 sgg. (4) II, 183, 222. Plausibile la congettura del Bongi che i due brani appartengano allo stesso componimento. (5) Pubbl. da E. COSTA in questo Giorn. , XIV, 44 e 40. (6) Vedi la comoda tavola delle canzoni del Soldanieri che ci offre il FLAMINI , Lirica cit. , p. 486 n. Al Bongi sarebbe riuscito vantaggioso il conoscerla. Alle canzoni del Soldanieri , del resto, speriamo che qualcuno consacri l'attenzione di cui furono reputate non immeritevoli le sue ballate. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 161
GIOVANNI ZANNONI. - Strambotti inediti del secolo XV. - Roma, tip. de' Lincei , 1892. Estratto dai Rendiconti della R. Accademia dei Lincei (8° picc., pp. 35).
In questa memorietta condotta con ogni diligenza il prof. Zannoni illustra un codice al tutto ignoto fino a qui (reca il nº 729 tra gli urbinati della Vaticana), contenente una silloge copiosa di poesiòle, messa insieme a proposito e piacere della celebre Elisabetta Gonzaga duchessa d'Urbino, da un tal Filippo Schiafenati milanese, cavaliere gerosolimitano, non prima degli ultimi anni del secolo decimoquinto. Sono quattro barzellette e dugentocinquantasei strambotti, quasi tutti d'argomento erotico o didattico- spirituale ; e s'aggirano attorno ai soliti motivi, che, come bene osserva lo Zannoni, abbondano e si ripetono, con costante monotonia presso i rimatori di quel tempo . Una buona metà di tali componimenti è già divulgata per le stampe ( 1 ) : ma ciò nulla toglie d'importanza al bel codicetto ; poiché, assegnando esso quasi a tutti il nome dell'autore, « si hanno qui oltre cinquanta nomi di versificatori del « secolo decimoquinto, o sconosciuti o poco noti » ( p. 6) .
(1) Tutte edite le barzellette; salvo una, che qui lo Zannoni riferisce intiera, a p. 8.
« Imitatori di Serafino », soggiunge l'A .; ma forse è dir troppo, non potendo siffatta denominazione estendersi a tutti i numerosi strambottisti del quattrocento estremo
e degli inizî del secolo successivo, per quanto grande, anzi poniam pure straordinaria, sia stata l'efficacia ch'esercitò il fortunato improvvisatore.
Questi strambotti seguono la comune forma dell'ottava : nove soltanto hanno
rime tutte alterne ; ciò sono due d'un Abbate , di cui nulla sappiamo , uno
d'incerto autore, uno di Paolo Diedi
(2), uno di Paolo Tassino, un altro di
Feltrino Manfredi e tre d'autori meridionali : il Cariteo , il Sannazaro e un
Ponzio, che senza dubbio sarà da identificare col rimatore messinese, su cui
sta preparando una monografia il prof.
(2) Cfr. RENIER, Gaspare Visconti, estratto dall'Arch . stor . lomb. , p. 99.
Vittorio Rossi. Basta volgere uno sguardo alla tavola offertaci dallo Zannoni di questa antologia poetica, per farci una chiara idea della sua indole, tutta aristocratica ed aulica. Dopo Serafino dell'Aquila, di cui il codice contiene ben settanta strambotti, e un Vincenzo, che secondo ogni verosimiglianza è il Calmeta , piú largamente d'ogni altro vi sono rappresentati S. Tassino (3) e due eruditi di molta nominanza, Paolo Cortese e Cornelio Benigni ; vi compaiono, inoltre, i nomi di Girolamo Benivieni, di Baccio Ugolini (4) , del Marullo, del card. Giuliano Cesarini giuniore (5) .
(3) Sarà veramente il favorito di Bona Sforza , come congettura lo Z. ? A noi ciò non pare sufficientemente provato.
(4) Anche il Mglb. II . II . 75, c. 94 b , assegna a costui il noto e controverso strambotto « Del bel campo ch'io arai con sudor tanto ».
( 5) Che siano una sola e medesima persona il Ju. De Cesarinis a cui è attribuito lo strambotto CCXXXII e il Jul. de Cesariis ( Cesariis , con ommissione del segno abbreviativo) dello strambotto CLXXII, si può, a nostro avviso, non soltanto congetturare, ma affermare addirittura, senza tema di cadere in fallo.
Per dir vero, se si tolgano Serafino e il Calmeta, i verseggiatori già noti davvero non saliranno per la scoperta di questa raccoltina in maggior fama ; ché Antonio Fregoso Fileremo, il magnifico cavaliere, autore di cosí svariati e curiosi poemetti, Benedetto da Cingoli, del quale è a stampa il canzoniere (1 ), Antonio Tebaldeo, Jacopo Sannazaro non hanno in essa che un solo strambotto. Ci si rivelano invece, grazie a questo manoscritto, come amici delle muse e frequentatori di Parnaso molti il cui nome è stato cinto di fitte tenebre sino ai giorni nostri ; di piú altri il patrimonio poetico tenuissimo o malsicuro riceve per esso qualche incremento o alcuna maggior guarentigia d'autenticità (2) . Appiè della tavola del codice lo Zannoni ha posta l'indicazione de' componimenti che ha potuto trovare editi. Oltre al Compendio di cose nove di Vincenzo Calmeta ed altri autori, ben noto (3), e ch'egli cita, avrebbe potuto consultare utilmente l'Opera nuova di Vincenzo Calmeta , Lorenzo Carbone, Orfeo Mantovano , Venturino da Pesaro ed altri autori , stampata in Venezia, per Giorgio Rusconi, nel 1507; dove sono anche strambotti non contenuti nel Compendio ; uno , fra gli altri , di « Galiazzo Fangini » (leggi Galeazzo Fazini), ch'è quell'istesso pubblicato qui come inedito dallo Zannoni a p. 24, e tre di Enea Malvezzi (cfr. Zannoni, pp. 10, 11 e 14) (4). Ma giustamente egli osserva , che in siffatto genere di studî nessuno può vantarsi d'aver tutto veduto : d'altra parte egli ha veduto moltissimo ; di che gli va data ampia lode. Certo non tutti i centoquindici strambotti pubblicati in séguito alla tavola come inediti saranno tali ; primo a dubitarne è l'editore medesimo, oculato e prudente. E inedito non è, ad esempio, quello che il codicetto attribuisce al Tebaldeo , « Pensa e poi fa, non far prima che (1) Ne ho sott'occhio due rarissime edizioni possedute dalla Trivulziana, quasi al tutto identiche nella contenenza: Sonecti barzelle | et capitoli del claro poeta | B. Cingu | lo, del 1503 ( cfr. VERGA, Bellincioni, p. 24) , e Opere del pre | clarissimo poe | ta B. Cingu | lo nuova | mente stampate ecc. , Siena, per Simone di Niccolò e Giovanni di Alessandro librai , 1511. Si compone di 15 sonetti per lo più erotici, di molte curiose barzellette morali e d'amore, di parecchie laudi e stanze divote e d'un poemetto a esaltazione della donna cara al poeta, spartito in due ternarî . Nessuno strambotto. (2 ) Forti dubbi abbiamo sull'autenticità di due strambotti , assegnati nella tavola l'uno al Moro e l'altro a Ferrandino principe di Capua. È provato , che il Moro faceva scrivere da altri versi che poi spacciava per suoi . Ciò anche lo Z. fa osservare ; ma inesattamente soggiunge : « Invece è certo che Ferrandino d' Aragona, mecenate di poeti, fu poeta egli stesso > (p. 19 n). In effetto il PERCOPO , a cui egli rinvia , menziona « strambotti di Ferrandino nel cod. Riccardiano ◄ 2752 » (Le rime del Chariteo , I , xLv n . ) ; ma questo ms. ne conserva uno solo : quello , edito dal TORRACA a p. 153 delle sue Discussioni e ricerche letterarie , la cui attribuzione al principe di Capua crediamo aver proprio lo stesso valore di quella delle rime altrove ascritte al Moro ; poiché occorre nel canzoniere di Francesco Galeota dall'autore medesimo raccolto (cfr. Giornale, XX, 81) , ed è ben verosimile che un gentiluomo di cosí facile vena poetica verseggiasse anche in persona del suo signore. Quanto al nuovo strambotto di cui vorrebbe far dono all'Aragonese il cod. Vaticano , il suo capoverso (« Se 'l duolo che partendo l'alma sente ») non ci giunge nuovo; ma dove ci sia accaduto d'incontrarlo non ricordiamo. (3) Cfr. MORFURGO , El costume de le donne ecc . , p. 31. Ne tengo innanzi una ristampa non comune e poco nota , col titolo : Vincenzo | Calmeta poeta vulgare non man | co facetto che elogante. In ditta opera se con | tene. Sonetti. Strambotti. Eccloghe. | Capituli. Dialoghi. Et una Predica d'amore : Cosa bellissima. In fine è la nota : Stampato in Chivasso per Francesco Garrone de Livorno. Ne l'Anno del Signore 1529. Del | Mese de Luio. (4) Di questi, due soli ci giungono nuovi. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 163 << pensi »; avendolo dato in luce, per nozze, Giulio Padovani ( 1 ) . Ma se anche qualcun altro di essi potrà essere accidentalmente ripescato o in antiche stampe o in opuscoli recenti, non diminuirà per ciò il pregio di questa pubblicazione : la quale risuscita dall'oblio un manipolo di verseggiatori mal noti, recando al tempo stesso contributo notabile alla conoscenza d'una varietà di poesia semipopolare, che, in un momento d'auge, apparve quasi come destinata a cacciar di seggio il sonetto.. F. FL. PIETRO FORTINI. Novelle. - de' novizi. Vol. II. - I. Le giornate delle novelle Firenze, il Giornale d'erudizione editore, 1891. Pubblicazione della Bibliotechina grassoccia, diretta da F. ORLANDO e G. BACCINI ( 8°, pp. 672) . Dopo non breve attesa, giustificata per altro da più motivi, uscì in luce il volume secondo delle Novelle del Fortini (2) , delle quali già segnalammo l'intrapresa pubblicazione in questo Giornale, XV, 444. Col presente volume la stampa del Novelliere del Fortini ha fatto assai cammino, chè, comprendendo esso il seguito della quarta giornata e le giornate V, VI, VII e VIII , giunge alla fine della parte prima. La parte seconda, com'è noto, narra Le piacevoli ed amorose notti de novizi. Speriamo che, superate le prime difficoltà , la pubblicazione proceda d'ora innanzi con maggiore sollecitudine, cosicchè si possa tra non molto conoscere per intiero un novelliere, che se non giunge a porsi tra i maggiori del suo secolo per pregi di stile, pure sta loro a paro per abbondanza e varietà di materia. Anche in questo volume, così come nel primo, troviamo trattati più generi di novella : da quella popolare , che morde la dissolutezza femminile , come , ad es. , la XXIV (Come un villano piglia donna ; la rifiuta perchè ella li dice essersi provata con uno. Piglia la seconda ; altresì fa per averne provati tre o quattro. Piglia la terza; dice di averne provati più di mille ; et per non peggiorare se la tiene), a quella tradizionale che messa dapprima in conto di Virgilio, fu poi volta a' danni de' pedanti ( Un pedante credendosi andare a iacere con una gentil donna si legha nel mezzo perchè ella lo tiri su per una finestra ; resta appichato a meza via ; di poi messolo in terra con sassi e randelli li fu data la corsa , nov. XXVIII) . Nè parliamo della novelletta (1) Bologna, Azzoguidi , 1887. È il 50 di dieci strambotti adespoti , ricavati dal cod. 284 dell'Universitaria di Bologna ; il quale contiene una raccolta di poesie amorose, fatta nel 1525 circa da Panfilo Sasso in onore d'una Leonora che potrebb'essere la figlia di Niccolò da Correggio (cfr. Riv. crit. della letterat. ital. , IV, 92 sgg. ) , dove sono anche due sonetti pseudopolizianeschi , da aggiungere a quelli di cui recentemente abbiamo parlato. (2) Noi ci attenemmo alla data della copertina, che è la più giusta . Il frontispizio invero reca l'anno 1890, ma conviene avvertire che quel frontispizio comparve con la prima dispensa, e finchè vennero in luce le altre sette trascorse più d'un anno. 164 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO cittadina ( Come un giovine senese essendo andato a diporto fino a Firenze per stare alquanti giorni et avendo nele bolge un paio di camicie per mutarsi, li portieri gliele tolsero in frodo. El giovine sdegniato a la sua partita si volse valere dell'onta fattali e assettò una scatola piena di pece, se la fe corre in frodo con proferger loro venticinque scudi , se gliela volevano rendare. Così la lasciò a' gabellotti che apertola rimaseno beffati, nov. XLI) , nè della motteggiatrice (Come una donna con un bel motto si defende da un mordimento fattole da un giovine, nov. XXVI) , nè d'altre narrazioni che per la frequenza con cui compariscono ne' nostri novellieri sembrano essere state i luoghi comuni ove si compiacevano di ricoverarsi gli scrittori di novelle (come le novelle dei Quiproquo, n. XXXVIII e XLVII) .. Di tutte queste novelle già diede l'argomento, per quanto sommario, lo Ulrich, Pietro Fortini, Ein Beitrag zur Geschichte der italienischen Novelle, Zurigo, 1887, e le pose a riscontro con altri novellieri , segnalandone inoltre l'importanza per la storia del costume nel sec. XVI. Noi non aggiungeremo per ora nuove osservazioni, chè torneranno più opportune e più facili ad opera compiuta. La seconda parte del novelliere, cioè quella delle Piacevoli notti, di cui affrettiamo col desiderio la pubblicazione, è di gran lunga la meno nota. G. R. ATTILIO CENTELLI. -Caterina Cornaro e il suo regno (con tre ritratti in eliotipia). Venezia, Ferd. Ongania editore, 1892 (16°, pp. 173). - Fu ottima idea del colto giornalista veneziano questa di scegliere a tema dell'elegante volumetto la figlia di Marco Cornaro. E in verità meritava di essere fatta meglio conoscere al pubblico largo italiano e straniero (sappiamo che di quest'opera dovrà uscire presto una versione inglese) questa singolare figura di donna del nostro Rinascimento maturo ; questa patrizia veneziana, che, giovinetta, dalla quiete contemplativa del chiostro e poscia dalla serena intimità della famiglia, nell'avito palazzo , venne sollevata alle trepide speranze e agli splendori del piccolo ma non inglorioso trono di Cipro, per provare quindi più acerbi gl'insulti della fortuna. Negli ultimi suoi anni ella ci appare come una sopravvissuta a sè stessa, al suo splendido passato, forse non bene conscia nè degna di esso . Morta, non le mancò il favore del mondo ; venne circondata, accarezzata come da un'aureola di gloria e di sventura, visse nelle opere di poeti, di romanzieri ed artisti, non è dimenticata neppur oggi dalla tradizione popolare, conseguendo una fama che in realtà non meritava. Ma di essere studiata con cura essa meritava per certo ; come pure della sua fama postuma è facile indagare le ragioni, dacchè, conviene riconoscerlo, la figura, vista a distanza, è in alto grado attraente e quasi direi romanzesca. Messer Giovanni Boccaccio non si sarebbe probabilmente accontentato di aggiungere un capitolo al suo De claris mulieribus. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 165 Il C., per quanto rivolga, come dicevo, il suo studio ad un pubblico largo, seppe resistere alla tentazione (tanto più forte in uno scrittore come lui) di tessere un'apologia o di darci una di quelle ricostruzioni che, sebbene geniali, quando trascendano i limiti segnati dai documenti e dai fatti certi, sono pericolose e dannose. Egli non ha la pretensione di offrirci un lavoro di ricerca nuova ed originale. Riassume dapprima (cap. I-II) la storia di Cipro, specie durante il periodo più tardo, anteriore al regno di Giacomo il bastardo, l'ultimo dei Lusignani, giovandosi opportunamente della migliore delle fonti, l'opera magistrale del De Mas Latrie. Ma forse questo riassunto pecca di sovrabbondanza, confrontato col resto del lavoro. Che se l'A. avesse voluto allargare le proporzioni di questo che è l'antefatto dell'opera sua, dividendola nettamente in due parti distinte, avrebbe dovuto, io credo, togliergli, per quanto era possibile, quel carattere di arido compendio storico che ora si tradisce un po' troppo, cercando di colorire con opportuni richiami, qua e là , i fatti e i personaggi principali. Così, ad esempio, parlando di Pietro I (p. 24), avrebbe potuto ricordare che egli è l'eroe primo, anzi il protagonista unico, della Prise d'Alexandrie, poema mediocre d'un trovèro del sec. XIV, Guillaume de Machaut, che ha un'importanza storica sfuggita al Michaud, l'ormai vecchio storiografo delle crociate. Nei capitoli seguenti ( III - VI) l'A. narra la vita e le fortunose vicende di Caterina in rapporto con la storia di Venezia e di Cipro ; e lo fa serbando, in generale, la giusta misura e , da pochi casi in fuori, mostrando sufficiente accuratezza nei particolari, pei quali attinge, ogniqualvolta gli è possibile, a fonti contemporanee, sovratutto ai Diarii di Marin Sanudo, che saranno sempre una miniera inesauribile e preziosa per gli studiosi di quel periodo. Notevole, sebbene tutt'altro che compiuta e definitiva, ci sembra la parte che l'A. consacra a discorrere dei ritratti , sparsi in gallerie italiane e straniere, nei quali si volle ravvisare l'imagine fedele della regina di Cipro (pp. 130-147). Le conclusioni a cui egli giunge sono affatto negative, dacchè egli confessa non potersi affermare con certezza l'esistenza di ritratti dal vero della Cornaro. In ogni modo ben fece il C. a fregiare il suo volumetto di tre di questi ritratti, riprodotti in eliotipia : quello di Gentile Bellini esistente nella Galleria nazionale di Pest, quello di Paolo Veronese posseduto dal Museo Imperiale di Vienna, infine quello attribuito a Tiziano, che adorna la Galleria degli Uffizî. Come non è sfuggito al C., qualche cosa di simile a quello che avviene del ritratto fisico, avviene del ritratto morale e intellettuale di questa florida regina, sbocciata, per una sorpresa della politica, dalle lagune della Repubblica. A quella sua figura, anche dopo le pagine ingegnose e quasi sempre accurate dell ' A., manca quasi per intero il colorito e il rilievo morale. Che se tale deficienza della rappresentazione critica procede in gran parte da una deficienza storica, effettiva, reale, e allo studioso accade di trovarsi dinanzi poco più che una « vanità che par persona », io credo peraltro che nuove indagini potranno supplire per qualche lato almeno , aggiungere qua un tratto, là uno spiraglio di luce, sorprendere quella donna in qualcuno degli atteggiamenti psichici che le mancano, strapparle il segreto della vita interiore, che ora non è dato se non raramente d'indovinare. Intanto il C. avrebbe dovuto tener 166 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO conto d'una testimonianza, che per venirci da un contemporaneo e letterato , specialista di letteratura femminile, acquista un pregio singolare. Sabadino degli Arienti, in quella sua Gynevera de le clare donne che fu data in luce soltanto in questi ultimi tempi (1) , giunto alla fine, scriveva che avrebbe saputo, potendo, ricordare « la bontate et regie excellentie de Catherina, figliuola << che fu de Marco Cornaro, illustre patricio venitiano, regina de Cypri, mo- << glie che fu del re Jaches et quanto nel Stato matrimoniale et viduile << se sia portata nel regno, et cum quanta gratia de li cypriani populi se porti, << et quanto ella da quilli è desiderata, e quanto honore ha fatto a le vene- << tiane donne, et cum quanta honestà et magnificentia vive in Vinetia, et cum << quanta dilectione observa lo inclyto senato, come sua figliuola , che sarebbe << una beatitudine narrare >> . ..... Il novellatore bolognese loda la bontà, le virtù regali, l'onestà irreprensibile, la saviezza di Caterina, la sua affezione per Venezia, ma non ha neppure una parola per ricordare la sua coltura, il suo amore per gli studî e per l'arti. Ora, quale interpretazione dovremo dare a questa testimonianza negativa? Quale giudizio avremo a recare della coltura di « madonna la Reina << di Cipri ? ». A tali quesiti toccati, ma troppo fuggevolmente, dall'A. , credo difficile dare una risposta sicura, ma doveroso il tentare di giungere ad una il più possibile soddisfacente. Al silenzio dell'Arienti , su questo punto, si aggiunga il silenzio di Pietro Bembo, l'autore degli Asolani, la cui famiglia era << non solamente d'amistà e di dimestichezza congiunta, ma ancora di << parentado » con la famiglia Cornaro ; e questo silenzio ci parrà tanto più grave dacchè da niun altro scrittore, da niun documento sincrono sorge una voce di lode a tale riguardo. E si badi che eravamo in un'età nella quale la cortigianeria e la vanità e la viltà degli scrittori congiuravano a proclamare ai quattro venti delle fame usurpate, a sollevare sugli altari idoli che il tempo e la critica hanno atterrato e disperso. Certo io non mi spingerò sino al punto cui si spinse l'Yriarte, il quale parlando di Isotta degli Atti, la donna adorata e divinizzata da Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, le negava la capacità di leggere e di scrivere, persino di scrivere il proprio nome, dando così al Villari facile materia di confutazione. Eppure, anche a rischio di passare per reo di lesa cavalleria, io affermo (e vorrei dimostrare con più ampie ragioni) che la coltura della Cornaro doveva andar poco oltre il saper leggere e scrivere. Non dimentichiamo ch'essa usciva da quella aristocrazia veneziana, dove la donna rimaneva quasi interamente estranea alla vita po litica ed intellettuale del tempo ; dove le giovinette (salvo rare eccezioni) passavano dal convento alla nuova famiglia, ad allietare il talamo dell'operoso patrizio, a sfidare le minaccie delle leggi suntuarie e a porgere irresistibili inviti al pennello dei pittori immortali. Sarà la Cornaro una delle poche eccezioni ? Io non lo credo, come non posso scacciare dalla mente il ricordo d'una firma tremula e incerta che la mano della bionda e regale patrizia lasciò segnata appie' d'un documentò, che si conserva nell'Archivio Municipale d'Asolo. E non mi dica maligno il valente C., se gli consiglio di inse- (1) Bologna, 1888 , p. 400 (Disp. CCXXIII della Scelta di curios . letler.). BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 167 rire, in una ristampa del suo lavoro che auguro non lontana, anche la riproduzione fototipica di quell'autografo (1). Non per far dei confronti, ma per aggiungere un documento ai pochi che possediamo finora intorno alle relazioni di Caterina Cornaro coi suoi contemporanei, dò qui in luce una letterina che Isabella Gonzaga, marchesa di Mantova, le indirizzava il 3 aprile del 1502 : « Reginae Cipri . S. R. Mta, « Lo amore et observantia che io ho alla S. Mtª V. fa che non potendo vi- << sitarla personalmente e come questa mi suplica, ricordandoli che li sono << affectionata et per quello che naturalmente gli era et per quello che me << hanno obbligato le careze et dimostratione che la mi fece, quando la visitai << cum la persona in Venetia : sì che potendose di me servire in alcuna cosa, << la me trovarà sempre obsequente et alla Mta V. me recomando » . In tal modo rimane confermata l'attestazione del vecchio biografo di Caterina, Antonio Colbertaldo, il quale fra gli ospiti più illustri di lei, ricordò anche la Marchesa di Mantova. Agli amici Luzio e Renier l'aggiungere altre notizie su questo punto, nell'atteso volume su Mantova e Urbino ; a me basti dire che nella sua letterina l'Isabella allude al viaggio da lei fatto, in incognito, a Venezia, nel marzo di quell'anno. Nel chiudere questo rapido cenno mi corre l'obbligo di avvertire l'A. che il suo lavoro, in una seconda edizione, potrà facilmente venir migliorato, togliendone alcune inesattezze di fatto, non gravi, dandogli qualche opportuno ritocco alla forma, accrescendogli quella consistenza e precisione che ora gli fanno talvolta difetto e che non potranno non accrescere anche il meritato favore all'opera sua. V. CI. EMIL KOEPPEL. - Studien zur Geschichte der italienischen Novelle in der englischen Litteratur des sechzehnten Jahrhunderts. -Strassburg, Trübner, 1892 (8°, pp. 100). Lo studio del Koeppel si divide in due parti : nella prima il K. passa in breve esame le principali raccolte di novelle inglesi della seconda metà del sec. XVI, e ne considera i rapporti colla novellistica italiana , sia nel loro complesso, sia in talune loro narrazioni ; la seconda parte contiene il riassunto della prima, in quanto il K. considera l'influsso esercitato dai maggiori novellieri italiani sulla novellistica inglese ; v'ha di più ch'egli segnala buon ( 1 ) Giovami avvertire che nel dare questo giudizio severo sulla coltura della Cornaro io mi trovo in buona compagnia, cioè del Lubcke e di E. Simonsfeld. Lo studio, che quest'ultimo consacrò alla Cornaro, è citato, ma troppo incompiutamente dal C. , al quale sembra sfuggita la versione che, accompagnata da notevoli aggiunte e correzioni , ne diede il FIETTA nell' Arch. Veneto, t. XXI, P. I , 1881 , pp. 40 sgg. , e tanto più andava citato con esattezza , dacchè vi si discutono anche le questioni riguardanti i ritratti di Caterina. Di questo argomento ebbe a trattare anche un altro autore, che il C. cita sommariamente nella introduzione e nella indicazione bibliografica finale : intendo alludere al già ricordato MAS LATRIE, Histoire de l'Ile de Chypre sous le Règne des Princes de la Maison de Lusignan, t . III , Paris, 1855, p. 182 n. 168 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO numero di versioni, in prosa o in verso , non riunite in raccolta , delle migliori novelle italiane, e ricerca tutte le allusioni che i letterati inglesi del cinquecento amarono di fare a personaggi della nostra novellistica. Egli è chiaro che in una tela così vasta non possono non essere occorse delle lacune ; ma una specialmente vuole essere notata lamentata anzitutto ; ed è che in questo libro non si siano prese in esame le elaborazioni drammatiche inglesi dei temi desunti, mediatamente o immediatamente, dalla nostra novellistica. Le notizie che il K. ci dà intorno ai novellieri inglesi riescono assai proficue, chi sa quanto sia difficile potersi procurare quei vecchi volumi, divenuti ormai rari e quasi inaccessibili ; ma, appunto per ciò, leggendo lo studio del K. ci avviene di lamentare che queste notizie sieno talora troppo scarse, qualche volta anzi insufficienti . Così in due brevi paginette (77-78) il K. si sbriga sommariamente di una decina di raccolte di novellette inglesi (Testbooks), per le quali egli si limita a notare che derivano in buona parte dalle raccolte del Poggio e del Domenichi . Il K. comincia il suo studio coll'esaminare il Palace of Pleasure del Painter ed i Tragicall Discourses del Fenton ; due raccolte che si avvicinano non soltanto perchè contemporanee (1567) , ma per la comunanza delle loro fonti . Però nella prima raccolta l'influsso italiano si esercitò in modo più largo e più diretto: il Painter fu un buon conoscitore della lingua italiana e la sua non è traduzione di seconda mano, benchè però per talune novelle italiane da lui accolte nel suo volume non debba già ricercarsi la fonte immediata nel testo originale, sibbene nelle versioni francesi. Ciò si deve dire specialmente delle novelle del Bandello, per le quali il Painter si valse largamente della traduzione del Belleforest. Oltre alle novelle del Bandello, nella raccolta del Painter sono rappresentati il Boccaccio con 16 novelle, ser Giovanni Fiorentino, lo Straparola e Cinzio Giraldi. Il Fenton invece non fece che ritradurre le novelle del Bandello dalle Histoires tragiques del Belleforest. Il K. considera in seguito i novellieri del Tilnay, del Pettie e del Whetstone e vi ritrova specialmente notevoli le tracce d'imitazione di quell'opera che godette di tanta estimazione, e in Italia e in altri paesi nel cinquecento : il Cortegiano del Castiglione. Da quest'opera il Pettie desunse la pietosa narrazione della fine miseranda di Sinorige e di Camma; il Whetstone poi, come il Tilnay, di cui probabilmente egli seguì l'esempio, la scelse a dirittura per suo esemplare. Tra i libri prediletti del suo ospite Philoxenus, il Whetstone non dubita di porre il Cortegiano accanto alle opere di Plutarco e di Guevara: For Gouernment, and Civil behauiours he read Plutarches Moralles: Gueuaraes Dial of Princes: the Courtier of Count Baldazar Castillio. Il Whetstone ha una larga conoscenza della letteratura italiana ; egli non restringe le sue imitazioni , libere imitazioni e geniali , al campo della novella italiana ; ma conosce e il Petrarca e l'Ariosto, e si giova delle loro opere. Le poesie che infiorano il suo Heptameron of Civill Discourses traggono bene spesso la loro ispirazione dal Canzoniere petrarchesco ; alcune novelle del W. sono poi formate con aneddoti del Furioso. Abbiamo detto imitazioni libere e geniali ; imperocchè il K. rileva nel novelliere del W. la tendenza a riunire e fondere in una sola novella i temi di più narrazioni. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 169 Questo fatto non è però isolato nella storia della nostra novellistica ed il K. avrebbe potuto, senza molta fatica , ricordare altri scrittori , italiani e francesi, anteriori al W., i quali tennero lo stesso sistema per comporre le loro novelle. Il W. trovò presto imitatori in Inghilterra, fra cui merita di essere ricordato Roberto Greene. Non seguiremo passo passo il K. nella sua disamina, che sarebbe lavoro troppo lungo: del novelliere di Roberto Smyth e della Forrest ofFaucy basterà dire che vi si leggono novelle del Bandello, del Boccaccio e dello Straparola, tradotte non già dall'italiano, ma dal francese. Poichè è questo un fatto quasi costante nella storia della novellistica inglese, che le novelle italiane giunsero colà attraverso le traduzioni o i rifacimenti francesi ; ed è un fatto che c'induce a pensare che lo studio del K. avrebbe dovuto essere preceduto da un altro studio sovra la novella italiana nella letteratura francese del sec . XVII : studio molto più vasto e più interessante che dovrebbe allettare qualche nostro giovane erudito. Egli è certo che leggendo la monografia del K. più e più volte se ne risente il bisogno ; ed il K. stesso avrebbe fatto opera assai utile se ne avesse dato qualche cenno , come introduzione alle sue ricerche. Seguendo l'ordine tenuto dal K. ci vengono ora innanzi Barnaba Riche, che si ispirò principalmente al novelliere del Giraldi ; Bryan Melbancke, che trasse alcune sue narrazioni dal Filocolo del Boccaccio , già noto del resto agli Inglesi per una traduzione parziale fattane da un anonimo nel 1567, le Tarltons Newes out ofPurgatorie, desunte in gran parte dal Decam. , del quale si giovò eziandio lo sconosciuto autore del Cobler of Caunterburie, nonostante ch'egli protesti di essersi sottratto ad ogni influsso della novellistica italiana . 11 Cobler fu a sua volta preso a modello nel Westward for Smelts, raccolta più tarda di novelle (1620) , che deriva ancora da fonti italiane . Fra le quali il K. crede di poter scoprire la Moral filosofia del Doni per la nota novella del marito ingannato che taglia il naso non già alla moglie sua infedele, ma ad un'amica di costei. La Parte seconda dello studio del K. è, come dicemmo, una tavola delle traduzioni ed imitazioni inglesi di novelle italiane, nonchè delle allusioni che vi si leggono presso i letterati inglesi del 500. Da questa tavola si può scorgere con quale favore fossero allora accolte in Inghilterra le novelle italiane e specialmente quelle del Boccaccio e del Bandello ( 1 ) . G. R. LUDWIG VON SCHEFFLER. È studie. - - Michelangelo. Eine RenaissanceAltenburg, Steph. Geibel , 1892 ( 8° , pp. víп -228). questo un libro per varî rispetti così notevole , che gli studiosi del nostro Rinascimento non dovranno mancare di prenderne cognizione. L'A. stesso (1 ) Rimandiamo per qualche appunto di fatto alla recens. del VARNHAGEN inserita nel Literaturbl. f. germ. und rom. Philologie, XIII , 153. 170 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO ammette nella prefazione che il Michelangelo da lui interpretato e ricostruito è meno simpatico di quello che il pubblico conosce per lunga tradizione, e così è diffatti ; ma nella storia non si deve guardare alla simpatia , che è d'altronde tanto soggettiva, sì bene alla verità. La tesi principale che l'A. si propone di dimostrare è la seguente : Mich. fu tutto compenetrato dalle idee platoniche ; egli ebbe un sentimento larghissimo della bellezza corporea ; i suoi veri amori non furono che amori maschili. Per provare tutto ciò l'A. si fonda principalmente sulle testimonianze dei contemporanei e sulle rime del sommo artista. Comunque si giudichi il valore dell'indagine dello Sch. , fa d'uopo convenire che mai le liriche del Buonarroti furono sottoposte ad un esame così minuto e profondo. La storia di quelle rime non è lunga. Il pronipote dell'eccelso artista, Michelangelo Buonarroti il giovine, introdusse molte modificazioni nella stampa di esse, ch'egli diede nel 1623. Non solo modificò, ma falsificò ; e Mario Guiducci, nella lezione su quella stampa, recitata all'Accademia fiorentina , gli tenne il sacco. Dobbiamo giungere sin oltre la metà del secolo corrente, se vogliamo imbatterci in uno studio veramente serio intorno alle liriche di Mich.: quello di Guglielmo Lang ( 1) . Il Lang giunge alla conclusione che scopo dell'amore di Mich. è il suo ideale artistico. Due anni dipoi , nel 1863, Cesare Guasti porgeva al pubblico una edizione dei versi autentici di Mich. quali risultavano dagli autografi pervenuti per lascito al municipio di Firenze. Allora finalmente fu dato agli studiosi di conoscere il vero Mich. poeta : lo stesso Lang , in un articolo del Grenzbote 1866 , rilevava questo smascheramento , ma il suo concetto fondamentale rimase inalterato. << Die << wahre Geliebte Michelangelo's ist die Idee seiner Kunst » . Il Guasti nella prefazione alle rime ed il Gotti nella biografia di Mich. , quantunque disponessero di materiale prezioso , nulla seppero determinare rispetto ai suoi amori. Il Gotti insiste sulla relazione con la Colonna, ma egli meno di altri era in diritto di farlo, non avendo trovato nella corrispondenza di Casa Buonarroti nessun nuovo argomento di fatto. Mettendo a fronte le narrazioni biografiche del Condivi e del Vasari, e specialmente facendo tesoro di quanto scrisse B. Varchi nel commento ad uno dei sonetti di Mich. e nel discorso funebre , lo Sch. ritiene che il grande artista, amatore divinissimo, come il Varchi stesso lo chiama, nutrisse una vera passione per il bellissimo giovane romano Tommaso de' Cavalieri. La storia di quella relazione, strana agli occhi nostri, ma non volgare nè bassamente sensuale, ricostruisce lo Sch. , con molta ingegnosità, per mezzo delle rime di Mich . e delle sue lettere pubblicate da G. Milanesi . È indubitato che in questo modo riescono più intelligibili certe espressioni del Buonarroti, che altrimenti hanno del misterioso ; per es. in una lettera a Sebastiano del Piombo, egli dice del Cavalieri , « se m'uscisse della mente , credo che su- << bito cascherei morto » ; in un'altra , direttamente rivolta al medesimo messer Tommaso, dopo avergli attestato lo « smisurato amore » che gli porta, esce in queste parole : « posso prima dimenticare el cibo di ch'io vivo, che << nutrisce solo il corpo infelicemente , che il nome vostro , che nutrisce il (1) Michelangelo als Dichter, Stuttgart , 1861 . BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 171 << corpo e l'anima, riempiendo l'uno e l'altra di tanta dolcezza, che nè noia « nè timor di morte , mentre la memoria mi vi serba , posso sentire » . Costretto a star lontano da Roma, si fa mandare continue informazioni di colui che Bartolomeo Angiolini chiamava « l'anima vostra », e desidera ardentemente di tornare , e si dice dimagrito e invecchiato di vent'anni per l'assenza (v. pp. 42 a 45) . Tuttociò , bisogna convenirne , non è normale. E le liriche rispecchiano quella passione. Uno dei sonetti termina con un giuoco di parole significante quanto trasparente : Se vint' e preso i ' debbo esser beato maraviglia non è se, und' e solo, resto prigion d'un Cavalier armato. Questa tenerezza così straordinaria pel giovine Cavalieri riuscì poco spiegabile ai moderni studiosi della vita di Mich. , i quali ricorsero ad ipotesi singolari. Il Gotti congettura che scrivendo a lui « intendesse piuttosto di « volgere le sue parole alla Colonna ! » ( i ) ; lo Springer (2) suppose un «< pa- << rossismo dell'amicizia » , un' « aberrazione della fantasia » , da cui Mich. sarebbe stato richiamato dall'amore per la Colonna ; il Guasti giunse a sospettare che il signore , cui sono indirizzate molte delle liriche , fosse una donna. Nessuna di queste spiegazioni inverosimili è necessaria, quando si ammettano le conclusioni dell'A. Nello spirito alto, schivo, solitario, poco popolare di Mich. egli legge tutto un sistema paganeggiante, che invade il pensiero, entra nel sentimento, ispira l'arte di quel sommo. I più schietti rappresentanti dell'eros di Mich. sono i suoi sonetti al signore, vale a dire a Tommaso Cavalieri, che l'A . analizza con acume ; forse anche taluni dei sonetti amorosi diretti a donne sono una contraffazione di Mich. stesso di sonetti prima rivolti al Cavalieri , contraffazione a cui l'autore si sarebbe piegato quando vide i suoi versi diffusi tral pubblico e senti lo scherno triviale dell'Aretino porre in burletta le sue simpatie maschili . Mich. non odiava le donne, ma non le sentiva eroticamente : un fenomeno, sia pure patologico, che l'antichità greca ci presenta in molti spiriti elevati, e di cui nella mo. dernità v' ha esempio insigne nel Winckelmann. Quindi se l'uomo (Tommaso) fu l'amante , la donna (Vittoria) fu l'amico di Mich . Quando essa morì, Mich. scriveva al Fantucci ; « Morte mi tolse uno grande amico » . Assai persuasiva mi sembra la parte di questo libro in cui l'A. cerca provare che tra Mich. e Vittoria vero amore non vi fu mai , ma v'ebbe invece un'alta, poderosa amicizia (3) . Infatti di quell'amore tanto decantato i documenti rimastici sono ben pochi e ben poco significanti. Ma l'A. fa seguire alla sua dimostrazione negativa un argomento positivo ben forte. Egli mostra (1) Vita di Michelangelo, I , 231 . (2) Raphael und Michelangelo, p. 447. (3) Dobbiamo osservare che lo Sch. non è troppo informato degli ultimi studi sulla Colonna. Non conosce il Carteggio e non cita mai il libro del Reumont. Ripete a p. 125 il vecchio errore di far nascere Vittoria nel 1490 e a p. 138 quasi si meraviglia che sapesse di latino. Quante gentildonne della Rinascenza lo conoscevano ! 172 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO che appunto negli anni del cosidetto amore per Vittoria cade la corrispon denza con Luigi del Riccio, un amico di Mich. che sentiva come lui l'amore all'antica. Quei due amici erano affratellati nell'erotismo platonico : essi ammiravano entrambi il bellissimo giovinetto Cecchino Bracci. Questo Cecchino viene quasi divinizzato dall'ammirazione di Mich.; nè par possibile che tale sentimento potesse conciliarsi con un vero amore per la Colonna. Posti così in chiaro i fatti, l'A. si addentra nella motivazione teorica (1) . Egli esamina con molta dottrina i riflessi delle teorie platoniche nelle poesie di Mich. Il Condivi ed il Varchi affermano ch'egli conobbe il Simposio ; lo Sch. tiene per certo che avesse studiato anche il Fedro, di cui ridiede mirabilmente alcuni concetti ne' proprî versi . Di quel suo platoneggiare i contemporanei s'accorsero , nè solo i menzionati : ne' dialoghi di Donato Giannotti, le idee platoniche di M. sono efficacemente rappresentate ; Francesco Berni dice di aver lette tutte nel mezzo di Platone le composizioni poetiche di quel grande (2) . Il platonismo, entrando nel sentimento, diede motivo ad una lotta interna vivissima nell'animo del Buonarroti . Nelle sue rime vi sono dei veri gridi di dolore : esse ci fanno assistere ad un dramma psicologico dei più penosi. Sol io ardendo all'ombra mi rimango, quando ' l sol de' suo' razzi ' l mondo spoglia, ogn'altro per piacere, et io per doglia, prostrato in terra mi lamento e piango. Voler vincere i « vani appetiti » , volersi sottrarre alle calunnie del volgo, di cui Pietro Aretino non esitò a farsi il portavoce , voler soddisfare nel tempo stesso all'immenso bisogno d'idealità e d'affetto, erano tutte cose atte a provocare in Mich. uno stato di raccoglimento doloroso , di burbera predilezione per la solitudine. In seguito il sentimento erotico venne ad allargarsi ed a svolgersi nel sentimento religioso , nell'amor divino: uno stemperarsi della paganità nel cristianesimo che il Rinascimento solo era in grado di produrre. Lasciato libero d'esplicarsi nella vôlta della Sistina, Mich. vi rappresentò con la sua formidabile arte il concetto platonico. L'esame che l'A. fa di quelli affreschi, alquanto astruso, è frutto evidente di lunga meditazione. In questa parte, peraltro, noi avremmo voluto ch'egli si fosse dilungato di più. Diffatti, a noi sembra, non solamente la volta della Sistina, ma tutta l'arte di Mich. può ricever lume da questa maniera nuova di considerare il suo pensiero e la sua psiche. L'A. invece si limita a quel mirabile soffitto ed al famoso, quanto bizzarro, tondo della Tribuna degli Uffizi, che ha nel primo piano una sacra famiglia, e nel secondo dei gruppi di giovani ignudi. Noi davvero non ci attentiamo di pronunciare un giudizio su questo libro dello Sch.: ci basta di averlo additato agli studiosi come uno studio origi. (1) Per istudio di chiarezza, io ho mutato alquanto l'ordine della trattazione, che nel libro dello Sch. non mi sembra irreprensibile. (2) Vedi p. 124 nell'ediz . Virgili. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 173 nale, pensato e fecondo di buone considerazioni. Vengano o non vengano nuovi documenti dell'archivio Buonarroti a confermare o a distruggere quanto l'A. sostiene, sta il fatto che la figura di Mich. è certo una delle più miste riose e involute fra quante ne presenta la storia dell'arte nostra, nè i molti studî fatti sinora valsero a chiarire quel mistero. Esso risiede ne' penetrali più riposti di quell'anima grande e sdegnosa , cui nessun'arte fu avara de' suoi segreti. Ora la teoria dello Sch. , basata su tutto lo sviluppo ideale del Buonarroti e segnatamente sulle sue rime, chiarisce certamente molte oscurità, risolve molte dubbiezze, si adatta molto bene alle inclinazioni del pensiero artistico italiano nel sec. XVI. Anche la posizione di Mich. rispetto a Raffaello guadagna in evidenza , ed è strano , ma vero , che il rigido platonismo michelangiolesco appare molto più povero d'idee della flessibilità ed impressionabilità artistica del Sanzio , la quale si diffonde in motivi d'arte così svariati e numerosi, ch'è uno stupore. S'intende come quei due dovessero odiarsi. << Non due rivali , ma due mondi differenti si stavano di fronte ». Il mondo ellenico con la fulgida rappresentazione della bellezza maschile, col sentimento dell'eros ; il mondo cristiano, culminante nel culto per la donna. R. CARLO MERKEL. Adelaide di Savoia Elettrice di Baviera. Contributo alla storia civile e politica del Milleseicento. Torino, Fratelli Bocca, 1892 (8° , pp. 1x-400) . L'argomento che il Merkel ha studiato in questo volume non è né nuovo né del tutto inesplorato : già nel 1877 il barone Claretta aveva tessuto una biografia di Adelaide , figlia di Vittorio Amedeo I e di Maria Cristina, sposa nel 1652 a Ferdinando Maria elettore di Baviera, e parecchi dotti tedeschi avevano, prima e dopo, illustrato la parte che ella ebbe negli avvenimenti politici del suo tempo e quel fervore di vita artistica e letteraria che fu da lei suscitato nella capitale bavarese. Ma non per questo il libro del M. perde punto della sua importanza : la copia del materiale inedito su cui è condotto, la buona critica con cui sono vagliate le testimonianze delle varie fonti, la chiarezza dell'ordinamento ne fanno un lavoro nuovo ed originale, che mentre raccoglie, coordina , corregge i risultati delle ricerche altrui , li amplia largamente e li compie sempre con quella serena obbiettività , che altri non aveva saputo mantenere. Fondamento della narrazione è la ricca corrispon denza della principessa conservata nell'Archivio di Stato di Torino , ma ad illustrare e confermare o modificare le notizie che ne trae, il M. ha sapientemente invocato il sussidio di altri carteggi, si è, quando occorreva, giovato di libri rari specialmente delle biblioteche di Monaco , così che da queste pagine balza fuori l'attraente figura della principessa sabauda ben lumeggiata in ogni sua parte : nella vita intima (Parte prima), nella vita politica (Parte seconda), nella vita artistica e letteraria (Parte terza). 174 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Il M. spesso ha riassunto le testimonianze dei documenti , ma più spesso ha lasciato parlare la protagonista nel suo cattivo francese, cui conservò la scorrettissima ortografia dell'autrice : e ha fatto bene, perché davvero la energica vivacità , la rude e talvolta pettegola franchezza delle lettere di Adclaide meritavano di essere direttamente sottoposte all'attenzione del lettore, come riflesso di uno fra i pregi più notevoli di quel complesso carattere di donna, la schiettezza. Il pronunciare un giudizio morale complessivo su di una persona è sempre difficile , perché i caratteri umani presentano facce e sfumature molteplici, che le strettoie di una formula concreta e ampiamente comprensiva di rado riescono ad abbracciare e con piena esattezza a rilevare ; tanto più difficile è nel caso presente per i diversi elementi , dei quali bisogna pur tener conto: il temperamento nervoso che la principessa aveva sortito da natura , l'educazione e gli esempi che la famiglia le aveva dato , le condizioni in cui venne poi a trovarsi. Non ostante una tale difficoltà , anzi appunto per questa avremmo desiderato che il M. dopo aver compiuto, colla diligenza e col buon discernimento , che gli sono proprî , il lavoro analitico , si fosse provato a delineare in poche pagine un ritratto dell'Adelaide, quale appariva a lui che ne ha studiato sì profondamente la vita ed ha mostrato di giudicarne sì rettamente le azioni nelle osservazioni sparse qua e là pel volume. Le poche considerazioni, colle quali conchiude la prima parte (pp. 136-58) , non ci pare possano soddisfare un tal desiderio . L'indole di questa rivista non ci permette di render conto minuto di tutto il lavoro e nemmeno di andarne spigolando i mille aneddoti caratteristici, le mille espressioni efficaci e , per chi le sappia interpretare , significative : ne potrebbe venir fuori uno studio interessante non solo la storia, ma anche la psicologia. Qui invece dobbiamo restringerci a porre in evidenza quelle parti del libro, che più direttamente riguardano i nostri studî. Alcuni anni or sono il Reinhardstöttner ed il Trautmann, studiando le relazioni tra la letteratura italiana e la corte bavarese (cfr . Giornale , X, 437 sgg.) , mostrarono quale efficace azione abbia avuto su questa la principessa Adelaide . Il lavoro del M. non solo chiarisce e determina meglio l'indole di codesta azione , ma anche fa vedere attraverso quali difficoltà , dopo quali lunghe e penose lotte essa si sia manifestata . Quel bagliore di vita letteraria ed artistica che l'espandersi irresistibile della coltura italiana aveva prodotto anche a Monaco nella seconda metà del secolo XVI, si era spento per le sventure, che aveano colpito il paese nella disastrosa guerra dei trent'anni e, quantunque già prima dell'arrivo di Adelaide le nuove mode di Francia vi avessero fatto capolino (p. 345), pure la corte viveva di una vita semplice e austera e si mostrava tutta intenta a sanar le piaghe del paese, punto propensa ad accogliere costumi, che discordassero da quelli patrii. Adelaide, assuefatta fin da fanciulla alla vita gaia e brillante di una corte, che ormeggiava quella di Francia, si trovò dapprincipio assai male: i costumi della Baviera le parevano « fort estranges » ( p. 18) , i principi stessi << fort incivils » (p. 26) ; il marito rozzo, taciturno, melanconico << non fatto alla <<< moda » (p. 21 ) ; si scandolezzava vedendo la suocera bazzicare in cucina ed in istalla (p. 28) ; persino i divertimenti le apparivano noiosi e sgarbati (p. 339). BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 175 L'elettore Ferdinando Maria era ancora sotto tutela, onde su lui e su tutti spadroneggiava l'elettrice vedova, Marianna d'Austria, ed il ministro Kurtz. Tra la suocera e la nuora, impaziente di tal superiorità , si impegnò una lotta sorda e continua , che talvolta prorompeva in aperti dissapori e che mette in rilievo la tempra tenace, energica, indomabile della principessa, molto diversa da quella debole e remissiva del marito di lei. Soltanto dopo la morte di Marianna (1665) , l'Adelaide fu ammessa al consiglio di stato (p. 297) e poté far valere le sue idee di politica antiaustriaca : « les princesses de Sa- << voye ont des testes plus propres pour les afaires , que [ pour] s'ennuyer << dans l'oisiveté » , ella scriveva con aria di trionfo al fratello Carlo Emanuele II il 23 maggio 1666. Ma sui costumi della corte l'Adelaide era riuscita a far sentire la sua influenza ancora vivente la suocera. Le feste, dapprima rade e modeste , si erano andate facendo sempre più frequenti e splendide : erano balli (ballets) spesso inventati e diretti dalla principessa, tornei, drammi in musica, che venivano a prender posto accanto al divertimento tradizionale bavarese, la Wirthschaft Pare che in sulle prime questa festa non garbasse all'Adelaide (p. 344), ma più tardi ella ci si divertiva e volentieri vi prendeva parte (pp. 348, 358) ; forse anzi suggeri al fratello l'idea di rappresentarla a Torino (1 ) . I balli erano per lo piú preceduti da introduzioni drammatico-musicali, delle quali, come dei drammi, fornivano il libretto verseggiatori italiani attratti a Monaco dalla presenza della gaia principessa italiana: Giorgio Giacomo Alcaini, Giambattista Maccioni, Pietro Paolo Bissari, Francesco Sbarra, il marchese Ranuccio Pallavicino e il fecondissimo Domenico Gisberti, autore non solo di componimenti teatrali , ma anche di una voluminosa raccolta di liriche , Le nove Muse (pp. 384-5 n.) . Se così alla corte bavarese risonava la voce della poesia italiana , dalla corte di Luigi XIV vi giungeva la passione per lo splendore delle feste, per le mode suntuose e civettuole. L'influsso francese si fece sentire più vivo negli ultimi anni della vita di Adelaide, quando dalla Francia prese l'orien tamento anche la politica bavarese. Nel 1667 un burattinaio italiano, Pietro Gimondi detto Bologna, intrattenne piacevolmente per sei mesi la corte colle sue rappresentazioni, ma quattr'anni dopo una compagnia di comici francesi , diretta da Filippo Millot, prese stabile stanza a Monaco, e per questa Adelaide rifiutò persino una compagnia comica italiana raccomandata da Carlo Emanuele; nell'agosto del 1673 i musici della cappella di Luigi XIV cantarono dinanzi all'Elettrice e all'Elettore , il quale , « quoiqu'il soit extreme- (1) Parlando della Wirthschaft, rappresentata a Monaco nel carnevale del 1654, Adelaide dice: <<< il feront un buirdchaft, que c'est une feste come la Royne de la feue ( ! ) , et il a toute les <<< natione più innanzi : « l'on a tiré les nom du buirdschaft, à M. l'Electeur il luy touche < d'estre hoste et moy hostesse » (p. 348) . Ora sappiamo che il giorno di S. Nicola del 1665 fu rappresentata alla corte di Torino una fiera di varie nazioni descritta e dialogata in versi << di più lingue, dialetti e gerghi » e zappate (così , o sapates, si chiamavano queste feste) furono colà rappresentate pure nel 1667, nel '68 e nel '69 , proprio negli anni in cui più vive erano le relazioni fra le due corti. Par ovvio dunque ritenerli un'imitazione delle Wirthschaften bavaresi (vedi MANNO-PROMIS, Bibliografia storica degli stati della Monarchia di Savoia , vol. I , Torino, 1884, p. 56). 176 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO « ment partial de la musique italienne, ne laissa pas de trouver des agrée- << ments dans la françoise » (pp. 388-9). Né di questo predominio che la Francia andava acquistando s'hanno a fare le meraviglie , chi pensi come nel secolo XVII il centro verso cui gravitava la civiltà europea era appunto Parigi e come tutta francese fosse l'educazione dell'Adelaide. Questa infatti scriveva sempre francese e francesi erano pure le sue letture (pp. 336-37, 356 n. 1) , onde è ben legittimo il dubbio che la mano pietosa di un correttore la abbia aiutata nella composizione delle ottave da lei premesse alla Vita della B. Chiara degli Agolanti del padre Stefano Pepe (1661) e della lettera sui miracoli di S. Gaetano Thiene (1662), libretto quest'ultimo che ebbe un secolo dopo l'onore di una traduzione tedesca (pp. 364-6). Ma se non in tutto la forma, certo il contenuto era opera dell'Elettrice, che dedita com'era ad opere di pietà , raccolse pure una copiosa serie di preghiere italiane, stampata non meno di quattro volte a Monaco ed a Torino tra il 1656 ed il 1670 (pp. 355-6). Questi libri attestano non pure dell'amore di Adelaide per le lettere, ma, e più, del suo attaccamento alla religione. Religiosa infatti ella era , anzi superstiziosa, come la società che la circondava (1), ma talvolta l'indole sua vivace e impaziente si ribellava e le pratiche ascetiche, cui le abitudini della corte la obbligavano, richiamavano sul suo labbro espressioni di mal represso fastidio (pp. 77, 354). Le poche notizie, che fra le mille siamo venuti spigolando in questo libro, avranno dato al lettore un'idea della sua importanza e gli avranno fatto intendere come esso non solo sia una piena e diligente biografia della principessa piemontese , ma rechi un prezioso contributo alla storia del costume nel secolo XVII. V. R. GAUDENZIO CLARETTA. Italia. - - La regina Cristina di Svezia in Torino, Roux, 1892 ( 8 °, pp. XVI-456) . Su larghissima base di documenti, di cui una cinquantina trovasi pubbli cata integralmente nell'appendice, è condotto questo dotto volume. Giovarono specialmente al Cl. , per delineare la storia di Cristina di Svezia in Italia , le relazioni dei residenti della corte Sabauda e di quella di Toscana a Roma, non che il ricco carteggio della regina che si conserva nella biblioteca della Facoltà medica di Montpellier. Oltracciò egli trasse conveniente partito dalle parecchie memorie speciali documentate che si vennero pubblicando fra noi intorno all'una o l'altra parte della vita e delle relazioni di quella illustre gentildonna, e specialmente poi della curiosa e rara Histoire des intrigues galantes de la reine Christine de Suède et de sa Cour, pendant son séjour (1) Pagg. 333-36. Il Merkel stesso ha poi raccolto tutti gli accenni alla religione e a superstizioni , che si incontrano nel carteggio di Adelaide, in uno speciale articoletto dell' Archivio per lo studio delle trad. pop. , vol. XI, fasc. 2. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 177 e à Rome (Amsterdam, 1697) , i cui riferimenti , per quanto talora ingrossati, corrispondono il più delle volte a quanto si sa per altre fonti , ufficiali certamente genuine. L'Archivio Vaticano avrebbe potuto fornire larga messe di altre notizie ; ma non vediamo che sia stato esplorato a questo riguardo. Il libro ridonda di particolari curiosi per la storia del costume, di fatterelli innumerevoli, che lumeggiano assai bene la figura di Cristina. Lo studioso del seicento , specie di Roma, si troverà molto soddisfatto di questa lettura. L'impressione complessiva che si ricava intorno al carattere di Cristina (n. 1626, † 1689) non è certo molto favorevole. Il vederla così dappresso , seguendola nelle sue bizzarrie, ne' suoi pettegolezzi, ne' suoi ripicchi, ci fa concepire di lei un' idea ben desolante , ed oscura intorno alla sua brutta testa quel po' d'aureola che vi diffondeva la memoria del suo mecenatismo artistico e scientifico . Non già che a lei mancasse certa rude sincerità, certo coraggio virile, che talvolta accompagnava intenzioni rette ; ma queste qualità erano sopraffatte dalla turbolenza del suo temperamento bilioso ed a scatti, dalla stranezza ed inconseguenza del suo spirito male equilibrato, dispettoso, facile agli scandali . Come non ebbe nulla di gentilmente femminile nel volto, nella voce, nella persona, così pure nel suo spirito nulla di femminile può riconoscersi . Quella specie d'ermafrodito, colta, arguta, mordace, viveva in una continua irrequietudine. La sua conversione al cattolicesimo, che le fece abdicare lo scettro , e le nimicò i suoi Svedesi , e la indusse a dimorare stabilmente in Roma , lungi dal rammorbidire le tendenze dell' animo suo, sembra le fomentasse. In Roma fu il vero martello di certi papi , specie di quelli severi come Innocenzo XI, giacchè voleva divertirsi e spadroneggiare a suo piacimento, non intendeva sottomettersi alla legge comune, passava di puntiglio in puntiglio , di malignità in malignità , con quel suo carattere indisciplinato e riottoso. La sua religiosità aveva fasi e forme strane: talora, poche volte a dir vero, confinava col bigottismo più manifesto , per lo più camminava indipendente, quasi irriverente, quasi sdegnosa d'ogni guida terrena. Ciò non escludeva la superstizione , il culto passionato dell'alchimia, la fiducia nell'astrologia e negli indovini ; ma escludeva ancor meno l'alterigia tracotante verso le persone per un credente più rispettabili. La nota predominante del suo spirito era la violenza : violenza feroce , sanguinaria, come ebbe a mostrare in più fatti della sua vita , in grado eminente nell'orribile uccisione del marchese Monaldeschi, ch'ella ordinò e mantenne inflessibile, nonostante le rimostranze e le suppliche. Il Foscolo s'appose giudicandola << mezzo regina e mezzo letterata, mezzo magnanima, mezzo pazza, << intieramente feroce ». Nessuna dimostrazione di questa sentenza più eloquente del libro del Cl. , al quale va data lode di non aver voluto tentare una riabilitazione impossibile , ma d'essersi invece limitato ad una sobria , densa, non elegante ma ordinata, esposizione di fatti . Qualsiasi partito preso nuoce al biografo ; nè sono solamente le figure simpatiche della storia che meritano studio. L'intento speciale del Giornale nostro ci richiama alle relazioni letterarie della regina di Svezia, per le quali essa può riuscire in particolar guisa interessante ai nostri lettori. Diremo subito che queste relazioni non trovarono Giornale storico, XXI, fasc. 61 . 12 178 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO nel libro del Cl. quel commentario che forse i cultori di storia delle lettere avrebbero desiderato. Egli se ne occupa qua e là per incidenza, più di tutto nel capitolo che chiude il volume. Crediamo che a questo proposito si potrebbero ancora fare con frutto delle ricerche speciali. È infatti questo il lato più bello , se non l'unico bello , di quella principessa nordica , che in Roma fa praticare degli scavi, raccoglie quadri, medaglie e libri, si circonda di scienziati e di artisti e non conosce con loro alcuna taccagneria. Le più cospicue sue relazioni spirituali , di cui tocca l'A. , sono quelle col Bernini e con Alessandro Guidi, al quale ultimo inspirò l'Endimione, collaborandovi anche direttamente. Rende conto eziandio, molto breve, d'un esemplare del Principe di Machiavelli , postillato dalla regina , ch'è ora posseduto dal prof. Monaci (p . 327). Disseminate pel libro sono poi molte notizie di virtuosi e virtuose , che godettero della protezione di Cristina , e di spettacoli teatrali, specialmente melodrammatici , cui essa assistette. Gli investigatori delle vicende del nostro teatro nel sec. XVII potranno avvantaggiarsene. Importante è per noi la fondazione , dovuta a Cristina nel 1656 , di quel l'accademia reale, che doveva essere la culla dell'Arcadia (pp. 46-48 e 214). Di essa il Cl. ripubblica gli statuti , segnalando le modificazioni che la regina stessa v'introdusse di proprio pugno (pp. 366-69). Curiosa è pure la storia della insistenza di Cristina per ottenere il celebre Pirro Ligorio, che aveva ammirato nella biblioteca ducale di Torino. La corte di Savoia ebbe a fare di grandi armeggii per resistere a quella sua brama , ed essendosi complicata assai la faccenda, poco mancò che quei trenta volumi non prendessero il volo per Roma (pp. 94-97, 166 sgg. ) . Finalmente peraltro Cristina dovette appagarsi d'una copia imperfetta (p. 180) . Dei codici regalati dalla regina alla Vaticana (p. 134) e della sua biblioteca acquistata, dopo la morte di lei, da papa Alessandro VIII (p. 358), il Cl . fa solo un cenno. Ci sarebbe piaciuto assai di vedere più specificatamente in qual modo siasi costituito il fondo Regina, che, come a tutti è noto , non è certo dei meno ragguardevoli fra quelli che formano la grande libreria papale. R. FRANCESCO COLAGROSSO. - ― Studi di letteratura italiana. Verona, D. Tedeschi, 1892 ( 16°, pp. 262). Il prof. Colagrosso non ha fatto male di raccogliere in un volume questi suoi scritti critici pubblicati in tempi ed in luoghi diversi . Egli ha un ingegno eminentemente dialettico, e sa lavorare con ordine e con finezza. Gran che di nuovo , nei fatti , non si ricava certo dal presente volume; ma v'è copia d'osservazioni acute, di cui si può e si deve far tesoro. 1 tre primi studi che ci si presentano si riferiscono all'Alighieri . L'uno, intitolato Una storia della vita interiore di Dante, comparve già negli Studi critici del C., Napoli, 1884, e ne discorse questo Giornale, III , 463. Conformandosi al desiderio che ivi fu espresso, il C. lo ha sviluppato ed arricchito, rifacendolo in gran parte. Egli combatte con successo l'idea Wittiana della BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 179 trilogia, quale fu svolta, in tre lavori tedeschi , dallo Scartazzini. Si trattiene poscia sulla visione finale del Purgatorio e s'industria di mostrare, contro lo Scartazzini, non esser vero che i peccati di cui D. si purga nel paradiso terrestre siano affatto diversi da quelli espiati nelle cornici del monte dai diversi peccatori, e che Beatrice sia colà puro simbolo. In quella meravigliosa apparizione Beatrice è la donna reale trasfigurata, in lei « il senso allego- « rico non uccide il letterale..... anzi la figura non lascia più intravvedere << il figurato » (p. 36). I rimproveri di lei non prendono in mira i suoi pretesi trascorsi intellettuali, dei quali non v'ha alcuna prova sicura, ma piuttosto le sue infedeltà alla memoria purissima della donna amata, i suoi amori disordinati e sensuali . Sembra quasi un destino che nelle questioni dantesche si ritorni pur sempre alle interpretazioni antiche : quest'opinione infatti, dei trascorsi d'ordine morale rimproverati da Beatrice al poeta, fu professata, com'è risaputo, dai più fra i vecchi chiosatori. Del pari all'antico ritorna il C. nel suo secondo studio dantesco, Il primo accenno di D. al suo poema. Tale accenno è ravvisato nei notissimi versi della canz. Donne ch'avete intelletto d'amore : Là, ov'è alcun che perder lei s'attende, | E che dirà nell'inferno a' malnati : | Io vidi la speranza de' beati . Il C. ravvisa in quei versi un'allusione al futuro viaggio poetico ormai concepito, e combatte l'opinione del D'Ancona e d'altri che quivi D. si confessi così gran peccatore da meritare le pene infernali. E sia pure ; ma, a rimuovere le difficoltà cronologiche, a noi non sembra punto lontana dal vero l'ipotesi già emessa più volte che quella stanza fosse interpolata di sana pianta o per lo meno rifatta negli ultimi versi allorchè D. compose la parte prosaica della V. N. Il terzo studio dantesco discute Una variante di punteggiatura al C. XIII del Paradiso. Il C. combatte la proposta del Filomusi-Guelfi di segnare una virgola, anzichè un punto fermo, in fine al v. 105 del XIII Parad. , e contro lo Scartazzini sostiene che il v. 104 va letto Regal prudenza è quel vedere impari (non e congiunzione), interpretando : « dunque, se noti quanto io ti ho detto, « regal prudenza è appunto quel vedere senza pari di cui intendevo par- <« larti » (p. 78). Seguono tre studî d'argomento patrarchesco, di cui il più rilevante è senza le dubbio quello su La metrica nella cronologia del « Canzoniere » . Discutendo i risultati dell'Appel e del Pakscher e profittando delle loro ricerche, l'A. crede che nell'ordinamento del Canzoniere l'intento artistico soverchiasse spesso nel poeta la sua intenzione di disporre le rime secondo la cronologia. L'importanza di questo scritto è scemata d'assai dopochè, con esame ben più minuto e definitivo, venne a conclusione non molto diversa il Cesareo ( Giorn., XIX e XX). Lo studio del C. è però condotto con accuratezza, e l'esposizione della metrica del Canzoniere conserva sempre (prescindendo da ogni tesi) il suo valore. Notevoli le considerazioni sul peso che può avere la metrica nel valutare la cronologia d'una raccolta di liriche. Il pessimismo del Petrarca ricerca il C. particolarmente nel suo epistolario, ed in un altro studio pon mente ad Una lettera del Petrarca non ancora ben considerata. Si tratta d'un passo delle Familiares, L. IX, ep. 4ª, in cui il P. accenna al suo amore. Il C. accosta quel passo ad alcuni brani spesso richiamati del Secretum, per dedurne che Laura dovette certamente esser moglie altrui, - 180 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO che essa non fu sempre nè una dea nè una santa, e che l'amore del poeta per lei, movendo da desiderî e da propositi sensuali, si venne sempre più innalzando e purificando. Dei tre studî di letteratura più moderna, con cui il volume si chiude, è particolarmente istruttivo quello che considera Il « Saul » dell'Alfieri e quellodel Lamartine. Con metodo encomiabile, l'A. pone anzitutto nella loro vera luce storica, seguendo il Rénan, le figure di Saul e di David, per poi passare all'esame dello sviluppo psicologico che v'è nella tragedia dell'Alfieri di cui fu sovrano interprete Gustavo Modena. Il Lamartine non si discostò nell'ossatura del dramma dall'Astigiano, ma vi aggiunse particolari che non ridondano quasi mai a vantaggio dell'opera d'arte, e diminuiscono l'efficacia plastica grandiosa che ha ne' suoi trapassi psicologici la figura di Saulle ideata dall'Alfieri. Lo scritto su d'Un nuovo commentatore del Leopardi riguarda l'edizione commentata di undici canti leopardiani data nel 1883 da P. E. Castagnola, ed era già a stampa, si può dire tal quale, nei cit. Studi critici del C. Più d'uno non riuscirà a vedere l'opportunità della presente riproduzione, tanto più ora che di tutti i canti del Leopardi (e non solamente di undici) abbiamo una nuova edizione col commento del Castagnola corretto ed accresciuto (Firenze, Le Monnier, 1893) . Nell'altra recensione, intitolata Un libro postumo del De Sanctis, l'A. , servendosi delle Memorie di lui, cerca lumeggiare la figura del geniale pensatore napolitano. Z. Il dialetto veneziano fino alla morte di Dante Alighieri. Notizie documenti editi ed inediti raccolti da E. BERTANZA e V. LAZZARINI. - Venezia, 1891 (4°, pp. xI-88) . Il dialetto di Venezia può certo ascriversi tra i più fortunati d'Italia, sia per la copia di documenti che di esso ci furono tramandati, come per le cure che a lui rivolsero, sopratutto ai nostri giorni, i glottologi più rinomati. E di tale dovizia ci offre altra testimonianza la presente raccolta , la quale riuscirà gradita specialmente al linguista per gli intendimenti coi quali fu intrapresa e per certi suoi caratteri peculiari. Vero è, osservano gli editori, che per Venezia noi non conosciamo un solo monumento di una certa estensione, o prosastico o poetico, che si possa con sicurezza far risalire oltre il secolo XIII, e che i documenti originali che di questo secolo ci restano sono relativamente scarsi, ma per compenso quelli in vernacolo veneziano scritti nel sesolo XIV sono tali e così numerosi, quali nessuno potrebbe immagi nare. << Da un esame rigorosamente sistematico, scrivono essi, che noi vi << abbiamo praticato, ci risultò che in alcuni archivî dell'antica Repubblica << si conservano ancora gli originali di tante scritture in volgare veneziano << da poterne formare, e con quelle soltanto che stanno fra il 1300 e il 1350, <<< un volume di qualche migliaio di pagine : in un solo anno nel 1348, BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 、 181 << quello della terribile peste << centinaia ». - ci trovammo d'averne rubricate parecchie Dinanzi a tanta ricchezza di documenti, gli editori per far cosa matura e che per ciò riuscisse di maggior giovamento agli studiosi si proposero di non oltrepassare l'anno della morte di Dante ; certo è da sperare ch'essi non vorranno abbandonare l'impresa e defraudarci per l'avvenire di altri saggi simili a questo. Poichè , come già ebbimo a dire , la presente raccolta si raccomanda per certi suoi caratteri particolari. Le scritture venete che si hanno a stampa anteriori al 1321 non sono certo poche, ma esse trattano il più delle volte argomenti religiosi e didascalici, mostrando una tendenza manifesta ad assurgere ad una forma letteraria, e provengono quasi tutte da manoscritti posteriori al secolo decimoquarto. La novità e l'importanza della nostra raccolta consiste appunto sia nella sostanza dei documenti che versano quasi sempre sopra interessi privati, sia nella forma loro prosastica , la quale riflette molto più davvicino la parlata del popolo; al che si aggiunga che tali scritture o sono originali o tolte da copie autentiche. Quanto al metodo nella pubblicazione gli egregi editori ebbero per iscopo di riprodurre esattamente la grafia dei documenti, prendendosi solo la libertà di introdurre poche modificazioni, di cui dànno ogni volta ragione ; del resto le varietà grafiche degli originali sono sempre rispettate ; e anche di questo noi dobbiamo essere loro grati. Gli editori sperano colla presente pubblicazione di poter contribuire a risolvere la questione che fece sorgere la lettera che Dante avrebbe scritto a Guido Novello, nella quale dei Veneziani si dice, che non solamente non attendevano allo studio della lingua latina, ma che non avrebbero neppure intesa la italiana, con che essi sembrano credere nell'autenticità di tale lettera e sperare che altri creda ! Nè da questi documenti potrà forse derivare tutta quella nuova luce ch'essi credono per la soluzione di un'altra questione, quella cioè della esistenza nel secolo decimoterzo di una specie di idioma letterario nell'Italia settentrionale, che avrebbe cercato il suo tipo o modello esclusivo nel vernacolo veneto o veneziano. Non staremo qui a chiedere agli editori quello ch'essi intendano precisamente col dire che « il vernacolo di « Venezia è da considerarsi ancora tra i più schietti e genuini avanzi del- <<< l'antichissima civiltà d'Italia » nè a rilevare alcune dimenticanze bibliografiche, perchè alcune mende sono poca cosa in confronto dei molti pregi della raccolta. 2 E. G. COMUNICAZIONI ED APPUNTI I. Due note manzoniane. « Carneade! Chi era costui? ― ruminava tra sè don Abbondio seduto <<< sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo << aperto davanti ..... » . L'esclamazione di don Abbondio doventò proverbiale e famosa, come tanti altri detti del mirabile romanzo. Chiedere perchè il Manzoni tirò fuori il nome di quel letteratone del tempo antico, sembrerebbe forse una stranezza bell' e buona : eppure non è così. Accostiamo alle parole messe in bocca di don Abbondio queste altre di un dialogo di Agostino (1) : « Tum << Licentius : Carneades, inquit, tibi sapiens non videtur? Ego, ait, Graecus « non sum, nescio Carneades iste qui fuerit ». Non coincide la domanda di don Abbondio : << Carneade ! Chi era costui ? » con la frase di Agostino : << nescio << Carneades iste qui fuerit » ? Il Manzoni aveva studiato il gran dottore africano, e ne fa fede la lettera sua al Poujolat (da questo pubblicata alla fine del primo volume della sua Histoire de saint Augustin) nella quale, da par suo, cerca di determinare dove precisamente sorgesse il celebre Cassiacum, ove Agostino si era ritirato con la madre, il figlio e gli altri amici, per prepararsi al battesimo. E notisi che il dialogo contra Academicos è opera nata dalla conversazione di Agostino e de' suoi compagni, durante il tranquillo soggiorno di Cassiaco. Non parrà dunque più strana, dopo queste considerazioni , l'ipotesi che il Manzoni, scrivendo i Promessi Sposi, ricordasse il nescio Carneades iste qui fuerit, e lo facesse dire al povero don Abbondio, come saggio della non troppo ampia cultura del clero d'allora. 11. -L'innominato convertito e contrito, nel suo discorso a' suoi bravi, col quale annuncia la sua risoluzione ferma di mutar vita, fra le altre cose, dice anche: « Sappiate dunque, e tenete per fermo che son risoluto di prima « morire che far più nulla contro la sua legge ». Queste parole hanno una significazione, ci si permetta l'espressione, tecnica e palesano ancor una volta la somma esattezza del Manzoni in ogni più minuta particolarità dell'opera sua. Quello che l'innominato dice altro non è se non la traduzione d'un brano del Catechismo romano, riguardante la penitenza : «< illud sequitur, << ut quam ob causam Deum summe diligendum esse confitemur, ab eandem << rursus peccati summum odium nos capiat necesse sit. Omnibus vero rebus « Dei amorem anteponendum esse, ita ut ne vitae quidem conservandae « causa peccare liceat etc. » (2). NINO TAMASSIA. (1) Contra Academicos, C. III , no 7, in Opera, ed. Venet. 1833, I, p. 305. (2) Catechismus ex decreto SS. Concilii Trid. Pii V iussu editus, Pars II, cap. V, no 27. CRONACA Per difetto di spazio è rimandata al fascicolo prossimo la sottorubrica PERIODICI. * Salutiamo con vivo compiacimento il nascere della Rassegna bibliografica della letteratura italiana sotto la direzione del prof. A. D'Ancona, coadiuvato da alcuni giovani valorosi . Questo periodico mensile si propone di render conto con sollecitudine ed imparzialità di quanto si vien producendo nel campo tanto coltivato della storia letteraria italiana. Ha dunque specialmente carattere informativo, e senza dubbio gli studiosi dovranno fargli buon viso, poichè completa, in certa maniera, il Giornale nostro, il quale uscendo ogni due od ogni quattro mesi in grossi fascicoli non sarebbe mai in grado di aggiungere alla copia delle sue notizie la desiderata prontezza. * L'editore Battei di Parma pubblicherà una Rivista critica e bibliografica della letteratura Dantesca, diretta da G. L. Passerini. Uscirà ogni mese con l'intendimento espresso di tener informato sollecitamente il pubblico di quanto vien comparendo di nuovo in fatto a studî su Dante. Siamo informati che la Direzione della nuova Rivista s'è accordata con l'altro periodico dantesco, L'Alighieri , il quale si limiterà d'ora innanzi alla pubblicazione di memorie e critiche più estese. * Della raccolta di Curiosità popolari tradizionali edita dal Pitrè è uscito un nuovo volume, l'undecimo, che forma la prima parte dei Canti popolari sardi raccolti ed illustrati da Vitt. Cian e P. Nurra ( Palermo, Clausen, 1883). I mutos che compaiono in questo volume, di soggetto amoroso, satirico, morale ecc. , sommano a 868 e sono corredati di sobrie annotazioni, che valgono ad agevolarne la non facile intelligenza. Più d'un saggio n'era già stato prodotto, in edizioni non venali , dal Cian medesimo (cfr. Giorn. , XV, 334). La presente pubblicazione, più ancora che quella del Ferraro comparsa nel 1891 , è atta a farci conoscere la poesia inoppugnabilmente genuina del popolo sardo, la quale ha dato già luogo a tante discussioni . Il vernacolo è quello del Logudoro. * All'instancabile prefetto della Vaticana, mons. Isidoro Carini, dobbiamo un nuovo libro che s'intitola La Biblioteca Vaticana proprietà della Sede Apostolica, Roma, tip. Vaticana, 1892. È una memoria storica destinata a dimostrare che quella preziosa raccolta di libri a stampa ed a penna non ha nulla 184 CRONACA a che vedere col governo temporale della Chiesa, ma è invece proprietà del pontefice come capo spirituale di essa. Non è affar nostro l'addentrarci nella delicata questione giuridica ; ma vogliamo richiamare l'attenzione dei lettori nostri sul libro, che è assai pregevole perchè attingendo ad ottime fonti dà uno schizzo storico delle molte e varie vicende cui la Vaticana andò soggetta. Questa storia compendiosa è divisa in tre grandi periodi : 1 ° , dalle origini della Chiesa allo scorcio del sec . XIII ; 2°, dal pontificato di Bonifacio VIII alla morte di Martino V ( 1431), che comprende la biblioteca Avignonese; 3º, da Eugenio IV a Leone XIII. * Nella disp. 244 della Scelta di curiosità letterarie il prof. A. Medin ha pubblicato il poemetto su La obsidione di Padua nel MDIX, Bologna, Romagnoli , 1892. Il noto poemetto antico di sei canti in ottava rima è una narrazione diffusa ed esatta dell'assedio di Padova, scritta da un autore sincrono. Un esemplare della rarissima edizione principe di esso si conserva nella bibl. Comunale di Padova. Il M. , offrendo questa ristampa moderna agli studiosi, non si è appagato di parlare di quel notevole documento e del suo autore nella prefazione : ma ha voluto corredarlo d'un ricchissimo commentario storico. Chiudono il volume tre appendici : la prima contiene la stampa di quella parte degli inediti Ragionamenti domestici delle guerre d'Italia (cod. Estense VII. D. 13) che concerne l'assedio di Padova ; la seconda riferisce le poesie composte durante il suddetto assedio, tranne quelle in vernacolo pavano, che E. Lovarini pubblicherà fra i suoi Testi di letteratura pavana ; la terza si occupa del costume guerresco della gatta, che trovò già più d'un illustratore anche nelle pagine del nostro Giornale. Cfr. spec. V, 504 e XVI, 434. * Il dr. Emilio Vogel, ben noto cultore di storia della musica, ha dato in luce in due grossi volumi una Bibliothek der gedruckten weltlichen Vocalmusik Italiens (edit. Haack ; Berlin, 1892). La bellissima pubblicazione, su cui speriamo di poter ritornare, fu condotta a spese della Schnyder von Wartensee-Stiftung di Zurigo. Essa descrive le stampe antiche italiane di musica cantata dei sec. XVI e XVII, indicando esattamente i capoversi delle poesie (madrigali , canzonette , frottole o altro) che in esse compaiono , i nomi di musicisti che le intavolarono, le biblioteche in cui se ne trova un esemplare. A dare un'idea dell'estensione di questa colossale opera bibliografica, che tornerà preziosa così allo storico della musica e dei musicisti come a quello delle lettere, basti l'accennare che i libri ivi descritti sono circa 4000 e che il Vogel visitò, per averne notizia, 130 biblioteche, vale a dire quelle di tutt'Europa, quando se ne eccettui la Russia, la penisola dei Balcani e la Pirenaica. * A cura del prof. G. Carducci la Casa editrice Zanichelli pubblicherà il Teatro italiano antico, vale a dire una raccolta di opere drammatiche dal sec. XIV alla fine del XVI, escluse le rappresentazioni e le commedie propriamente dette. Ne sono già preannunciati 13 volumi di contenuto assai ghiotto, perchè si tratta quasi sempre di documenti letterarî difficili a rinvenirsi. Ogni volume conterrà un gruppo di drammi composto razionalmente, e sarà illustrato da una prefazione destinata ad esporre la storia d'ogni pezzo. * Ai lettori nostri non riuscirà indifferente la notizia di alcune recenti CRONACA 185 pubblicazioni nel campo provenzale antico , per la necessità che hanno di conoscere questa lingua coloro che si occupano della poesia italiana nel periodo delle origini . Emilio Levy, non credendo ancor venuto il tempo di dare un dizionario nuovo del provenzale, pubblica a dispense (Leipzig, Reisland) un Provenzalisches Supplement- Wörterbuch destinato a rettificare il Lexique Roman del Raynouard, e a colmarne le lacune. Nel tempo stesso è annunciata per l'anno 1893 una Grammaire provençale di Camillo Chabaneau, che soddisferà ad un bisogno vivamente sentito dai romanisti . E mentre in Italia sta per essere completata col glossario e la grammatichetta la Crestomazia provenzale di V. Crescini, in Germania prepara una Provenzalische Chrestomathie Carlo Appel. * Sarà fra non molto pubblicata nell'Archivio storico Lombardo una monografia del dr. Mario Borsa su Pier Candido Decembrio, presentata come tesi di laurea all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, ove conseguì il premio Lattes. * Il prof. Antonio Restori attende ad illustrare i mss. in antico francese della bibl. Palatina di Parma. De' suoi studî egli diede recentemente un saggio stampando nel novembre '92 tre preghiere francesi del sec. XV, estratte appunto da tre di quei codici, per nozze Del Vasto-Celano. * Da G. A. Lo Monaco ci perviene la prima parte d'una sua opera intitolata Le fonti dell'umanesimo e il suo sviluppo (Palermo, Clausen, 1892) . In questa prima parte si tratta delle fonti, vale a dire delle condizioni letterarie del medioevo, fino a Dante compreso. Se ne varrà la pena, ne discorreremo a opera compiuta. * Le Stanze sopra la morte di Rodomonte, stampate a Fermo nel 1562, e poi più volte , col nome del Cieco da Forlì, non sono di lui, come ritenne poco fa, riproducendole, Lud. Pepe (cfr. Giornale, XX, 467) . Esse formano parte della Marfisa di Pietro Aretino. Vedi quanto osserva in proposito A. Luzio nel Giorn. di filologia romanza, vol. III , fasc. 6, pp. 68-70. * Pubblicazioni recenti : G. A. CESAREO. - Nuove ricerche su la vita e le opere di Giacomo Leopardi. Torino-Roma, Roux, 1893. - GIACOMO LEOPARDI. - I canti , commentati da Paolo Emilio Castagnola. Firenze, Le Monnier, 1893. PIETRO CARBONI. Cristoforo Colombo nel teatro. — Milano, Treves, 1892. GIOSUE CARDUCCI. rengan, 1892. FRANCESCO FALCO. virtù. - - - Antiche laudi Cadorine. -Pieve di Cadore, tip. BeSan Bonaventura, Brunetto Latini ed il Fiore di Lucca, tip. del Serchio , 1893. HENRY COCHIN. - Lettres de Francesco Nelli à Pétrarque publiées d'après le ms. de la bibl. Nationale , avec une introduction et des notes. Paris, H. Champion, 1892. G. CRESCIMANNO. - - Figure Dantesche -. Venezia, Olschki, 1893. Di alcune antiche rappresentazioni ita- VINCENZO DE BARTHOLOMAEIS. - liane. Roma, 1893 (Estratto dagli Studi di filologia romanza) . ANTONINO GIORDANO. - Saggio sulle dottrine di G. B. Vico. 3a edizione riveduta ed ampliata. - Napoli, tip. Monitore, 1893. 186 CRONACA * Annunci analitici : - HERMANN VARNHAGEN.- Ueber eine Sammlung alter italienischer Drucke der Erlanger Universitätsbibliothek. Erlangen, Junge, 1892 [ Alcune biblioteche di Germania possiedono belle collezioni di quelle antiche stampe popolari italiane, che sono ormai divenute una ghiottoneria prelibata pei bibliofili ed un oggetto di curiosa ricerca per gli eruditi. Anni sono il dr. Milchsack descriveva quella di Wolfenbüttel , che veniva dottamente illustrata dal D'Ancona: oggi il prof. Varnhagen descrive ed illustra quella di Erlangen, in Baviera, che fece parte della libreria del medico e naturalista di Norimberga C. I. Trew, morto nel 1769. Il suo lavoro, condotto con molta perizia ed esemplare diligenza, è altamente encomiabile. Servendosi di tutti i mezzi disponibili, la lingua, la qualità dei tipi, le filigrane della carta, le silografie , egli giunge a stabilire che tutte quelle preziose stampe non datate rimontano al 1500) circa, alcune anzi alla fine del sec. XV, e che furono in gran parte eseguite in Firenze o in Toscana. Notevoli le considerazioni che egli fa sul Joannes dictus florentinus , che compare come stampatore in uno di quei libretti ; ma a condurre innanzi la investigazione puramente bibliografica gli fece difetto un grande sussidio, il confronto con molte stampe antiche italiane, solo possibile nelle massime biblioteche nostre. Le stampe rare che si trovano qui studiate sono 21, e di esse il V. dà tutte le notizie che può. Non solo le descrive minutamente , ma ne riproduce le silografie, talora significantissime, ne dà sunti ed estratti, tien conto dei bibliografi che ne parlarono, istituisce opportuni raffronti d'ordine interno. Tali annotazioni comparative sono specialmente copiose per i numeri 5, 7, 12, 13, 14, 16, 17. Ecco pertanto, nel loro ordine, le stampe descritte : 1°, Traduzione in terzine dell'Ars amandi d'Ovidio, quella comunemente assegnata a Troilo Avenanti, di cui il Bellorini , a pp. 3243 e 72-76 dell'opuscolo esaminato in questo Giornale, XX, 331 , dice di conoscere 7 mss. del sec. XV e circa 20 edi. zioni. 2º, Ballate e rispetti, di Bernardo Giambullari ed adespoti. 3º, Le malizie delle donne e Il governo della famiglia , poemetti in ottave. 4º, Il sonaglio delle donne di Bernardo Giambullari . 5º, Istoria di Maria per Ravenna, ediz. sconosciuta di questo poemetto che fu ristampato nella Scelta del Romagnoli . 6º, Storia della Bianca e della Bruna, ediz. rimasta ignota al Passano e a S. Ferrari. 7°, Masetto di Lamporecchio, redazione in ottave della nota novella del Decam. , III , 1. 8°, La canzone del Saviozzo, O specchio di Narciso, cfr. Volpi nel Giornale, XV. 9º, Poemetto cavalleresco dal titolo Bradiamonte, sorella di Rinaldo da Montalbano. 10°, La Nencia da Barberino del Magnifico. 11° , Florio e Biancifiore. 12°, Novella di Gualtieri e Griselda , ediz. sconosciuta d'una elaborazione in versi molto nota della novella boccaccesca. 13º, Novella di due preti et un cherico, riproduce in versi il motivo di una novella del Sercambi, n° 9, nell'ediz. Renier; per riscontri cfr. Rua in Zeitschr. für Volkskunde, II , 251 (1 ). 14° , Novella (1) Il Varnhagen s'è occupato di questo soggetto , aggiungendo nuovi riscontri a quelli additati dal Rua, in un opuscoletto a parte, in cui pubblicò , pel quinto congresso dei cultori di filologia moderna in Berlino , la Histoire de l'abbé teint en vert (Erlangen , 1892) ricavandola da un ms. della Nazionale di Parigi , compilato nel 1745. La Histoire è un rimaneggiamento moderno del CRONACA 187 — della figliuola del mercatante, che si fuggì la prima sera dal marito per non essere impregnata. 15º, Istoria di Ottinello e Giulia, edizione più antica e compiuta di quella riprodotta dal D'Ancona. 16º , Storia della regina Stella e Mattabruna. 17º, Istoria di Florindo e Chiarastella . 18º, Novella di Paganino e Ricciardo, elabora la novella II, 10 del Decam. 19º, La guera di Parma, il poemetto riprodotto su questa stampa dall'Ungemach (cfr. Giornale, XX, 467) ; il V. addita qui (p. 53) correzioni al testo e altrove (pp. 5-10) ne studia la lingua ed esterna l'opinione che si tratti d'una ristampa dell'ediz. principe comparsa in Venezia col nome di Giovanni Fiorentino e citata nei cataloghi Heber e Libri 1847. 20°, Ippolito Buondelmonte e Dianora de' Bardi. 21º, Ippolito e Filomena, ediz. ignota ; nella seconda parte riproduce la novella di Ghismonda e Guiscardo , Decam. , IV , 1. In questa sua veramente bella pubblicazione il V. cita spesso altri esemplari di stampe rare italiane esistenti nella biblioteca reale di Monaco. Sarebbe certo molto desiderabile che egli consacrasse anche a quelle stampe un'illustrazione così coscienziosa come questa, con cui ha fatto conoscere la raccolta di Erlangen]. LUCIEN AUVRAY. Les manuscrits de Dante des Bibliothèques de France. Essai d'un catalogue raisonné. Paris, E. Thorin, 1892 [ Il dr. Luciano Auvray, sottobibliotecario alla Nazionale di Parigi , ha pubblicato nel fasc. 56 della Bibliothèque des Écoles françaises d'Athènes et de Rome un diligentissimo catalogo descrittivo di tutti i codici danteschi delle biblioteche di Francia. L'opera del Marsand, I manoscritti italiani della R. Biblioteca Parigina, che contiene la descrizione di quarantaquattro codici di Dante conservati a Parigi , se poteva sembrare sufficiente allorchè fu pubblicata, oggi , per le frequenti inesattezze che vi si notano e per gli aumenti che subirono le collezioni dei manoscritti italiani in Francia dal 1835 in poi, non può più riguardarsi come tale. Anche la Bibliografia Dantesca di Colomb de Batines, sebbene molto più completa del Catalogo del Marsand, non è sempre esattissima, perchè l'autore non potè esaminare tutti i codici descritti, ed anche per le varie vicissitudini cui andarono soggette le collezioni pubbliche e private di manoscritti nella seconda metà di questo secolo. Molto opportuno riesce adunque il catalogo ragionato del dr. Auvray , che , con diligenza esemplare e con molta erudizione, descrive ed illustra sessantacinque codici danteschi , contenenti non solo la Commedia e i suoi commenti e compendî, ma anche le opere minori di Dante, le antiche biografie e gli epitafi che lo riguardano, alcuni de' quali sfuggirono alle ricerche del Marsand e del Batines. Alle brevi indicazioni bibliografiche date dal Maznoto motivo di novellistica , che ha origine orientale e fu diffuso in Francia , in Italia , in Germania. In quel poemetto il racconto ha perduto la sua oscenità primitiva, ma anche ogni vivezza ed arguzia. L'abate « grand ennemi de continence » fa la corte alla moglie d'un tintore. Questi lo avverte che se continua la sua assiduità , gli giuocherà un brutto tiro ; ma l'altro non se ne dà per inteso. Allora il tintore finge di recarsi in campagna, e, reduce all'improvviso , sorprende la consorte e l'abate che cenano allegramente. Egli chiede all ' abate quale colore gli piaccia di più, e quegli risponde il verde. Condottolo al suo laboratorio, lo fa spogliare da due garzoni ed immergere in una tinozza piena di tinta verde. Il prete va a reclamare dal commissario di pulizia, ma non gli vien fatto se non di propalare ancor maggiormente la sua vergogna. Come si vede, la novelluccia è divenuta molto povera ed insipida. 188 CRONACA zatinti nell'Inventario dei mss. italiani delle bibliotoche di Francia di tutti i codici danteschi posseduti dalla Nazionale di Parigi fino al nº 2000, l'Auvray aggiunge la descrizione del cod. nº 2017, uno dei più pregevoli per la parte ornamentale. Egli esamina e riassume nella prefazione i più recenti studi fatti per una classificazione scientifica dei codici della Commedia, ed offre a cotesto lavoro, ora appena iniziato, un pregevolissimo contributo colla pubblicazione di un saggio degli argomenti che precedono ogni canto in ciascun codice descritto, e colla tavola delle varianti , secondo i punti critici proposti dal prof. Monaci e dal Moore. Anche per ciò che riguarda i commenti della D. C. il dr. Auvray si mostra perfettamente informato delle più recenti pubblicazioni , esaminando e dividendo in otto classi i pregevolissimi codici posseduti dalle biblioteche di Francia dei commenti di Graziolo Bambaglioli, di Guido da Pisa, di Jacopo della Lana , dell' Ottimo , di Pietro Alighieri , di Benvenuto da Imola, di Guiniforte Bargigi e del falso Boccaccio. Di quest'ultimo, come pure delle Chiose anonime contenute nel codice italiano nº 79 , di un commento anonimo derivato in gran parte dal Laneo e dall'Ottimo, della prefazione al commento di Guiniforte delli Bargigi, l'Auvray pubblica in appendice opportuni saggi ed estratti, che fanno meglio conoscere l'importanza dei codici descritti , raccogliendo altresì tutte le notizie che potè avere della loro provenienza. A conoscere ed apprezzare degnamente il valore artistico di alcuni manoscritti danteschi giovano assai le particolareggiate descrizioni dei fregi e delle miniature, corredate da due tavole eliografiche, che l'Auvray stimò opportuno di aggiungere a compimento del suo pregevolissimo Catalogo, che sarà avidamente ricercato dai Dantisti e dagli studiosi della nostra letteratura, i quali sanno meritamente apprezzare così accurate e coscienziose bibliografie. L. F. ] . - EMANUELE COZZUCLI. Francesco Balducci. Ricerche e studi. -Palermo, Clausen , 1892 [ Nella prima parte di questo studio il C. , sulla scorta degli antichi biografi del B. e del suo copioso canzoniere , rifà la vita di questo poeta che, come molti altri minori del seicento, ottenne a' suoi dì fama non poca e lodi tutt'altro che meritate ; nella seconda s'intrattiene sul carattere della poesia di lui e di quella secentistica in generale, cercando di determinare quale posto spetterebbe al B. fra i poeti coevi . - In vero sono ben poche le notizie che il C. aggiunge a quelle che già sul B. erano note per le opere dell'Eritreo, dell'Auria, del Mongitore, del Mazzuchelli ecc., nè esse sono tali che valesse la pena di insistervi tanto come fa l'A. Invece parecchie altre notizie e testimonianze assai importanti per offerire un'idea ben chiara del carattere di questo poeta , per giunta non difficili a rilevarsi nel lungo e noioso canzoniere del B. , furono dal C. affatto trascurate. E a proposito dell'Eritreo, che viveva, come il B. , a Roma, nel seno di quella stessa società cortigiana e sonetteggiante, s'inganna il C. nel credere tutte calunnie o << mere << congetture » (p. 42) gli aneddoti che egli ci narra a carico del bizzarro e superbioso palermitano. L'aver rilevato sul conto del B. (di cui , del resto, egli era un ammiratore) alcuni fatti, che non gli fanno troppo onore, si deve ad una certa austerità di carattere del dotto romano e al contrasto doloroso, non men che ridicolo, che dovette colpirlo , tra la presunzione smodata del poeta facilmente applaudito nelle Accademie e la miseria che , per il fre CRONACA 189 quentissimo cambiar di padrone e per la sua prodigalità , lo costringeva spesso ad indebitarsi ed a vivere di espedienti. Anche il Ficieno, suo amico, ci conferma che « la sua nobiltà gl'impose debiti, cui non potè soddisfare la « povertà sua » e che se « fu male per lui l'esser mendico, peggio fu il << dover fare ogni forza per non parerlo » (Balducci , Rime , Venezia , 1655, pp. 462-3). Lo stesso B. in una sua lettera ( Op. cit. , p. 574), scritta lungi da Roma, donde si dovette allontanare per sfuggire ad un castigo da parte del papa , pare che non neghi la sua colpa , quale che sia. Nè è vero, come il C. vorrebbe, che il B. abbia sofferto la povertà per non aver voluto adulare i potenti. Di troppe e smaccate adulazioni a moltissimi è pieno tutto il suo canzoniere. E dai Borghesi, Aldobrandini, Cesarini, Barberini, Ludovisi, Gonzaga, Colonna ecc. , egli dovette ottenere non solo lodi , ma premi ricompense. E se il Ficieno gli fa lamentare l'avarizia dei mecenati (ibid .), il lamento è da riferire a' bisogni e desiderì del poeta e a quanto si notato sul carattere di lui. · Nella seconda parte di questo studio appare evidente nel C. il proposito di gabellarci il B. come un « grande poeta » (p. 108) . L’A. asserisce che egli « inconsciamente (sic) si ribellò al pessimo gusto lette- << rario del secolo » (p. 21), « benchè » dice poi « non si manifesti al tutto << immune dei difetti della scuola marinesca » (p. 163) . Tutto ciò non sapremmo con quanta coerenza e con quanto buon gusto. Giudichi chi si sentirà la forza di reggere alla lettura di quel canzoniere. In generale il lavoro del C. è prolisso e disordinato. L'A. non sa servirsi delle note, e la fretta lo rese troppo poco curante della forma. — In altre cose il C. è fin troppo diligente : ad es. , quando, nel riferire alcune rime del B., ne ridà anche la strana grafia e gli errori manifesti , o quando , nel citare questo o quel libro moderno, ne indica financo il formato. E. S. ] . - - - - FRANCESCO NOVATI. La « Navigatio Sancti Brendani in antico veneziano edita ed illustrata. Bergamo, tip. Cattaneo, 1892 [ Nella classificazione dei testi della leggenda di S. Brandano, proposta dal Suchier ed ammessa dallo Zimmer, non si menziona verun testo italiano. Qualcuno ne cita il Graf (Miti, leggende e superstizioni del m. e. , I , 185) : il N. ne conosce quattro, tutti prosaici, uno solo dei quali fu edito, in piccola parte, dal Villari nella sua memoria sulle Antiche leggende e tradiz. che illustrano la Div. Com. I testi si trovano : 1° , in un cod. di Tours ; 2° , in un codicetto della Colombina, ora nella Nazionale di Parigi ; 3º, in un ms. della SS. Annunziata, passato nella Nazionale di Firenze e reso noto dal Villari ; 4º, neł cod. D. 158 inf. dell'Ambrosiana. Il 1 ° ed il 3° testo sono scritti in italiano aulico ; gli altri due in dialetto veneto. Questi testi vengono ad avere importanza non trascurabile nella storia della leggenda brandanica , perchè riproducono << una versione della Navigatio, eseguita fra il XIII e il XIV sec . « da uno scrittore , che appartenne alla regione veneta , se non fu addirit- << tura..... veneziano ». L'antica versione dovea risalire ad un testo latino della Navigatio diverso da quello a noi giunto, e di cui oggi rimangono a testimonianza unica le redazioni italiane. In essa infatti occorre una parte tutta nuova, l'estesa descrizione dell' « isola delle delizie » , cioè del paradiso terrestre, che nella Navigatio conosciuta è invece ridotta a somma brevità . It testo Ambrosiano sembrò al N. il più rilevante, a motivo dell'estensione sua , 190 CRONACA per cui è da ritenere probabilmente più fedele al suo originale, non che per la forma dialettale conservatasi abbastanza pura, quantunque il cod. appartenga al quattrocento. È infatti questo il testo ch'egli pubblica, studiandone la fonologia , la morfologia e la sintassi , e corredandolo in fine d'un glossario. Per lo studio linguistico sono richiamati gli altri testi antichi veneti che si hanno a stampa]. ERNESTO Masi. Vita italiana in un novelliere del Cinquecento. Roma, 1892 [ Estratto dalla Nuova Antologia. Il M. sviluppa con garbo, ingegnosità ed erudizione il giudizio del Dunlop, che paragona le novelle del Bandello ad << uno specchio magico, nel quale il suo secolo si riflette e vi << proietta tutta quella folla di particolarità e di figure caratteristiche, prin- << cipali e secondarie, che inutilmente si cercherebbe nei grandi storici con- << temporanei ». In queste pagine infatti, non certo compiutamente, ma con giudiziosa scelta di particolari, è mostrato in qual modo si riflettano in quel novelliere la politica , l'arte, le dame e le cortigiane, l'amore, la vita sociale di quel secolo pieno di contrasti. Le dediche preziose di quelle novelle, per mezzo delle quali ci sfila d'innanzi tutto l'uditorio del Bandello, completano mirabilmente il quadro. La larghezza della rappresentazione non consente una psicologia molto fine, tanto più che il Bandello ha il gusto del romanzesco ; ma nelle sue narrazioni, che non sono mai nè altamente tragiche nè schiettamente comiche, egli pur si rivela « un grande artista e un grande << maestro ». Caratterizzata quella raccolta di novelle nel suo complesso, si trattiene il Masi su due tra le novelle bandelliane più celebri, quella di Parisina quella di Giulietta e Romeo. Quindi passa a considerare la vita del Bandello, che è anch'essa, per le sue svariate peripezie, significantissima in quel tempo bizzarro, e ne pone in chiara luce le vicende più notevoli , specialmente gli amori, col sussidio di notizie non sempre facili. Dei rapporti biografici del Bandello illustra particolarmente quelli con le famiglie Gonzaga e Fregoso. In sul principio del piacevole scritto trovansi alcune considerazioni acute sui novellieri del cinquecento e sui loro influssi sul teatro comico del tempo ; fatto notato già molto bene dal Gaspary e che meriterebbe una larga trattazione] . AUGUSTO CESARI. - La morte nella « Vita Nova ». - Bologna, Zanichelli, 1892 [ « Lo spirito umano, trapassando di secolo in secolo e di età in «< età , non raccolse che dolore ; perciò il desiderio di morte , che comincia << dimostrazione di dolore intenso e di fede nel romanzo d'amore in cui Dante << versa quanto de' suoi affetti rimane impedito o compresso nella sua vita << severamente pratica e operosa ; finisce rivelazione del disperato dolore in- << dividuale e universale del scetticismo scientifico nella poesia moderna > (p. 34). Questo lungo cammino del desiderio della morte offrirebbe materia ad uno studio larghissimo, che il C. non ha punto voluto fare. Il suo studio s'incentra , come il titolo mostra, in Dante , e cerca chiarire il sentimento ch'egli aveva della morte ed i modi della sua rappresentazione poetica di essa morte, col paragone dei poeti predanteschi, di quelli dello stil nuovo, del Petrarca. Non si astiene peraltro dal considerare , per essere più compiuto, il desiderio della morte anche in altri poeti posteriori, nel Boccaccio, in Giusto de' Conti, in Lorenzo de'Medici, in Pandolfo Collenuccio, nel pes CRONACA 191 - - simismo sentimentale del Leopardi, nel pessimismo scientifico del Graf; ma tuttoció solo in via di paragone, acciò meglio s'intenda il concetto dantesco . Intorno al presentimento che D. aveva della morte di Beatrice poteva essere consultato con qualche profitto l'opuscolo dello Scherillo , che appunto s'intitola La morte di Beatrice. Nell'analisi estetica del libretto del C. v'ha molto sentimento d'arte. Di studî siffatti , sui motivi e sulle movenze della lirica nostra, se ne potrebbero fare diversi, e sarebbe utile che vi si accingessero specialmente i giovani, che con essi affinerebbero il loro gusto e troverebbero opportunità e stimolo a larghe e coscienziose letture] . ERNESTO MONACI. Sull'alba bilingue del cod. Vat. Reg. 1462. Roma, 1892 [ Estratto dai Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. L'alba latinoromanza, stampata nel 1881 da Giov. Schmidt nella Zeitschr. für deutsche Philologie, richiamò su di sè bentosto l'attenzione dei romanisti. La scrittura infatti di essa si fa rimontare al principio del sec. X , onde quei due versi neolatini , che servono di ritornello , non ci rappresentano solamente l'alba più antica conosciuta , ma addirittura il più antico documento lirico in lingua romanza. Così bene spiega come vi si travagliassero subito intorno con ogni cura il Suchier, associatosi allo Schmidt, il Laistner ( Germania, vol. XXVI) , lo Stengel nella Zeitschr. für roman. Philologie , IX , 407 e altrove , finalmente il Rajna negli Studi di filol. rom. , fasc. 4°. Tutti pro. posero letture ed interpretazioni diverse di quel ritornello ; diversissimo il Rajna, che sottopose il documento ad una sottile e ingegnosa disamina, ma che, nella versione proposta, incontrò la decisa disapprovazione di P. Meyer (Romania, XVI, 607) . Nessuno peraltro dei romanisti menzionati dubitò che i due versi romanzi appartenessero al territorio di lingua d'oc. Oggi il Monaci, proponendo altra interpretazione, porta una gran novità nella controversia : egli sostiene che il distico non è provenzale, ma ladino. Con le peculiarità degli antichi idiomi ladini, particolarmente del friulano , gli vien fatto di spiegare le parecchie anomalie che si trovano nel testo , quando lo si riguardi come provenzale. Egli promette di dimostrare in seguito che alla Ladinia s'hanno pure a restituire le glosse antichissime dette di Cassel ed una poesia farcita, che tra i Carmina Burana ha il nº 81 , e che il Bartsch ritenne, nella parte volgare, una miscela di francese e di provenzale. I nostri lettori riconosceranno di leggieri quanta importanza abbiano queste notificazioni del M. per la storia delle nostre origini letterarie e linguistiche. È perciò che non abbiamo voluto trascurare di darne qui notizia sommaria] . Sull'antichissima cantilena giullaresca del cod. Laurenz. S. Croce XV. 6. Roma, 1892 [ Estr. dai Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. È un testo volgare che appartiene al XII sec. e quindi, sebbene sia giunto a noi in uno stato deplorevole , non merita , per la sua antichità, la trascuranza degli storici delle lettere italiane. Oltre la vecchia pubblicazione del Bandini, se ne ha ora la eliotipia nell'Archivio paleografico italiano, con illustrazioni del Novati, e nei Facsimili di antichi manoscritti, e la riproduzione a stampa del Monaci nella Crestomazia italiana. Il M. ritorna su quel testo per tentarne una lezione più corretta e conseguentemente dar lume all'interpretazione , che ad alcuni , come al Gaspary, parve, non solo ardua, ma quasi impossibile. Il testo nuovo che il M. offre ERNESTO MONACI. - 192 CRONACA presenta parecchi vanteggi. Egli ritiene che non si tratti d'un originale, ma d'una copia, e che l'autore debba reputarsi sicuramente toscano, e con tutta probabilità un giullare . Quei poveri settenari << sono quanto mai si possa « immaginare di più plebeo ; ma pur bene ci rappresentano quel che dovette << essere nell'Italia centrale la poesia volgare che preluse all'avvenimento << della poesia elaborata dai trovadori e dagli scolastici » . Il M. ricerca i dati storici che in quella cantilena si trovano acceǹnati ed espone varie congetture sul modo d'intenderli] . VITTORIO CIAN. - La poesia storico-politica italiana e il suo metodo di trattazione. Torino-Palermo, Clausen , 1893 [ Con questo discorso denso d'idee ed infiammato di nobile e giovanile entusiasmo inaugurò il Cian nell'Università di Torino un corso libero sulla poesia storico-politica italiana anteriore al Rinascimento. E fu certo buon principio, perocchè non è difficile l'accorgersi quanto lavorìo d'analisi debba aver preceduto questa sintesi, nella quale l'A. anticipa varie conclusioni che troveranno loro prove e conferme nel corso. Nella prima parte della prolusione il C. considera la povertà della nostra poesia politica medievale, e non persuaso che una parte cospicua di essa possa essersi perduta nè che si ostini a rimanersene celata agli occhi nostri , ricerca le ragioni di tale povertà nell'indole psicologica del popolo nostro, e nell'indole stessa della storia vissuta da questo popolo nel periodo dei Comuni, in cui prevalse una « politica di gretto egoismo, di « freddo calcolato opportunismo » , ciò che meno si prestava alla poesia. Questa parte della prolusione è notevole per novità di concetto. Passa in seguito l'A. a toccare della poesia politica in lingua volgare , movendo da Dante ; ma su questo argomento sorvola, per concludere tracciando con pochi e sicuri tratti il metodo che crede sia da tenere e ch'egli terrà nello svolgere il suo attraente, ma faticoso, soggetto ] . ALFONSO CORRADI. - Donde la parola « calamita » ? - Milano, Rebeschini, 1892 [ Estratto dalle Memorie del R. Istituto lombardo. Questa dottissima dissertazione fu l'ultimo lavoro pubblicato dall'illustre Corradi prima della sua morte inattesa e deplorata. Richiamando attestazioni di scienziati e di letterati, di trattatisti, di predicatori, di poeti ecc. il C. mostra quanto sia antico l'uso della parola calamita per indicare la magnete, e discute tutte le etimologie che ne furono proposte, dalle vecchie del Giambullari e dell'Aldrovandi alle recenti del Fincati, del Govi, del Bertelli. Tra queste la più fortunata fu, per varî motivi, quella del Fournier «< il quale avvertiva che ca- << lamite in francese significa propriamente rana verde, e che se anche così << venne chiamata la magnete dei naviganti, non fu se non per una certa somi- << glianza, essendo che (prima che si fosse trovato il modo di tener in bilico << su d'un perno l'ago calamitato) i nostri vecchi mettevanla in un'ampolla << piena per metà d'acqua e ve la facevano galleggiare par le moyen de deux « petits festus sur l'eau comme une calamite ou grenouille » . Il Diez, e quindi il Koerting , inclinarono a richiamarla кaλaµitns : rana arborea. Il C. dall'esame degli stadî storici percorsi dalla bussola nautica finchè fu inventata, perfezionata e diffusa, giunge alla conclusione che l'etimologia di calamita si deve cercare « nella cosa stessa, non fuori in qualche accidente di forma, « d'apparenza o di luogo » e che « è la traduzione ellittica (perchè sottintesa CRONACA 193 <<< la provenienza) di pietra delle Indie, colla quale gli scrittori del medio evo << designarono la magnete o adamante ». Seguire il lungo suo ragionamento non è còmpito nostro , e molto meno giudicare se esso sia tale da reggere ad ogni critica ; ma di questa memoria ci parve buona cosa il dare un annuncio , sia pure brevissimo , perchè tocca molti particolari storici di non esiguo interesse anche per i cultori delle letterature medievali] . - SALVATORE SALOMONE-MARINO. - Intorno al « Parnassu sicilianu » manoscritto del 1634. Palermo , 1892 [ Estratto dall'Archivio storico siciliano. Si tratta di quel cod . della bibl. Universitaria di Messina , d'onde il S. M. pubblicò recentemente la Surci- Giuranía del d'Erèdia (cfr. Giornale, XIX, 468) . In questa nuova memorietta egli descrive quella copiosa e corretta raccolta di poesie , mostrando quanto vantaggio possano ricavarne gli studiosi degli antichi poeti vernacoli di Sicilia. Vi figurano infatti ben 65 verseggiatori, con 1885 canzoni, 3 poemetti, 7 capitoli. Ma un altro pregio il S. M. ravvisa nella raccolta, « di registrare, talora anonime e talora sotto << nome d'un autore, alcune canzoni che appartengono indubbiamente al po << polo e furono del popolo nel sec. XVI con certezza , e forse prima , e lo « sono tuttavia, a malgrado che per tre secoli se ne siano disputata la pa- << ternità varî poeti siciliani letterati » . Questa curiosa ricerca è qui condotta con la molta perizia che al S. M. vien riconosciuta nel folk-lore della sua isola. Parecchi strambotti , assegnati nella collezione secentista a questo o a quel poeta , si trovano ancor oggi con poche varianti tral popolo di Sicilia ; segno manifesto che da esso, non da quei poeti, derivarono. Il presente saggio notevole del ricorrere che spesso fecero i poeti d'arte alle pure sorgenti popolari dovrebbe servire d'incitamento a studî simili rispetto ad alcuni nostri poeti maggiori dei secoli bassi, i quali parimenti non isdegnarono le movenze liriche spontanee dei canti del volgo] . OTTO LANGER. - - Sklaverei in Europa während der letzten Jahrhunderte des Mittelalters. Leipzig , Fock , 1891 [ Appendice al Programm des Gymnasiums zu Bauzen. Per ragioni indipendenti dalla volontà nostra rendiamo conto in ritardo di questa pubblicazione interessante per la storia del costume. Essa è eseguita con molta dottrina ed accuratezza. Dopo avere in un primo capitolo considerato nel suo complesso lo sviluppo della schiavitù nell'età di mezzo, passa l'A. a studiare partitamente la condizione degli schiavi nell'Europa meridionale, e divide la materia a seconda delle regioni. Prima segue i loro destini nella penisola dei Balcani , poi in Italia , quindi nella penisola Iberica. Specialmente notevole è il terzo capitolo, destinato a scrutare l'atteggiamento della Chiesa verso il commercio degli schiavi. Nessuna cosa più di quel traffico repugnava ai principî fondamentali della dottrina di Cristo : eppure la Chiesa, lungi dal combatterlo, cercò di mantenerlo e di giustificarlo. Del singolare fenomeno s'industria il L. di rendersi ragione. Le pagine di questa memoria consacrate all'Italia non sono certamente le meno rilevanti, quantunque non vi si ponga a profitto materiale nuovo. Di qualche ricerca moderna, come per es . di quelle del Belgrano e dell'Avolio, l'A. , per lo più bene informato , non ebbe notizia. I documenti mantovani sugli schiavi , pubblicati dal Luzio e dal Renier nella N. Antologia, comparvero dopo la presente memoria. Noi siamo convinti, del resto, che una Giornale storico , XXI , fasc . 61 . 13 194 CRONACA ricerca speciale fatta a questo scopo nei maggiori nostri depositi di documenti antichi darebbe risultati felicissimi , e servirebbe a sempre meglio chiarire il largo uso della schiavitù che fecero i commediografi ed i pittori italiani del Rinascimento] . CORRADO CORRADINO. - I canti dei Goliardi. - Torino-Roma, Roux, 1892 [ Fu idea certamente molto ardita questa di dar forma italiana ad un buon numero di quelle poesie latine del medioevo , che vanno sotto il nome di goliardiche. La scelta, divisa nelle grandi categorie di canti satirici , amorosi, giocosi e bacchici, rimonta in gran parte agli originali dei Carmina Burana, ma anche alla raccolta del Wright, The latin poems commonly attrib. to W. Mapes, ed ai Carmina medii aevi del Novati. Dobbiamo subito riconoscere che nella difficile bisogna il C. se l'è cavata assai bene. Usando di molta, ma non soverchia libertà, egli ci ha dato una serie di poesie spigliate, eleganti, piacevoli alla lettura, nelle quali i concetti ed i sentimenti dei testi , pur assumendo forma ed intonazione nuove, non perdono della loro efficacia. Non è certo questo un piccolo merito. Il traduttore ha dovuto infatti superare delle difficoltà talvolta improbe , come ad es. nella poesia tutta a bisticcio (Suscipe flos florem) di p. 118. Certamente il maggior difetto della versione è il non conservare quasi mai il ritmo degli originali. Talora il C. ha saputo supplirvi con molta abilità, come nel leggiadro componimento di p. 122 (Bur. , p. 203), che è forse il meglio riuscito fra gli amorosi ; ma il più delle volte la varietà dell'intonazione offende troppo chi accompagni la lettura della versione con quella dei testi . A mo' d'esempio la grave terzina della poesia a p. 111 non ha nulla a che vedere con l'alato ritmo latino di p. 193 dei Burana, e quando a p. 101 leggiamo la elegante sestina: Ecco ritorna a noi la giovinezza dell'anno nuovo ; già più mite è l'ira del verno, i dìi s'allungano , e la brezza temprato il suo rigor men, cruda spira. Nasce il nuovo anno , ed io con nuovo ardore per la fanciulla mia languo d'amore, sentiamo cosa ben diversa da quella che ci fanno provare i versi latini ( Bur. , p. 145): È Anni novi rediit novitas, hiemis cedit asperitas , breves dies prolungantur, elementa temperantur. Subentrante januario mens aestu languet vario , propter puellam quam diligo. un difetto, d'altra parte, che ben difficilmente si poteva schivare, come ben difficilmente era concesso di riprodurre in una lingua moderna l'indeterminatezza qualche volta tanto suggestiva d'una forma oscillante fra i significati nuovi e gli antichi. — Le note, che fanno seguito a ciascuna delle serie, sono brevi dichiarazioni storiche o letterarie, che non vogliono esser punto un commento ; e del pari l'introduzione, ove sono riassunte garbatamente le questioni relative alla cosidetta poesia goliardica, che l'A. non considera come CRONACA 195 indipendente dal resto della poesia medievale fiorita nelle scuole (cfr. Giorn., XIII, 468) , non la pretende ad opera erudita. Il C. volle fare un libro d'arte e di utile divulgazione : ci sembra ch'egli vi sia riuscito] . è VINCENZO GUALTIERI. - Atempo avanzato. - - Catania, tip. Martinez, 1892 [ Il titolo modestissimo copre buona merce. L'A. ha ripreso in esame i magnifici ed importantissimi canti con cui termina il Purgatorio e s'è studiato di chiarirne parecchie difficoltà . Nel suo scritto v'è finezza d'osservazione e buona cultura : lo si legge con profitto. Egli crede che il paradiso terrestre raffiguri la felicità di questa vita; ma si discosta dall'interpretazione che lo Scartazzini vorrebbe data alle figure di Virgilio e di Beatrice. Nè l'uno simboleggia l'autorità monarchica, nè l'altra l'autorità ideale della Chiesa: l'uno invece, come tanti hanno già detto, la ragione umana, l'altra la vita contemplativa. Quest'ultimo simbolo è la maggior novità che l'A. sostiene, ed per lui la chiave per spiegare tutta la visione. Due felicità si possono godere nel mondo : quella della vita attiva (Matelda) e quella della vita contemplativa (Beatrice). Matelda pertanto non fu personaggio reale , Matelda non è figura del ministero ecclesiastico (cfr. Scartazzini) ; essa è semplicemente simbolo della vita pratica felice. Beatrice quindi risale al cielo, ov'è la sua dimora; mentre Matelda rimane nel paradiso terrestre. L'errore di cui Beatrice rimprovera D. non è già d'essersi scostato dalla vera fede, ma d'essersi tolto alla vita contemplativa per darsi all'attiva, non solo, sì bene anche d' « aver preso nella vita pratica una via non vera, ingannato dalle << false immagini di bene ». I tre colori di cui veste Beatrice non significano le tre virtù teologali, che già la accompagnano in forma di donzelle ; ma il velo bianco indica quel velamento che suol coprire ai mortali la luce della sapienza, il vestito rosso è l'amore delle anime contemplative, il manto verde la durabilità della vita contemplativa , l'olivo la sapienza e la pace che da essa germogliano. Nella seconda parte dell'opuscolo esamina il G. quella fase della visione in cui è rappresentata la storia della Chiesa nelle sue relazioni con l'Impero. Anche qui l'A. s'industria a provare come solo intendendo in Beatrice la vita contemplativa riescano chiari e il suo scendere dal carro e le attitudini ch'essa prende rispetto all'albero. Ma chi voglia vedere di queste pagine , che contengono idee acute e ben ponderate , un resoconto più minuto, può ricorrere al Bollett. della Soc. Dantesca italiana, nº 10-11, pp. 59-61 ] . - - G. A. SCARTAZZINI. Dante- Handbuch. Einführung in das Studium des Lebens und der Schriften Dante Alighieri's. Leipzig, Brockhaus, 1892 [Non è una traduzione dei Prolegomeni, ma, come dice l'A. , una nuova elaborazione della stessa materia in servigio del pubblico tedesco. Le cinque parti in cui lo Handbuch è diviso corrispondono per la contenenza e per i titoli ai tre capitoli della prima ed ai capitoli I e III della seconda Parte dei Prolegomeni, soppresso quel capitolo poco felice ( I della II Parte) , che trattava Della lingua e letteratura italiana nel sec. di Dante. Invece lo Sc. ha posto in fronte all'opera nuova un'Introduzione , nella quale discorre il significato e l'importanza dello studio di Dante e riassume in un quadro cronologico la storia italiana e fiorentina dal 1215 al 1321. In generale le opinioni dello Sc. sulle principali quistioni dantesche non sono diverse da quelle Giornale storico , XXI, fasc . 61. 13* 196 CRONACA 1 che egli sostenne nei Prolegomeni; tuttavia qualche modificazione egli ha introdotta qua e là, talché gli studiosi del divino poeta non potranno d'ora innanzi esimersi dal consultare anche questo volume. Più accuratamente trattata e con maggior riserbo conchiusa è, per citar qualche esempio, la disputa se nobile o popolana fosse la famiglia dell'Alighieri (pp. 37 sgg.) ; meno risolutamente che nei Prolegomeni lo Sc. prende partito contro l'ambasceria di Dante a Bonifacio VIII nel 1301 (p. 105) ; i documenti fatti conoscere dal Da Re (cfr. Giornale, XVI, 334 sgg. ) gli fanno naturalmente sorgere ragionevolissimi dubbî sul soggiorno del poeta a Padova nel 1306 (p. 133) . Delle osservazioni della critica egli ha pure tenuto conto , ma non sempre ha rinunciato alle sue opinioni, anche se da quelle gravemente infirmate : il ritrovamento e la ripubblicazione del documento già edito dal padre Ildefonso non dissipano le sue incertezze sull'ambasceria a S. Gemignano (p. 87) ; non accetta la cronologia fissata dal Del Lungo per gli avvenimenti del 1300 e del 1301 (cfr. questo Giornale, XVI, 389) e solleva ora dei dubbî sul tempo del priorato di Dante (p. 94) ; non sostiene più la sua interpretazione del passo famoso del De vulg. el. dov'è nominato il novissimus Federicus (cfr. Giornale, XVI, 395), ma ora crede non se ne possano trar conchiusioni per la cronologia del libro (p. 311). Rinuncia soltanto all'identificazione di Gemma Donati colla donna apparsa al poeta « juxta Sarni fluenta » , ma dichiara di averla proposta per ischerzo e compiange l'ingenuità di chi la prese sul serio (p. 349) . Prendiamo nota di questo nuovo procedimento della critica scartazziniana per poter un'altra volta apprezzare subito , senza bisogno di commenti, le arguzie del chiaro dantista. Nell' organamento questo Handbuch è certo migliore dei Prolegomeni : la materia vi è più acconciamente divisa nelle singole parti e l'esposizione, liberata da certi lunghi riferimenti di passi altrui, procede più spedita e più omogenea, anche perché lo Sc. scrive il tedesco assai meglio dell'italiano] . GUSTAVO Uzielli. -Paolo Dal Pozzo Toscanelli iniziatore della scoperta d'America. Firenze, Loescher e Seeber , 1892 [ Questo volumetto è ricco di notizie inedite e peregrine. I quattro studî che lo compongono hanno tutti rapporto diretto col sommo cosmografo, geografo ed astronomo quattrocentista Paolo Toscanelli, ed arricchiscono le nostre cognizioni sullo stato degli studî cosmografici alla corte ed ai tempi del Magnifico. Intorno allo gnomone solstiziale di S. Maria del Fiore l'U. pubblica un documento finora ignoto del 1503, ed attribuisce con lo Ximenes il merito di quella costruzione scientifica al Toscanelli. Si trattiene quindi alla villa del Melarancio, sul Poggio al Pino , divenuta proprietà della famiglia Toscanelli , ove suppone che Paolo eseguisse molte delle sue osservazioni astronomiche: poi viene a mostrare quanto la scienza del Toscanelli giovasse all'arte del Brunellesco, in quella loro costante e viva amicizia. Finalmente considera il Toscanelli come precursore della scoperta d'America. In questa parte del libro (pp. 92- 93) egli promette uno speciale lavoro su Amerigo Vespucci, nel quale saranno posti a profitto i codici di sue lettere esistenti in Firenze , di cui particolarmente si occupa in una speciale appendice (pp. 177 sgg.). Tra i particolari più notevoli per la storia letteraria che in questo volume si trovino, merita menzione quanto l'U. dice del celebre episodio d'Astarotte nel Morgante. CRONACA 197 - Si conoscono le opinioni diverse che furono espresse intorno alla fonte cui il Pulci avrebbe attinto le nozioni geografiche di quell'episodio (cfr . Giorn. , XVIII, 472) : l'U. ne sostiene una nuova. Secondo lui, il Pulci avrebbe appreso quelle nozioni ascoltando Lorenzo Bonincontri , che interpretava pubblicamente l'Astronomicon di Manilio in Firenze (pp. 88-99 e più estesamente pp. 170 sgg. ). Al Bonincontri ed all'importanza sua come geografo consacra un dotto capitoletto (pp. 148 sgg.) . Notevolissimo è pure ciò che sa dirci dell'olandese Paolo di Middelburgo, astrologo alla corte d'Urbino (pp. 108-114), e della Geographia in terza rima di Francesco Berlinghieri, che illustra bibliograficamente (pp. 133-140) e poi nelle sue carte geografiche, poste in relazione con la storia della cartografia antecedente (pp. 141-148) . Molte e buone e ghiotte cose vi sono in questo libretto, onde sarebbe pedanteria il dar molto peso a qualche inesattezza qua e là commessa dall'A. Per es. intorno a Giovanni di Gherardo da Prato egli non ha informazioni troppo precise e per un curioso equivoco chiama << poemetto » il Paradiso degli Alberti a p. 115] . ANGELO BADINI CONFALONIERI e FERDINANDO GABOTTO. Notizie biografiche di Demetrio Calcondila. Genova, Sordomuti , 1892 [ Estratto dal Giornale Ligustico. Avendo trovato gli AA. un manipolo di documenti inediti relativi al Calcondila nell'Archivio di Stato milanese, reputarono opportuno di ritessere la biografia dell'umanista greco. Nato nel 1423 , venne in Italia nel 1448 , e dopo avere peregrinato per varie città nostre, si recò a Ferrara nel 1451, alla scuola celebrata di Guarino Veronese. A Padova, nel 1463, tenne la prima cattedra di greco instituita in quell'università ; ma in seguito, non essendovi più stato riconfermato, passava a Roma, e di là , nel 1473, a Firenze, ove in sul principio ebbe a trovarsi in tristi condizioni materiali, finchè nel 1475 non fu eletto professore. Ivi crebbe la sua fama ed insieme il fervore di lui negli studî; ivi nel 1484 prese moglie e nel 1488 pubblicò la celebre prima edizione di Omero. Questa storia è dagli AA. rifatta sulla base di copioso materiale stampato, che consultarono faticosamente, e con abbondanza soverchia citarono. Una maggior parsimonia nelle allegazioni erudite avrebbe giovato. Con lodevole sistema essi tennero conto delle relazioni private e scolastiche di Demetrio. Lumeggiarono bene l'amicizia nobile e costante ch'ebbe per lui Teodoro Gaza, seguirono le vicende della sua amicizia col Bessarione, enumerarono i suoi molti discepoli. In Padova i più illustri furono Giano Lascaris , Giovanni Lorenzi e Varino Favorino ; in Firenze il Reuchlin e Giovanni de' Medici , che fu poscia Leone X. Dei documenti milanesi qui addotti e che costituiscono l'ornamento migliore della memoria, il primo, cronologicamente, è una lettera al Duca di Milano dell'agosto 1475, in cui viene proposto per leggere pubblicamente greco il Calcondila , raccomandato da F. Filelfo. Ma, come s'è detto , poco appresso Demetrio ottenne la cattedra in Firenze , onde non ebbe necessità di fare altre pratiche altrove. Ma quando, sotto Ludovico il Moro , Milano divenne ricettacolo di letterati d'artisti , il Calcondila fu chiamato colà. Noi assistiamo alle lunghe trattative, fatte per mezzo dell'ambasciatore Talenti, allo scopo di fargli accettare quella condotta senza che la Signoria di Firenze se ne risentisse. Ottenuto finalmente il commiato, nell'autunno del 1491 Demetrio era a Milano ed il 6 nov. vi teneva la sua prima lezione. Bella è la 198 CRONACA - ― lettera (pp. 61-62) nella quale il segretario Calco descrive al Moro quella prima lezione e l'accoglienza eccellente che il pubblico le fece. A Milano la fama del Calcondila culminò, ed egli ebbe l'onore di contarvi tra i suoi discepoli un Castiglione ed un Trissino. Vi rimase anche dopo la cacciata del Moro e vi morì nel 1511. Lo studio presente è interamente biografico. L'operosità letteraria del Calcondila v'è seguita, ma non valutata] . FLAMINIO PELLEGRINI. Il serventese dei Lambertazzi e dei Geremei. Bologna, Fava e Garagnani, 1892 [ Estratto dagli Atti e memorie della R. Deputaz. di st. pat. per le provincie di Romagna. Il testo a penna su cui , nel 1841 , Ulisse Guidi stampò la prima volta questo lungo e notevole componimento politico s'era perduto di vista , dimodochè il Casini , per la sua ristampa, dovette lavorare soltanto di critica congetturale. Il P. rintracciò il cod. che lo contiene nella raccolta dei mss. Campori , passata ora nella Estense di Modena, e tale fortunato ritrovamento gli diede animo a pubblicare di nuovo quel testo , con più che adeguate illustrazioni . Difficilmente, a noi sembra, avrebbe il P. potuto condurre a fine con maggiore coscienziosità e ricchezza d'informazioni il compito propostosi. Il testo ch' egli ci offre è curato egregiamente , e fornito di un minuto ed utilissimo commentario storico , filologico e linguistico. Nella parte linguistica s'avvantaggiò l'editore dei consigli d'uno specialista valoroso , il prof. Salvioni , il quale eziandio lo sovvenne nel formulare in breve le caratteristiche generali della lingua di quel testo , in cui trovansi accostate ad alcuni distintivi fonetici ben noti dei dialetti veneto-lombardi non poche peculiarità del bolognese (pp. 61-62). Bolognese pertanto dovette essere l'autore e , come il P. ben mostra, contemporaneo o di ben poco posteriore ai fatti che espone. Trattasi infatti (il P. insiste fin troppo nelle prove) di poesia popolaresca, cioè composta tral popolo e pel popolo , forse da uno di quei cantastorie che ereditarono le abitudini dei noti cantatores franciginorum (1) ; ed il testo, diffuso oralmente, non ci pervenne troppo malconcio perchè ben presto l'incalzare degli avvenimenti nuovi lo fece cadere in disuso. Anche della metrica il P. si occupa in modo garbato ; ma la parte maggiore della sua erudita introduzione è spesa nel far rilevare il valore storico eminente che al serventese è da ascrivere. In questa parte il P. si estende forse più di quanto l'economia del suo scritto avrebbe richiesto ; ma i cultori di storia civile gliene saranno grati, perchè togliendo occasione dal rozzo carme egli viene a chiarire una parte oscura delle lotte intestine di Bologna. Tutte le fonti, sincrone e non sincrone , a stampa e manoscritte , furono da lui consultate a questo scopo, con quel lodevole ardore di ricerca che gli fa tanto onore. La conclusione è che in quelli episodî delle lotte che travagliarono, fra il 1270 ed il 1280, Bologna, l'autore del serventese ne sa più dei cronisti, anzi molte volte influisce sui loro racconti. E quando il riscontro è possibile, constata il P. che il serventese è, tranne in una sola e scusabile confusione di cronologia , scrupolosamente veritiero]. (1) Intorno alla celebre provvisione del 1289 che li concerne , il P. ci dà una notevole rettificazione (p. 58, n. 2) , valendosi del testo ch'è nell'Archivio di Bologna. CRONACA 199 CARLO SALVIONI. PUBBLICAZIONI NUZIALI. -Saggio intorno ai nomi della « lucciola » in Italia. - Milano, Rebeschini, 1892 ; per nozze Salvioni- Rossi [ A festeggiare le nozze del fratello il prof. Salvioni pubblica questo gustoso saggio, ch'è il primo d'una serie di studií intorno all'onomastica della fauna italiana. Il S. classifica i nomi svariatissimi dati alla lucciola nei diversi vernacoli a seconda dei loro rapporti obbiettivi ed ideali. I più di quei nomi muovono dalla semplice considerazione della luce, che la lucciola tramanda : altri derivano dalla qualità sua d'insetto che vola, o dai luoghi ove s'incontra più di frequente, o dalla notte in cui si vede. Curioso il traslato per cui in alcuni territorî di Lombardia e nel Canavese si passa dall'idea del mietere , legata al tempo dell'anno in cui la lucciola compare, a quella del pane, onde la si chiama con denominazioni diverse, che tutte equivalgono a « provveditrice di pane ». I nomi raccolti dal S. , ed illustrati con la sua nota competenza glottologica, superano d'assai il centinaio, ond'egli può dire a buon diritto che « nessuna << forse delle lingue romanze può vantare, di qual pur si sia animale o cosa, << una collezione di nomi che possa stare a petto di questa » ] . LEANDRO BIADENE. Contrasto della rosa e della viola. Pisa, Mariotti , 1892 ; per nozze Salvioni- Taveggia [ Componimento della bassa latinità, di 136 versi, divisi in quartine, ognuna delle quali ha uscita monorima. È tratto dal cod. nº 5371 della bibl . Palatina di Vienna (sec. XV) , e l'Edit. vi riconosce giustamente « l'opera di un letterato che rimaneggia un argomento << della poesia popolare senza di questa aver troppo vivo il senso » . Infatti qui non troviamo più la forma del dialogo alterno , ma le due contendenti espongono le loro ragioni di seguito , e la contesa non è più giudicata dal giglio, ma dall'autore stesso dei versi. Meglio rappresenta l'indole primitiva della poesia popolare il contrasto italiano analogo di Bonvesin da Riva (cfr. la Crestomazia del Bartoli , pp. 44 sgg.), del quale il B. esamina qui il rifacimento che si legge nel cod. Ambrosiano N. 95 sup. ]. - - - ANTONIO RESTORI. La notazione musicale dell'antichissima alba bilingue del ms. Vaticano Reg. 1462. Parma, Ferrari e Pellegrini, 1892 ; ediz. di 50 esempl. per nozze Salvioni - Taveggia [ È questo un saggio lodevole di ricerche non comuni fra noi , e fa parte degli studî intrapresi dal Restori sulla storia dell'arte musicale in Provenza. Egli esamina i segni neumatici di quel componimento venerando per antichità, di cui è parola negli annunci analitici di questo stesso fascic. a proposito d'una memorietta del Monaci, e ne dà una trascrizione in canto piano, e ne tenta una in notazione moderna. « Ogni verso latino ha la stessa frase melodica , la quale << perciò si ripete tre volte ogni strofa ; il ritornello invece, sia poi da divi- << dere comunque, ha una sola frase musicale, che si svolge e compie in << modo regolare e facile , ma non inelegante » . Dallo studio della musica qualche buona conseguenza si può trarre anche per la lezione dell'ormai celebre ritornello romanzo. Il R. crede probabile che la melodia sia popolare, e siccome la notazione neumatica non può essere anteriore al mille, crede di ascrivere il componimento alla prima metà del sec. XI] . 200 CRONACA ANGELO SOLERTI. - Una visione dell'inferno di imitazione dantesca. -- Bologna, Zanichelli, 1892 ; ediz. di 64 esempl. per nozze Salvioni- Taveggia [Dal cod. miscellaneo 2751 della bibl. Universitaria di Bologna (sec. XV), estrae il S. questo poemetto di 43 ottave, rozzo nella forma, scorretto nella metrica e nella dicitura, ma non privo d'interesse. Finge l'anonimo verseggiatore una visione, nella quale gli compare Virgilio, che dopo avergli narrato alla peggio la sua storia, con tutte le favole di cui il medioevo soleva arricchirla, e avergli detto che ha libertà d'uscire quattro volte ogni quattro anni dal luogo di dannazione ove si trova , lo mena sur un monte ad un << palazzo murato », che ha certe finestre di cui <« ciascuna all'inferno respon- « deva ». Da queste finestre Virgilio mostra diffatti all'autore l'inferno, un guazzabuglio di peccati e di pene , in cui è impossibile il raccapezzarsi e giova credere non vi si raccapezzasse neppure lo stesso poco illuminato scrittore. Il quale tuttavia non trascura di raccogliere in una stanza la paganaglia di cui aveva notizia e di cacciare in mezzo ad essa Arturo, Tristano e Ginevra. Quell'orribile vista dura meno di sette ore, che. all'esterrefatto contemplante sembrano più di sette anni. Per quanto scorretto e rozzo, il componimento ha qualche ottava robusta, specialmente quella in cui rappresenta << uno vescovo colla mitra in capo » , che è tormentato insieme ad una badessa. Notevole è pure la patina dialettale , che certo appartiene al sud della penisola]. P. E. GUARNERIO. ― Due fole nel dialetto del contado genovese. -Genova, Sordomuti , 1892 ; ediz. di 100 esempl. per nozze Salvioni-Taveggia [ I titoli delle due fiabe sono A bela Bargaglina de tre meje chi canta e U belu Giülián, rispondenti la prima al noto motivo tradizionale delle tre melarance e la seconda al mito d'Edipo] . EMILIO MOTTA. - Il museo di un letterato milanese del seicento. - Bellinzona, tip. Salvioni, 1892 ; per nozze Salvioni-Taveggia [ Inventario delle medaglie, pietre intagliate, pitture, terracotte, manoscritti ecc. appartenenti alla raccolta di Giacomo Valeri nel 1627, secondo il cod. 669 della Trivul. ziana. I libri a stampa ed a penna sono abbastanza numerosi]. GUIDO MAZZONI. -Tre ballate e due sonetti antichi. Padova, tip. Gallina, 1892 ; ediz. di 60 esempl. per nozze Salvioni-Taveggia [ Rammenteranno i lettori che L. Frati rese conto in questo Giornale, XVIII, 438 di un frammento di cod. musicale del sec. XIV, che funge da guardia nel ms. 1475 della bibl. Universitaria di Padova. Un altro lacerto di quel medesimo codice rinvenne il M. come guardia d'un altro ms. della stessa biblioteca, il 684. Egli ne pubblica tre ballate, che portano il nome di m.. Francesco da Firenze, senza dubbio, come il M. congettura, il noto Francesco Landini degli Organi, che deve averne composto, non le parole, ma la musica. Alle ballate il M. aggiunge due sonetti, tolti da un ms. Udinese della seconda metà del sec. XV. Sono una corrispondenza per le rime tra un giovane che si lagna della sua donna e ne invoca pietà, e la donna che acerbamente lo respinge. Ogni verso di ciascuno di questi sonetti principia con la medesima frase ; l'uno Dogliome, Amor, omè, l'altro Dio ti li mandi]. VITTORIO Rossi. -Dialogo in sonetti. - Livorno, tip. Giusti, 1892 ; ediz. di 75 esempl. per nozze Salvioni-Taveggia [ Questi otto sonetti sono tratti CRONACA 201 da un opuscoletto popolare , stampato alla fine del sec. XV, ch'è in una miscellanea della Marciana. Essi riproducono un tema molto noto e diffuso, il contrasto fra la madre e la figliuola che vuol marito; ma rendono la situazione più comica e viva, facendo intervenire anche la fantesca, che tien le parti della padroncina. I caratteri sono delineati con abbastanza spirito. I versi, alquanto rozzi, sono in dialetto veneto]. RICCARDO BONINSEGNI. - Scherzo scenico inedito di Filippo Baldinucci. - Firenze, tip . Ferruccio, 1892 ; ediz . di 150 esempl. per nozze Caravelli-Mucci [La presente farsa è la quinta nel cod. Riccardiano 3471 trascritto da G. B. Fagiuoli . Pubblicandola , il B. la fornisce d'una breve notizia proemiale sugli scherzi del Baldinucci (sec. XVII) e di parecchie note di lingua. Il componimento infatti ha la sua importanza, se non unica principalissima, nella locuzione schiettamente toscana e ricca di vivacità arguta nei vocaboli e nelle frasi] . GIUSEPPE BACCINI. Sonetti amorosi di Bernardo Pulci. Firenze, tip. Bruscoli, 1892 ; ediz. di 100 esempl. per nozze Caravelli- Mucci [ Gli otto sonetti qui pubblicati si leggono nel canzoniere di B. Pulci ch'è nella Laurenziana (pl. XLI, 34) . Corrispondono rispettivamente ai num. 52, 74, 17, 83, 87, 100, 62, 10 dell'elenco alfabetico delle liriche del Pulci dato da F. Flamini, Lirica toscana del Rinascimento, pp. 713 sgg. Il B. corredò questa pubblicazione di note: una specialmente osservabile sulla villa medicea di Cafaggiolo, menzionata nel primo sonetto. Reputa il B. cosa sicura che Bernardo scrivesse « il Canzoniere in Mugello, nella sua villa detta il Palagio, << situata nel Popolo di S. Niccolò a Latera in Comunità di Barberino » ] . GIUSEPPE MAZZATINTI. Lettere inedite di C. I. Frugoni a mons. Angelo Fabroni. Forlì, Bordandini, 1892 ; per nozze Bruzzo-Farina [ Tolte dagli autografi della bibl. comunale di Forlì, come le altre che pubblicò A. Bertoldi. Cfr. Giorn. , XIX, 228. Tre sono del 1762, una del 1763, due del 1764, tre del 1768 : tutte datate da Parma. Recano particolari biografici ed anedottici non ispregevoli]. — TULLO CONCARI. -[Rappresentazione sacra dell'Annunciazione] . -Mi. lano, tip. Giovanola, 1892 ; per nozze Salvioni- Taveggia [ È una redazione diversa, forse dovuta ad un rimaneggiatore lombardo, del dramma di Feo Belcari edito dal D'Ancona, Sacre Rappr., I , 167 sgg. Il C. la trasse dal ms. C. 35 sup. dell'Ambrosiana, scritto nel sec. XV]. ANGELO BORZELLI. -La Polinnia del Cavalier Marino ? - Napoli, 1892 ; per nozze De Nuccio- Zona-De Nuccio [ Descrive , offre la tavola e dà saggi d'un codicetto posseduto dalla Società Napoletana di storia patria, che porta il titolo: Inni profani scritti nella sua prima prigionia nella Vicaria del sig. Cavalier Marino con aggiunta deʼprofumi del sonno. Il B. congettura che siano parte d'un'opera del Marino intitolata Polinnia, ch'egli dice di avere scritta, ma di cui sinora non s'era trovata traccia. Questo studietto è un frutto delle indagini storiche laboriose e pazienti che da parecchi anni il B. viene compiendo intorno al Marino. Di tali studî è anche saggio notevole un articolo, di sana pianta rifatto e pieno di erudizione, su Giov. Pietro d'Alessandro difensore del cav. Marino. Lo si trova nel Giornale storico araldico del Napoletano, an. I , nº 4] . 202 CRONACA - LUIGI ANTONIO VILLARI. Un frammento della autobiografia in sesta rima di Vincenzio Nannucci. — Faenza, tip . Conti, 1892 ; ediz. di 25 esemplari per nozze Caravelli-Mucci [ Il Nannucci ebbe l'idea bizzarra di scrivere in versi la propria vita. Ne compose cinque canti , e poi smise. Autografi ed inediti trovansi questi canti nella collezione Casella di Napoli. Il V. ha intenzione di pubblicarli insieme con uno studio sulla vita e sulle opere del chiaro filosofo. Qui ne anticipa un frammento del primo canto, che è una specie di briosa introduzione al singolare poemetto] . ― ERASMO PERCOPO. - Una statua di Tommaso Malvico ed alcuni sonetti del Tebaldeo. Napoli , 1892 ; ediz. di 35 esemplari per nozze CaravelliMucci [Date alcune notizie sulle opere di scultura eseguite in Napoli , dal 1481 al 1508, da Tommaso Malvico o Malvito, artista comasco, l'A. si trattiene sulla statua da lui fatta d'una bellissima giovane di Nola, Beatrice Notari, e ripubblica i sette sonetti che quella statua inspirò al Tebaldeo, cercando fissare per congettura quando e dove egli , che sembra non sia mai stato a Napoli, l'abbia veduta]. Il 22 novembre 1892 cessò di vivere il benemerito editore di questo Giornale, comm. ERMANNO LOESCHER. A lui gli studiosi italiani hanno molti obblighi , onde siamo certi che s'uniranno tutti a noi nel deplorarne vivamente la morte immatura. Federigo Ermanno Emilio Loescher era nato a Lindenau presso Lipsia il 15 luglio 1831 , pronipote a B. G. Teubner, e in Lipsia, il gran focolare del commercio librario germanico, fece, appunto come libraio, le prime armi sotto la guida di Emanuele Müller. Passò quindi a Magdeburgo, a Praga, a Vienna, per tornare, bene addestrato ed esperto, nella sua Lipsia, ove entrò nella libreria di C. F. Fleischer. La risoluzione del Loescher di stabilirsi in Italia fu presa allorchè venne a morte in Torino il suo connazionale Gustavo Hahmann, che dal 1855 vi teneva negozio di libri . Con energia e laboriosità singolari il Loescher, successo allo Hahmann con firma propria, fondò nel 1861 quella Casa editrice, che fu ed è una delle più meritamente fortunate in Italia e ch' egli diresse fino agli ultimi giorni suoi con amore ed oculatezza . Seguendo i trapassi della capitale d'Italia, instituì due Case filiali, una in Firenze nel 1865, l'altra in Roma nel 1870; ma il centro di tutto il grande traffico rimase pur sempre a Torino, ove risiedette costantemente il capo dell'azienda. Le qualità che il Loescher ebbe a palesare come editore debbono chiamarsi a giusto titolo eminenti. Dotato d'una memoria non comune e d'un bisogno innato d'ordine e di chiarezza in tutte le cose sue, egli aveva un tatto singolare nella scelta dei libri da pubblicarsi. Nello stringere qualunque patto andava cauto, ma dopo averlo fissato, ne era osservatore rigo- CRONACA 203 rosissimo. Giunto fra noi quando, nella recente costituzione del regno, mancavano del tutto i buoni libri scolastici, specie di filologia classica, egli contribuì innegabilmente a migliorare la nostra istruzione con la diffusione larghissima che diede ai migliori testi per le scuole classiche venuti alla luce in Germania. Fu questa certamente una delle principali sorgenti della sua fortuna, ma fu anche un gran beneficio per le scuole nostre. Il lavoro editorio, del resto, andava di pari passo con lo smercio dei libri d'assortimento ; ed anche in questo ramo il Loescher si guadagnò la fiducia d'una vasta ed onorevole clientela. Il desiderio di lucro, legittimo, anzi necessario in ogni industriale, non spense mai nel Loescher quello più nobile di giovare ai buoni studi . Egli aveva per la scienza un rispetto grandissimo e la voleva onorata, compensata, diffusa. Di questo suo elevato sentire sono prova specialmente le parecchie pubblicazioni periodiche ch'egli iniziò e condusse innanzi con tanta tenacia e con tanto coraggio. Il nostro stesso Giornale storico lo costrinse nei primi anni a sacrifici pecuniari non lievi ; ma egli non si diede per vinto e riuscì a migliorarne la situazione materiale. Vedeva con sommo compiacimento il crescere ed il fiorire delle sue collezioni periodiche e scientifiche ; non temerario, ma neppure pusillanime, affrontava senza titubare ostacoli ed anche pericoli , quando aveva la convinzione di far cosa buona e profittevole: questa era la sua idealità, che s'accompagnava in lui con l'opera positiva, industre e guardinga dell' uomo di commercio. Quantunque alle pubblicazioni di storia letteraria italiana egli si accingesse piuttosto tardi, quando già s'era conquistato un bel nome in quelle di filologia classica, di linguistica, di medicina, di scienze naturali , anche nel campo nostro produsse copiosamente ed elettamente. Non tenendo conto dei libri scolastici, rammenteremo qui la Biblioteca di testi inediti rari e quella degli autori italiani , la collezione della Scuola di Magistero della Facoltà di Lettere in Torino, le opere di A. Graf, la seconda edizione delle Origini del teatro di A. D'Ancona, la traduzione del Gaspary, la collezione di Canti e racconti del popolo italiano diretta da A. D'Ancona e D. Comparetti, i libri di C. Nigra, G. Lumbroso, A. Luzio, F. Novati ecc. , ecc . Fra tutte peraltro le sue pubblicazioni relative alla storia nostra letteraria merita la maggior gratitudine questo Giornale, che coi suoi venti volumi ormai compiuti tiene (ci sia permesso il dirlo) un posto segnalato e generalmente riconosciuto fra i periodici scientifici d'Europa. Il Loescher , fondandolo e cooperando per quanto stava in lui a meritargli il luogo che ora occupa, ha dato maniera agli studiosi d'onorare sè stessi e il paese. All' uomo intemerato, all' industriale accorto, al promovitore solerte di tanta e così nobile attività scientifica noi mandiamo, addolorati, da queste pagine l'ultimo, mesto saluto. LA DIREZIONE. 204 CRONACA + Un'altra morte immatura dobbiamo deplorare in questo fascicolo: quella del prof. ALFONSO CORRADI dell' Università di Pavia. Nato in Bologna il 6 marzo 1833, morì sul finire di novembre del 1892. Quantunque da venticinque anni egli professasse materia medica e farmacologia sperimentale, ed in varî rami della medicina pubblicasse opere notevoli, non è fuor di luogo il commemorarlo qui perchè la sua dottrina fu estesissima e di molte sue ricerche si avvantaggiarono assai gli studî storici e storico-letterarî. L'indole del suo ingegno lo portava a prediligere in singolar modo le indagini storiche : con un lavoro indefesso s'era procurata una erudizione sconfinata, e continuava a raccogliere di continuo fatti e libri ed opuscoli per trarne sempre nuovi ed utili contributi al sapere. Sua specialità era la storia della medicina, ch'egli illustrò con innumerevoli memorie, pubblicate in diversi periodici , specialmente nel Giornale della R. Società italiana d'igiene e negli Annali universali di medicina. Monumento insigne di queste sue faticose ricerche sono i quattro volumi degli Annali delle epidemie in Italia dalle prime memorie sino al 1850 , Bologna , 1865-67. Rispetto agli studî nostri vogliono essere particolarmente rammentati i tre volumi delle Memorie per la storia dell'Università di Pavia, Pavia, 1874-78, da lui compilate e in parte anche scritte, ed inoltre le Escursioni di un medico net Decamerone e le indagini sulla malattia mentale di Torquato Tasso. Era anche collettore passionato di epistolari e di lettere spicciolate, di molte delle quali si fece egli medesimo editore in più d'una occasione. Col Corradi si spense un ingegno versatile e vivo, che col suo bisogno febbrile di produzione avrebbe potuto ancora arricchire gli studi di molti dotti e felici risul- tati scientifici. Torino LUIGI MORISENGO, Gerente responsabile. - Tip. VINCENZO Bona.
NICCOLÒ DA CORREGGIO
Non un grande poeta, ma una figura tipica di cortigiano del Rinascimento, inclinato alle armi, alla galanteria, alle arti, agli splendori del lusso, a suo tempo negoziatore accorto, grato alle dame per la scioltezza elegante de' modi , grato ai principi pel senno, la destrezza ed il valore, grato al pubblico per la munificenza e la prestanza negli spettacoli d'arme e di scena ; egli era tale che se Baldassar Castiglione avesse potuto degnamente valutarne le doti, non avrebbe mancato d'additarlo a modello nel suo codice famoso di cortigiania. Ora che finalmente si vien conoscendo ed apprezzando quella fioritura cospicua d'ogni arte che fu il Rinascimento ferrarese nel periodo di Borso ed in quello d'Ercole I (1), non dispiacerà agli studiosi che alla luce di nuovi documenti s'illustri uno dei personaggi più simpatici e caratteristici di quella corte.
(1) Vedansi specialmente i due ottimi lavori di A. VENTURI , L'arte a Ferrara nel periodo di Borso d'Este, in Riv. stor. ital. , 11 , 687 sgg. e L'arte ferrarese nel periodo d'Ercole I d'Este, Bologna, 1890, estr. dagli Atti di Romagna. Per la cultura letteraria cfr. CARDUCCI, Delle poesie lat. di L. Ariosto, Bologna, 1876, Pp. 21 sgg.
Poco , ma non male , parla di Niccolò postumo da Correggio Alessandro Zilioli , nelle sue vite , destituite di critica, dei poeti italiani : « Di Niccolò Correggio , illustre barone italiano , e di Beatrice da Este sua moglie, nacque Niccolò secondo, celebre « non meno per le virtù dell'animo, che per il valore del corpo. Questi essercitando l'armi nell'essercito di Borso da Este Duca di Ferrara suo zio , contro Venetiani , fece prova di valoroso Capitano , e d'intrepido soldato : e quella volta spezialmente, quando nel fatto d'armi di S. Biagio su la riva del Po, dopo sanguinosa battaglia rimase prigione : e con la penna in mano essercitandosi nella poesia, scrisse versi, e rime così belle, fra le quali la Psiche e l'Aurora, che ne consegui molta lode nella Corte di Lodovico Sforza Duca di Milano, dal quale per segno < d'amorevolezza fu addottato nella famiglia de' Visconti, insieme «< con Gio. Galeazzo suo figliuolo, nel quale pochi anni dopo si estinse questo ceppo. Mori in Ferrara, dove anco venne in luce, e fu sepolto da Cassandra figliuola di Bartolomeo Coleone sua moglie con questo epitafio :
Conjugis hos claros cineres Cassandra sepulchro
condidit, assiduis tristior in lacrymis.
Hunc post fata viri Nicolai nomine Mater
naturae patrio dulce decus genuit.
Corrigium genus, ipsa dies Ferraria primos
natales, eadem praestitit occiduos.
Heu quid non morti liceat modo? namque sub isto
marmore rapta jacent, pulvere in exiguo,
jura, fides et amor, pietas, spes, gratia, mundi
deliciae, Phoebi, Martis, honor patriae » (1).
(1) Cod. Marciano it. X. 1 , p. 74. L'epitaffio è pieno d'errori nella copia dello Zilioli. Ci attenemmo al Tiraboschi, che pure, nè è il solo, lo riferisce.
Ma a Niccolò nostro non mancarono biografi meglio informati.
Senza por mente agli accenni sparsi nelle storie letterarie, antiche e moderne, e nei libri genealogici vecchi, nè a qualche
elogio gravido di parole quanto magro di fatti, noteremo subito
che uno de' primi eruditi che del Correggio s'occupassero con
cura speciale fu Giovanni Guasco (2), il quale aggiunse alle notizie biografiche di lui la stampa d'alcune rime, che in un cod.
già esistente nella biblioteca di S. Spirito di Reggio erano, non
sempre rettamente, assegnate a Niccolò.
(2) Storia letteraria del principio e progresso dell' Accademia di belle lettere in Reggio, Reggio, 1711, pp. 42 sgg. e 359-60.
Rettificò il Guasco, offrendo la prima base veramente solida per una biografia, Girolamo Colleoni (1 ) ; col suo discernimento consueto ne trattò il Tiraboschi nella Storia letteraria (2) e poscia, con largo corredo di documenti allora esistenti nell'Archivio di Correggio e su materiale ms. di Modena, fu in grado di tesserne la vita nella Biblioteca Modenese (3). Lo scritto del Tiraboschi rimane anche oggi una guida sicura : il Litta non fece che compendiarlo (4) e ad esso si attenne fedelmente anche Quirino Bigi (5), che del Nostro parlò con enfasi retorica, senza criterio di proporzione, da panegirista e non da storico, quantunque avesse il merito di far conoscere alcuni documenti inediti che lo riguardano e di stamparne per la prima volta non poche rime. Intendimento nostro non è di rifare la biografia di Niccolò da Correggio, ma solo di completare quanto ne disse da par suo il Tiraboschi. Ci serviremo di copiosi documenti rintracciati in ispecie negli Archivî di Modena (6) e di Mantova , e ci studieremo di porre nel suo vero posto quella figura, prendendo particolarmente in considerazione la sua attività letteraria. I. Beatrice, figlia naturale di quel Niccolò III marchese d'Este (7), da cui nacquero legittimi Borso ed Ercole , era in sui 27 anni (1) Notizia degli scrittori più celebri che hanno illustrato la patria loro di Correggio, s. 1. nè a. , ma 1775, pp. 15-18. (2) Ediz. Antonelli, VI, 1189-1195. (3) II, 103 sgg. (4) Famiglie celebri, Correggio, tav. III. (5) Niccolò postumo da Correggio , nel vol . VI delle Memorie funebri antiche e recenti pubbl. da G. Sorgato, Padova, 1862, pp. 123 sgg. (6) A Modena passò la parte maggiore delle carte che Michele Antonioli vide a Correggio e fece conoscere al Tiraboschi. Di un larghissimo spoglio dei documenti modenesi siamo debitori alla cortesia inesauribile di quel coltissimo gentiluomo ch'è il conte Ippolito Malaguzzi Valeri. Nell'Archivio di Correggio oggi non vi sono che copie recenti di stampe e mss. riguardanti in qualche modo Niccolò. Di ciò avemmo esatte informazioni , prima dal prof. Guido Dominez, poi dal prof. F. Foffano. (7) Un docum. dell' Arch. Estense ci fa sapere che la madre di Beatrice 208 LUZIO-RENIER quando nell'ottobre nel 1448 andò sposa a Niccolò di Gherardo da Correggio. Della sua fama di gentildonna sfarzosa ed amabile sarebbe insigne testimonio un passo di Antonio Cornazano nel Libro dell'arte del danzare , ove egli la chiamerebbe « regina << delle feste », riferendo questo proverbio che correva per Ferrara : « chi vole passare da un mondo all'altro odi sonare Piero- < bono; chi vole trovare el cielo aperto provi la liberalità del < duca Borso; chi vole vedere el paradiso in terra veggia Ma- << donna Beatrice in una festa »; ma è pur sempre discutibile se per avventura questo passo appartenga alla seconda redazione del libro , e si riferisca quindi a Beatrice figliuola d'Ercole I d'Este (1). Comunque sia, l'unione maritale tra Beatrice e Niccolò non ebbe a durare che pochi mesi. Il 4 agosto 1449 egli moriva (2), lasciando la moglie incinta, e ne' primi mesi del 1450 nasceva, secondo probabile congettura del Tiraboschi (3), Niccolò postumo. Lionello e poi Borso , che nel 1450 gli successe , furono affezionati alla sorella (4) e curarono l'educazione e la prosperità materiale del nipotino. Egli fu educato nelle lettere da Paolo chiamavasi Anna. Vedi Cam. Duc. , Memoriale 1452, c. 58 : « Per spese facte << a la egregia M. Anna, madre de la ill. M. Beatrice sorella de lo ill.mo « n. s., quando epsa M.ª Anna retornoe indreto de avere accompagnato la « prefata M.ª Beatrice a marito ecc. ». (1) Per tale questioncella vedi RENIER, Osservazioni sulla cronologia di un'opera del Cornazano, in questo Giorn. , XVII , 142 sgg. Un documento dell'Arch. Est. (Cam. Duc. , Mem. 1449, c. 131) parla di molti ricami d'oro fatti sulle vesti e le giornee di Beatrice. Se realmente Beatrice fu tanto dedita al lusso e alle feste, sarebbe questa una tendenza che Niccolò postumo avrebbe ereditato da lei. (2) È questa la vera data, come si ricava da docum. dell'Arch. Est. (Cam. Duc. , Mandati 1449, c. 104) . Il TIRABOSCHI, Bibl. Mod. , II, 1034 , le si approssimò per congettura. (3) L'epitaffio da noi sopra riferito dice esplicito che Niccolò vide la luce in Ferrara. A ciò non osta il fatto che nell'Arch. Est. v'ha un mandato del 13 sett. 1449 riguardante la spesa per condurre Beatrice da Ferrara a Correggio. (4) Il 17 genn. 1450 si assegnarono a Beatrice lire marchesane 40 al mese (Arch. Est. , Mandati 1450, c. 11). Anche il primo Niccolò da Correggio godeva d'un assegno mensile di 50 marchesane, che dopo la sua morte furono NICCOLO DA CORREGGIO 209 Antonio de' Beccari e strinse relazione col celebre Pier Candido Decembrio (1) ; Federico III imperatore, passando da Ferrara nel 1452, creava cavaliere il bambino Niccolò e concedeva, a lui ed a' suoi, feudi e privilegi ( 2) . Niccolò trascorse l'infanzia e la prima giovinezza alla corte di Ferrara, d'onde talora si recava a Correggio e probabilmente anche a Milano, dopochè la madre Beatrice vi aveva preso stanza passando nel 1454 a seconde nozze con Tristano Sforza, figlio spurio del grande Francesco (3). Pare che lo sviluppo del giovinetto fosse ben precoce , giacchè il 20 ottobre 1467 , quand'egli aveva di poco trascorso i 17 anni , la madre sua scriveva a Borso, « l'è oramai uno homo per tuto » e pregava il fratello di « dargli qualche principio di soldo » ( 4). Nel 1468 negoziava già col signore d'Urbino, minacciante in nome del Duca di Milano lo stato di Correggio (5) ; nel 1469 lo troviamo andare incontro all'imperatore Federico, che stanziò nuovamente in Ferrara nel ritorno da Roma (6). Ma ben presto dopagate ai fratelli di lui, Manfredo, Antonio e Giberto. Vedi nell'Arch. Est. mandato ducale del 20 agosto 1449. (1) Su ciò ottimamente TIRABOSCHI , Bibl. , II , 105-6 , il quale pubblica di su un cod. Ambrosiano alcune lettere , di soggetto filosofico , che si scambiarono Niccolò ed il Decembrio (pp. 130-134). (2) Diario ferrar. in MURATORI , R. 1. S., XXIV, 200, già avvertito dal Tiraboschi. Da un docum. di Correggio passato nell'Arch . di Modena (Cancell. Duc., Stati esteri, Correggio) risulta che il 25 giugno 1452 l'imperatore Federico III investì Manfredo , Antonio, Giberto e Niccolò di Niccolò da Correggio di diverse terre e castella nel Reggiano, Parmigiano e Cremonese, e conferì loro il titolo di conti di Correggio e Brescello , concedendo alla famiglia lo stemma con l'aquila nera in campo d'oro , due leoni rampanti d'oro con gigli d'oro sul capo in campo celeste : << in parte etiam ipsius <« clypei inferiori campus rubeus, sive rubei coloris resultat, in cuius medio « barra seu strata alba per transversum resplendet ». (3) Vedi LITTA, Famiglie, Sforza , tav. I. Per quelle nozze scrissero epitalami F. Filelfo e Guarino Veronese. Cfr. BIADEGO , Cat. mss. bibl. Com. di Verona, Verona, 1892, p. 145. (4) Arch. Est. , Cancell. Ducale, Carteggio principi esteri ; Milano. (5) Arch. Est., Cancell. Duc. , Correggio. In seguito le cose s'inacerbirono vieppiù e lo stato di Correggio corse grave pericolo da parte di Galeazzo Maria Sforza. Fu Borso che compose quella vertenza. Cfr. TIRABOSCHI, Bibl. Modenese, II, 107-8. (6) Diario Ferrarese, XXIV, 216, rilevato già dal Tiraboschi. Cfr. FRIZZI, St. di Ferrara², IV, 63-65. 210 LUZIO-RENIER veva presentarsi una occasione solennissima, della quale Niccolò avrà serbata per lungo tempo la ricordanza : egli accompagnò lo zio Borso a Roma nel 1471, quando il papa Paolo II lo proclamava duca di Ferrara e di Modena. In quella congiuntura l'Estense sfoggiò tutto il suo lusso principesco (1). Fra i cavalieri del seguito, vestiti di broccato d'oro e di velluto , eranvi anche due letterati cospicui, Teofilo Calcagnini e Matteo Maria Boiardo(2). Seguì poco dopo una grande sventura, la morte di Borso ( 19 agosto 1471) : a lui successe Ercole I (3) . Niccolò , desideroso di gloria militare, procurò d'esser nominato condottiero d'armi della repubblica veneta e impalmò il 16 marzo 1472 Cassandra, figliuola del celebre capitano Bartolomeo Colleoni ( 4) . Nè la condotta nè il matrimonio gli impedirono di recarsi nel 1473 a Napoli , con la comitiva ferrarese delegata a scortare a Ferrara Leonora d'Aragona sposa d'Ercole I (5) . Anche questa volta il Correggio si trovò al fianco di Matteo Boiardo. Quattro anni dopo, nel maggio 1477, aveva l'onore di riaccompagnare a Napoli Leonora , che (1) Si vedano FRIZZI, IV, 75 sgg.; PASTOR, Gesch. der Päpste, II , 390 sgg.; CELANI, La venuta di Borso d'Este in Roma, in Arch. soc. Romana, XIII , 361 sgg.; GANDINI , Viaggi, cavalli , bardature e stalle degli Estensi nel Quattrocento , Bologna , 1892 , pp. 9-15 , che offre copiosi documenti sulle spese fatte in quell'occasione. (2) Cfr. la lettera del Caleffini edita da A. CAPPELLI, Notizie di Ugo Caleffini, in Atti e mem. per le provincie di Modena e Parma, S. I, vol. II, p. 306. (3) FRIZZI, IV, 79 e 84-85. (4) Bibl. Modenese, II, 108. Il BIGI (pp. 127-130), sempre prodigo di ciarle, vi ricama intorno un leggiadro romanzetto. Pare che in quel tempo Niccolò si straniasse alquanto dalla madre, perchè questa, il 5 marzo 1472, chiedeva notizia al duca Ercole « del cortese de mio figliolo che mai non m'ha scripto << una sola fiata poi ch'io sono in questa tribulazione » , cioè dalla morte di Borso in poi. Vedi Arch. Est., Canc. Duc. , Principi Esteri, Milano, (5) II TIRABOSCHI , Bibl. , p. 109, non se ne mostrò troppo sicuro , perchè ne trovò solo menzione nella cronaca ferrarese dell' Isnardi. Difatti Niccolò non compare nè nella lista della comitiva, che ci lasciò il Caleffini (cfr. Arch. soc. Romana, I , 480, n. 1) , nè nei documenti copiosi sulle nozze di Ercole che L. OLIVI pubblicò nelle Memorie dell'Accad. di Modena, S. II , vol. V. Ma ciò non vuol dir molto perchè da nessuno di questi documenti si può ricavare la lista compiuta. Noi riteniamo che il Correggio interve- NICCOLO DA CORREGGIO 211 recava seco le due figliuolette bambine e che in patria diede alla luce Ferrante (1). Da quest'incarico non potè stornarlo il servigio, ch'egli aveva assunto nel 1475, di Galeazzo Maria Sforza, servigio forse solo nominale, che peraltro non gli tolse di aver in seguito nuovi disgusti con la corte di Milano (2) . Fu durante la sua dimora in Napoli del 1477 che Niccolò diresse a Lorenzo de' Medici il seguente biglietto, non privo d'interesse: Magnifice et generose tanquam frater honorand. Io aricordo a V. M.tia la promessa che la me fece de mandarme subito ch'io fusse qua a Napoli el zerbo de Aloyso di Pulzi. Ormai vanno per tri mesi ch'io gli sono et ancora non l'ho avuto, che penso sia processo per non essersene recordato quella. La quale prego me lo voglia mandare. De nove che se intendino qui non ge ne scrivo cosa alcuna, persuadendomi che da altri la ne debia essere advixata a sufficientia. Ben me serà gratissimo che avendo V. M.tia qualche bona nova dal S. Roberto [ Sanseverino] che la me la faci intendere. A lei di continuo me raccomando. Neapoli XIIл aug. 1477. Nicolaus de Corigia comes ac armorum dux (3). Che cosa il signor di Correggio intendesse indicare con quella parola zerbo, di cui non sembra dubbia la lettura, non è agevole il giudicare. Zerbo non è parola ignota ai dialetti lombardi : oggi ancora s'usa zerb (o gerb) nel milanese per indicare terreno stenisse perchè, oltre la cronaca citata dal Tiraboschi , lo dice esplicitamente fra Paolo da Legnago nella sua cronaca ms. , che si conserva nella biblioteca dell'Arch. Estense, a c. 134 v. Il Frizzi, IV, 93, desunse la notizia da altra fonte. (1) FRIZZI, IV, 107 ; Tiraboschi, 1. cit. (2) I rapporti di Niccolò con Galeazzo Maria e poi con Bona di Savoia furono sempre tesi, nonostante la parentela contratta per via di madre. Vedi le importanti attestazioni fornite dal TIRABOSCHI, Bibl. , II , 109-112. Quando nel 1476 il Duca di Milano veniva assassinato , non mancò il Correggio di scriverne subito ad Ercole, mostrandogli quanto propizia fosse quell'occasione per ricuperare le terre perdute. Arch. Est. , Cancell . Duc. , Correggio. (3) Arch. di Stato di Firenze. Medici av. Princip. , F. XXXV, P. I , docum. 672. Comunicaz. di Vitt. Rossi. 212 LUZIO-RENIER rile o sodaglia (1). Il medesimo Niccolò da Correggio, nella st. 39 della sua Psiche, finge di dire ad Amore : o fanciulletto alato, perchè a un tuo servo sei tanto superbo? Si pur non vuoi ch'io dorma in questo prato, lasciami sotto qualche pruno o zerbo. Se non che tra le composizioni note di Luigi Pulci nessuna ve n'ha che corrisponda nel titolo o nel contenuto al senso dialettale di zerbo, che nell'uso di Niccolò sembra equivalga su per giù a cespuglio. Il Morgante, quantunque già cominciato da parecchi anni , non vide la luce , nell'ediz. di 23 canti , prima del 1481 (2) . Non resterebbero quindi se non due supposizioni : o che si tratti d'una scrittura del Pulci a noi del tutto ignota , o che Niccolò volesse scrivere zergo e non zerbo (3), nel qual caso ci sarebbe da pensare ad una delle composizioni furbesche venute di moda in quel tempo, di cui il Pulci ci lasciò più d'un esempio (4) . Nella primavera del 1478 Niccolò era infermo in Correggio, e non sembra si trattasse di cosa lieve perchè il duca Ercole gli mandò il suo medico e Beatrice d'Este volò da Milano ad assisterlo (5). Ristabilito poco appresso, il Correggio fu nominato condottiero d'armi dall ' Estense nella guerra che si combattè dopo (1) Cfr. CHERUBINI, Vocabolario milanese, s. v. Il casato dei Zerbo non è infrequente : conosciamo un letterato del sec. XV, che rispondeva al nome di Lodovico Zerbo, ed un poeta Gabriele Zerbo del sec. XVI. (2) GASPARY, Storia, II, I, 247. Tra le lettere d'Ercole I nell'Arch. di Modena (Reg. 1478, c. 105 v .) una ve n'è in cui chiede il Morgante, in data 11 nov. 1478 ; segno manifesto che anche prima della stampa il poema potè godere di qualche diffusione. (3) Questa congettura ci viene suggerita dal ch. Salv. Bongi, il quale suppone pure che il b di zerbo possa essere un g alla mercantile, che somiglia molto al b. Non ci fu dato di verificare coi nostri occhi se quest' ipotesi colpisca nel segno. (4) Cfr. Lettere di Luigi Pulci , ediz. Bongi, Lucca, 1886, pp. 170-172. Il Pulci si dilettava di scrivere in gergo allo stesso Lorenzo (ibid. , pp. 58-60) ; e piene di gergo sono le invettive in sonetti contro il Franco. (5) Arch. Est., Canc. Duc. , Epistolario di Ercole, 1478, cc. 75 e 78. NICCOLO DA CORREGGIO 213 la congiura dei Pazzi, ed in cui Ferrara era alleata di Firenze (1) . Cercarono in quel tempo (estate 1479) i cugini di Niccolò di danneggiarlo in Correggio , ma il Duca , venuto a contezza di quei maneggi , seppe sventarli acconciamente (2). Levato il campo e conclusa la pace nel 1480, potè di nuovo il nostro Correggio far ritorno nell'Italia superiore. L'oratore estense Cesare Valentini così scriveva al Duca da Milano, il 15 dic. 1480 : « La ill.ma Ma- << dona Beatrice giunse non heri l'altro cum lo M.co Mes. Nicolò << suo figliolo sani salvi et di bona voglia : et le sue S.rie in lo <<< intrare in Milano furono honorate assai per comissione del << S.r Ludovico et de Mes. Pallavicino. Tra dui o vero tre di se << attenderà ad adaptare le cose tra sue S.rie et domino Pallavi- << cino » (3) . Si trattava del matrimonio di Elisabetta, figliuola di Tristano Sforza († 1477) con Galeazzo Pallavicino (4). In quella congiuntura il nostro personaggio entrò particolarmente nelle grazie di Giangaleazzo , duca di Milano , e forse ancor più dell'astuto suo zio e tutore Ludovico, il quale era in grado di apprezzare giustamente le qualità di Niccolò. Vediamo subito che il 17 genn. 1481 il duca di Milano, di buon accordo con Beatrice, investe ufficialmente Niccolò della contea di Castellazzo nell'Alessandrino e gli fa parte dell'arma dei Visconti , concedendogli di portarne il cognome ( 5). Tali segnalati favori dovevan legare per molto tempo il Correggio agli Sforza , di cui prima , come vedemmo, aveva avuto ben poco a lodarsi. Infatti per molti anni (1) FRIZZI, IV, 108-9 e Bibl. Moden. , II, 113. Cfr. Arch. Est. , Epistolario di Ercole I, 1479, c. 7 v. (2) Fu la moglie di Niccolò, che in una sua lettera intercettata da Ercole lo consigliava a trasferirsi a casa co' suoi uomini d'arme per guardar le cose sue dal maltalento dei cugini. Il Duca esortò quel suo fido a rimanere al campo e disse ai cugini , particolarmente a Borso, parole così persuasive , che si chetarono. Arch. Est. , Epist. d'Ercole, 1479, cc. 40, 41, 44. (3) Arch. Est. , Carteggio Ambasciatori, Milano. (4) Documenti rilevanti su quelle nozze nell' Arch. Est. , Principi esteri, Milano, Lod. Sforza, 21 nov. e 6 dic. 1480 , e Beatr. Sforza , 2 genn. 1481. Cfr. il carteggio dell'oratore Valentini. (5) TIRABOSCHI , Bibl. , II , 113-114. Nell' Arch. Est. vedi su di ciò un dispaccio dell'oratore Valentini, in data 19 genn. 1481. 214 LUZIO-RENIER egli fu attaccatissimo particolarmente a Ludovico il Moro ed alla consorte di lui Beatrice, per mezzo della quale nuovo vincolo si stabiliva tra i suoi Estensi e gli Sforza. Allorchè quella coltis→ sima dama che fu Ippolita Sforza, moglie di Alfonso d'Aragona, venne a morte il 19 agosto 1488 ( 1) , Niccolò pianse in versi la sua fine (2) ; e così pure deplorò quella di Bianca, figliuola na- (1) Non 1484, come fu detto e ripetuto da storici e genealogisti. L'anno vero è indicato dal CORIO, III , 426, il giorno da Donato Bossi ( Cron. , ediz. 1492) e meglio dal Leostello. Vedi i Docum. per la storia, le arti e le industrie delle provincie napolitane a cura del principe Filangieri, I, 155-56. (2) Vedi il capit. La spoglia che già fu ricco ornamento nel cod. Mantovano A. IV. 30. Nel cod. Magliabech. II. II. 75, a c. 66 v. , e conseguentemente nel Parigino it. 1543, si legge una visione di un Francesco Orombello sulla morte d'Ippolita (cfr. BARTOLI, MSS. Mgl. , II, 138). Finge il poeta che la gran dama, passata a vita migliore , gli imponga di tacere perchè essa è beata e gode della vista di Dio. Allora l'Orombello le chiede che voglia permettergli di cantare le cose vedute et udite , | Sì che ' l mio stil fa quel che le palesa. Ippolita risponde che ciò è riservato ad un principe : Deh chi sarà , diss'io, che ad or ne dica, che oldo che prince et quasi ogni signore han litteral doctrina per nemica? Par s'adirasse, et disse : In quanto errore incorre l'nom che non intende et dice ! Vergogna sè, nè ad altri cresce onore. Sai che l'illustre donna Beatrice un figlio ha tanto nobile et si degno, chiamar si può per lui essa felice. Ha gran dottrina et pellegrino ingegno, speranza et ver conforto et di salute dell'italico onor scudo e sostegno. Vecchio è di senno in filor di gioventute, in ogni sua action pronto et gentile, norma è di vita et specchio di virtute ; sententia ha grave, alto e leggiadro stile, termini a l'opre accomodati e tersi, parole chiare, e ' l senso lor soctile . Gratia ha di dire in rima prosa et versi · con tanto ornato et elegantia tale ; mille per lui sono al ben far conversi • • A lui vo' dar di dir di me la cura, chè, come ho decto, ha la doctrina e l'arte, nè gli sarà per me cosa aspra o dura. Copiò per noi questi versi (bruttini molto, a dir vero, ma significanti al proposito nostro) il prof. Pasquale Papa. Su Ippolita e le sue relazioni con letterati vedi quanto scrisse F. FLAMINI in questo Giornale, XX, 14-15. NICCOLO DA CORREGGIO 215 turale del Moro (1), e s'inteneriva a mirare il ritratto della povera Beatrice, così immaturamente rapita (2) . Nè quel fido cuore partecipava meno alle gioie degli Sforza, come può persuaderci il sonetto ch'egli scrisse quando Bianca Maria, sorella di Giangaleazzo, andò sposa a Massimiliano imperatore (3). I nuovi rapporti di servitù con gli Sforza non dovevano peraltro portare pregiudizio agli antichi con gli Este, ai quali Niccolò era legato da tanta gratitudine. Egli era pur sempre condottiero del duca di Ferrara (4 ), ed al bisogno disimpegnava anche l'ufficio di cancelliere (5) , poichè con la penna non valeva meno che con la spada. Prese parte alla guerra ferrarese contro i Veneziani ed in un fatto d'arme dei primi di novembre del 1482, presso Argenta, cadde nelle loro mani (6). Con vera cordialità la duchessa Leonora ne scriveva, subito dopo, alla moglie di Niccolò in questi termini : Mag.ca et generosa tamquam soror dil.ma. Mo haverite sentito il caso della presa del M.co Mes. Nicolò vostro consorte, quale è sta preso per li inimici nostri, bene senza altra sua lesione. Crediti che 'l ce grava tanto quanto de cossa che ni accadesse mai di nostro danno: tutavia a quello che piace a Dio non se po fare resistentia. Confortamovi ad avere pacientia et non pigliare per questo troppo affanno, perchè queste sono delle fructe de la guerra, (1) Il sonetto è nel cod. Torinese di cui discorreremo, e fu pubblicato da R. RENIER nell'opuscolo per nozze Salvioni-Taveggia , che s'intitola Canzonieretto adespoto di Niccolò da Correggio, a p. 18. (2) Nell'opusc. or ora cit. a p. 17. (3) Nello stesso opuscolo a p. 19. (4) I capitoli con cui il duca di Ferrara lo riconduceva al suo stipendio sono nell'Arch. Est. , Principi esteri , Correggio, 1482 senza mese. (5) Una licenza di caccia rilasciata da Ercole d' Este il 29 marzo 1481 è firmata Nicolaus Corrigius cancelarius scripsit. Arch. Estense, epistolario d'Ercole, c. 57. (6) Diario Ferrarese, in R. I. S. , XXIV, 263. Numerosi documenti intorno alle mosse militari di Niccolò in questa guerra sono nell'Arch . Estense. Di tutti quei documenti abbiamo notizie diffuse , ma non possiamo trarne profitto per non estenderci di soverchio. Si noti che la duchessa Leonora carteggiava continuamente col Correggio su quegli apparecchi e su quei fatti d'arme. Cfr. anche la cronaca ms. di fra Paolo da Legnago. 216 LUZIO-RENIER • et non dubitamo che ' l serà salvo et ben raccolto. Et noi etiam dal canto nostro faremo ogni bona provisione per la sua liberatione et non ge mancaremo de covelle; et valete ecc. Heleonora Ducissa (1). Portato a Venezia su d'una fusta con Ugo di San Severino, il Correggio non vi fu trattato troppo dolcemente. Il Duca di Ferrara non trascurava alcun mezzo per ottenere la sua liberazione (2) e Ludovico Sforza vi s'adoperava egli pure (3). Ma le trattative non volgevano a bene. Chiuso nella Torricella per parecchi mesi, Niccolò si lamentava il 13 marzo 1483 per le tante << pulici et cimisi e pantiche » e per la « puzza grandissima » di quella prigione , dove gli era d'uopo desinare senza tavola (4). In quei desolati momenti la sua Musa gli ispirò un sonetto molto significativo, in cui compiangeva Ferrara e la consigliava a cedere : Io t'amo. Tu sai ben ch'io n'ho cagione. Deh perchè non deponi omai l'orgoglio, che sai sol l'umiltà vince il Leone? (5). Erangli quei versi suggeriti , più che altro , dalle sue angustie personali? Non è improbabile , giacchè in quei mesi ebbe molto a soffrire. Anche la madre di Niccolò rivolgevasi al Duca suo fratello il 21 aprile 1483 con parole che manifestavano la sua agitazione : << Per ritrovarse mio figliolo tanto tempo in grandis- (1) Arch. Est., epist. di Leonora, 1482, c. 79 v. (2) Di ciò molti documenti nell'Arch. Estense. (3) Il Moro proponeva il cambio di Niccolò e di Ugo con la famiglia di Roberto Sanseverino. Vedi nell' Arch. Est. il Carteggio degli Ambasciatori, Milano, 21 nov. 1482. (4) Lettera di Niccolò nell' Arch. Est. , Principi esteri , Correggio. Vedi anche nel medes. carteggio la lett . 11 aprile 1483 e quella del 20 apr. '83 ch'è nel Carteggio de' principi esteri, Milano, Lud. Sforza. (5) Son. Vedova sola, ottenebrata e scura, riferito dal SANUDO (R. 1. S., XXII, 1226) e poi dal TIRABOSCHI , Bibl. , II , 115 e dal BIGI, p. 162. G. B. VENTURI, a p. 69 della sua ediz. delle Poesie del Boiardo, opina che alla prigionia di Niccolò alluda l'ecloga IV del Boiardo. L'ecloga è stampata in quella ediz. a pp. 91 sgg. , ma nella forma bucolica involuta mal si riesce a distinguere il fatto politico di cui si tratta. NICCOLO DA CORREGGIO 217 « sima strettura e sinistro, per essere zentil de natura et comples- « sione, mai sto senza immenso affanno et cordoglio, addubitando, < per esser servito da facchini, quali secundo V. Ex.tia sa, vanno <<< et praticano per tutta Venetia dove intendo c'incomenza la < peste , non gli la attachino et mora come uno cane , stando < maxime in quella gravissima puza et cattivissimi tractamenti « et incomenzando a crescere el caldo..... » . Pregava perciò il Duca di cavarla di tanta pena e pratiche analoghe stava facendo con Ludovico Sforza (1) . Nonostante peraltro la buona volontà di quei due potenti signori, Niccolò dovette languire alla Torricella sino al settembre. Alla metà di quel mese fu finalmente rilasciato (2). Quantunque il materiale dell' Archivio di Modena , che possediamo, riesca a farci seguire passo passo il nostro personaggio negli anni successivi, noi non vogliamo profittarne troppo largamente. I documenti ce lo mostrano di continuo sollecito nel servire i suoi Estensi (3), dal 1484 al '90 : il più del tempo egli sta a Ferrara, ma talvolta si reca a Correggio e più spesso a Milano. La congettura del Tiraboschi (4) che a tenere per lo più lontano da Correggio il nostro Niccolò concorresse « il timore di venire <<< a discordia co' suoi cugini, co' quali avea comune il dominio », ci sembra colpisca nel segno. Vedemmo infatti come già in addietro , quando Niccolò militava in Toscana, facesse mestieri al Duca d'interporre l'autorità sua per evitare gravi dissensi di famiglia ; e il Tiraboschi ci mostra che nel 1490 Matteo Maria Bo- (1) Arch. Est., Principi esteri, Milano, Beatrice d'Este. (2) Il 17 sett. era già a Ferrara : « Il M.co Mess. Nicolò da Corezo, quale < era captivo a Vinetia, è gionto questa matina qui , per cambio del quale < avemo relassati il capitano che era dell'armata del Po et dui altri gentil- < homini venetiani che avevamo , boni die fanno , pregioni » . (Arch. Est. ) . Si cfr. TIRABOSCHI, Bibl. , II , 114. (3) Lo stipendio che ne ritraeva era ragguardevole. Il 1º sett. 1484 gli si davano in tempo di pace 2850 fiorini e 4100 in tempo di guerra, ma aveva l'obbligo di tenere 40 uomini d'arme. Vedi Memoriale del soldo, 1484, nell'Arch. Estense. (4) Bibl. , II, 116-17. 218 LUZIO-RENIER iardo terminò giudiziariamente un'altra querela sorta tra Niccolò ed i suoi congiunti. Dal 1490 in poi cominciano a farsi più strette le relazioni di Niccolò con Ludovico Sforza, sicchè in breve egli giunge ad acconciarsi con lui ed a scegliere a dimora quasi abituale la fastosa Milano, da cui non pertanto s'allontanava, non solo per negozî, ma per ricevimenti e feste nelle sue terre e a Ferrara (1). Narrano concordi gli storici che egli fece parte della solenne ambasceria milanese che nel 1492 recossi a Roma per complimentarvi il novello pontefice Alessandro VI, ambasceria che ebbe non piccola importanza politica (2). Ma ciò che gli storici tacciono è che probabilmente in quella occasione il nostro Correggio ebbe a guastarsi alquanto col Duca Ercole, che lo voleva seco a Roma. L'Estense, indispettito, gli tolse la provvigione assegnatagli, ed è curiosa la lettera di Niccolò al suo antico signore, in data 5 apr. 1492, in cui si giustifica rammentandogli i viaggi fatti a Napoli con la duchessa Leonora, a Roma col duca stesso, a Venezia ed a Milano, e l'ordine , per ben due volte ricevuto e poi sospeso, di recarsi in Ungheria (3). La scissura peraltro non durò a lungo. (1) Vedi su di ciò Tiraboschi, Bibl. , II , 117-118. (2) Il giureconsulto Giason del Maino tenne al pontefice una orazione, che rimase celebre. Vedi SASSI, Hist. lit. typogr. mediolanensis , Milano , 1745, col. CCCLVIII e GABOTTO , Giason del Maino , Torino , 1888 , pp. 158-163 , non che gli storici milanesi. Nella comitiva entravano anche altri uomini di lettere, come Galeotto del Carretto e Baldass. Taccone. Il Taccone compose in quella congiuntura dei distici, che si leggono nel cod. Sessoriano 413 insieme con altri epigrammi latini da lui diretti al Correggio. Cfr. SPINELLI, in Arch. stor. lombardo , XIV, 813, nº 18, 23, 24; 814, nº 28; 819 , n° 60, ed anche La Danae di B. Taccone, Bologna, 1888 (per nozze), pp. 8-9. (3) Nell'elegante ritrovo milanese di Cecilia Gallerani il BANDELLO (P. I , nov. XXI) fa narrare a Manfredo da Correggio (il figliuolo di Borso) una beffa fatta in Ungheria da una gentildonna a due baroni. Egli dice d'averla saputa da suo zio Niccolò da Correggio, il quale per commissione del Moro si recò in Ungheria per accompagnarvi il card. Ippolito d'Este quando prese possesso del suo vescovado di Strigonia. L'Archivio Est. conserva la lettera corrucciata di Ercole e la risposta di Niccolò (Principi esteri , Correggio). Il 26 apr. '92 questi mandò l'una e l'altra allo Sforza acciò giudicasse (Carteggio Ambasc. , Milano, Giac. Trotti). NICCOLO DA CORREGGIO 219 Nel 1494 il Moro spedi Niccolò in Francia (1 ) ed egli stette alla corte del Cristianissimo per diversi mesi, dall'aprile alla metà di giugno (2). Poi, quando il duca d'Orléans giunse ad Asti col principe di Salerno il 9 luglio 1494, Ludovico « mandoe do soi < principali fino in Aste a visitar ditto Duca , i quali fonno el << signor Nicolò da Corezo et Galeazo Vesconte » (3) . Ch'egli nel 1495 prendesse parte, nell'esercito del duca di Milano, alla guerra della Lega contro Carlo VIII non è dubbio ( 4) , ma che fosse a Fornovo non si può assicurare (5). Tuttavia egli stette fedele al Moro, risiedendo quasi sempre in Milano , sino al 1497 , in cui due grandi sventure dovevano rendergli meno grata quella città : la morte di Beatrice d'Este, cui il nostro era singolarmente affezionato, e quella della propria madre (6) . Oltracciò quest'ultima perdita riaccendeva tra Niccolò e lo Sforza, sempre bisognoso di denaro, una vecchia discrepanza , quella per il feudo di Castellazzo, che fin dal 1485 il Moro voleva ritogliere ai Correggio e che ora più securamente poteva appropriarsi (7). Nel febbraio (1) Ad un'altra ambasceria in Francia Niccolò era stato destinato dal Moro fin dal 1491 , come si può rilevare da varî dispacci dell ' oratore Giacomo Trotti, ma si finì col non farne nulla. Curiosa una lettera del marzo '91 che a proposito di quella legazione scriveva Borso da Correggio alla Duchessa di Ferrara. Egli dichiarava di uniformarsi al giudizio di lei , cioè che il conte Gio. Francesco Gonzaga v'andasse per parlare del mestiere dell'armi e di cose di stato , Niccolò da Correggio di sonetti e di canzoni , Antonio Caracciolo di falconi e di cose agrarie, Gio. Francesco Marliano di leggi e d'arte oratoria. Arch. Est. , Principi esteri, Correggio. (2) Arch. Estense. Relazioni dirette di Niccolò da Lione l'oratore Giac. Trotti. dispacci del- (3) SANUDO, La spediz. di Carlo VIII in Italia, Venezia, 1873, p. 58. Niccolò è detto dal Sanudo (p. 399) « soldato e consier del duca di Milano » . (4) SANUDO, Spediz., p. 411, e parecchi documenti dell'Arch. Est. , specie nel suddetto carteggio del Trotti. (5) Dubitoso fu il TIRABOSCHI, Bibl. , II, 118 e dubitosi siamo noi con lui. Il BIGI (pp. 138-39) è sicuro che Niccolò combattesse al Taro , ma le attestazioni ch'egli adduce non sono tali da togliere valore al silenzio delle fonti contemporanee. Anche il poemetto La guera de Parma, ripubblicato or non è molto da H. UNGEMACH (Schweinfurt, 1892) accenna a Galeazzo da Correggio, che al Taro fu morto, ma non a Niccolò. (6) Diario Ferrarese, in R. 1. S., XXIV, 350. (7) Vedi TIRABOSCH , Bibl. , II , 118-19. Intorno ai malumori nati nel 1485 220 LUZIO-RENIER del 1498 il nostro gentiluomo abbandonò Milano (1 ), per recarsi a Correggio e di là a Ferrara. Ivi avrebbe potuto vivere tranquillo e onorato , se non gli fosse piombata addosso una nuova sciagura domestica, la minaccia di veder occupate le sue terre, nel 1500, da Giangiacomo Trivulzio, alla testa dell'esercito francese (2). Si venne ad una composizione, non definitiva, nel giugno del 1500, onde alleggerito da quella pena Niccolò potè soddisfare nel 1501 all'onorifico incarico di andare a Roma col corteggio che doveva accompagnare a Ferrara Lucrezia Borgia (3). Dopo la morte del duca Ercole (genn. 1505) Niccolò da Correggio visse al fianco del suo successore Alfonso I ed ebbe ben presto a sovvenirlo, come vedremo in seguito, d'opera e di consiglio nei tristi e difficili casi di famiglia, che funestarono i primi anni del suo dominio. Ma la vita di quell'ammirevole gentiluomo doveva presto volgere al suo fine, quantunque non toccasse peranco la sessantina : egli venne meno il 1° febbr. del 1508 (4). Da Cassandra Colleoni, che dopo la morte del marito si ritirò nel monastero del Corpo di Cristo in Correggio (5) , ove spirò il sonvi non pochi documenti nell'Arch. Estense. Delle picche sorte nel '97 dà conto il SANUDO , Diarii, I , 648 e 673, che parla persino della voce corsa che Ludovico volesse privare Niccolò de' suoi beni di Correggio. (1) Solo in una momentanea ricomposizione Niccolò recossi col Moro a Genova nel marzo 1498. SANUDO, Diarii, I, 895. (2) Su questa intricata bisogna sono documenti numerosissimi nell' Arch. Estense. Ne parla anche il SANUDO, Diarii, III , 264-65 e 341. Niccolò faceva assegnamento sui soccorsi della Signoria veneta. A Venezia soleva alloggiare in casa d'un Benedetto Barozzi, che il Sanudo chiama costantemente << suo << cognado ». Nel maggio del 1500 Niccolò s'ammalò gravemente di febbre in Venezia, si credeva per le angustie di quei giorni. Vedi lett. dell'oratore Bartol. Carteri ad Ippolito d'Este, 4 maggio 1500, nell'Arch. Estense. (3) TIRABOSCHI , Bibl. , II , 119 ; cfr. BURCHARDI Diarium, ediz. Thuasne, III , 178-79. Il BIGI (p. 143) ritiene che in quella occasione Niccolò componesse varie rime, fra cui l'ecloga intitolata La Semidea. Quest' ecloga, che comincia Pasciute pecorelle, ite or che ' l verno, si legge a c. 24 v del ms. Estense X. *. 34. (4) Vedi la cronaca ms. di fra Paolo da Legnago, a c. 177 v. (5) Quel monastero era stato fondato da Niccolò medesimo , unitamente all'altro di S. Domenico. Egli aveva la passione delle fondazioni e delle fabbriche, non meno del suo signore ed amico Ercole d'Este. In Correggio NICCOLÒ DA CORREGGIO 221 7 sett . 1519 , ebbe Niccolò un figliuolo maschio e tre femmine. Il maschio , che trapassò senz'eredi nel 1517 , fu Giangaleazzo, che nel 1503 condusse in moglie la coltissima gentildonna Ginevra del conte Niccolò Rangoni ( 1) . Delle femmine, Isotta entrò di 13 anni nel convento di S. Anna di Correggio , ove prese il nome di suor Barbara. Fu assai colta ed ebbe anche fama d'improvvisatrice , ma che veramente lo fosse dubita il Tiraboschi non senza ragione (2). Una sorella d'Isotta , Beatrice , che andò poi moglie a Niccolò Maria Sanvitale , ebbe il soprannome di mamma, con cui la esaltò Lud. Ariosto (3). Finalmente la terza sorella, Leonora, che occuperà in seguito più d'una volta la nostra attenzione, andò sposa a Lotterio o Eleuterio Rusca, membro della nobile famiglia ch'ebbe la signoria di Como e di varie terre poste sul Lago Maggiore e nel Canton Ticino. Eleuterio vide invaso nel 1512 il suo dominio di Locarno dagli Svizzeri, consencostrusse due superbi palazzi, uno dei quali vuolsi che per ordine di Veronica Gambara, cugina di Niccolò , sia stato frescato da Antonio Allegri detto il Correggio. Oggi è distrutto. Vedi TIRABOSCHI, Bibl. , II , 122-23. (1) Su di essa cfr. TIRABOSCHI, Bibl. Mod. , IV, 295-96. Intorno alle pratiche per quel matrimonio si vedano nell'Arch. Est. i documenti del 5 apr . e del 23 nov. 1502. Principi esteri, Cart. Correggio. (2) Bibl. Mod., II, 96. Cfr. COLLEONI , Op. cit. , pp. 18-19. Due lettere di suor Barbara sono nelle Lettere di molte valorose donne , Venezia, 1549 , ma, come è noto , è quello uno dei libri messi insieme da Ortensio Lando, in cui è difficile il dire dove finisca la falsificazione e dove cominci la verità. Una delle due lettere è una consolatoria a Lodovica Mandella (cc. 55 v e 56r); l'altra è una curiosa lettera a certa suor Camilla , nella quale in modo assai bizzarro la sconsiglia dalla sua intenzione di lasciare il chiostro e prender marito (c. 126r). Essa si mostra contentissima d'essere in convento, dove pare entrasse per volontà del padre, giacchè dice ; « benedico << quella santa intentione che venne al signor mio padre ». (3) Furioso, XLVI, 3. Col nome di mamma la si designava così spesso , che non mancano di tenerne conto neppure i documenti ufficiali , come i testamenti di cui riferisce qualche brano il COLLEONI, Op. cit., p. 19. Ivi è chiamata « D. Beatricem Mamam nuncupatam >> e « D. Beatricem alias « Mamam ». Ad essa , se non forse ad una dama ferrarese più giovane di lei, che aveva pure quel soprannome , allude Ortensio Lando quando dice scherzando: « Vidi una mamma che era mamma sin quando era nelle fasce ». Il passo è richiamato da A. SOLERTI , Ferrara e la corte estense , Città di Castello, 1891, p. XLII, n. 3, che peraltro non afferrò la freddura. Cfr. Giorn. , XIX, 176 n. Giornale storico , XXI, fasc. 62-63. 15 222 LUZIO-RENIER ziente il re Luigi XII. Essendo egli privo di prole legittima, Leonora finse , col suo consenso , a 41 anni d'età , d'aver partorito un figliuolo maschio , cui fu imposto il nome di Girolamo , per frodare così dei molti e ricchi feudi e beni allodiali il nipote Franchino, allora minorenne. Ma l'inganno fu scoperto e rimase senz'altro effetto all'infuori di quello d'offrirci un tratto morale assai caratteristico della figliuola di Niccolò da Correggio , la quale per avidità di dominio e di ricchezze non rifuggiva neppure dal delitto (1). La morte di Niccolò fu pianta da molti, perchè della sua fama si fecero banditori i poeti, che in lui stimavano, oltrechè un signore liberale e magnanimo, un confratello d'arte. Ritorneremo sull'elegia che scrisse in quell'occasione Battista Mantovano, il celebre Carmelita. Lo ricordò ad onore Ludovico Ariosto (2) ; Saba da Castiglione lo disse « uno delli più famosi , honorati et << virtuosi cavalieri, che in tutta Italia si trovassero » (3) ; Galeotto del Carretto lo chiamò nel Tempio d'amore: (1 ) Di Leonora esaltò la bellezza il Cosmico in due sue canzoni che sono nel ms. Ferrarese 408 , a cc. 233r e 240r , come rilevò L. FRATI in certa sua comunicazione (Rivista crit. della lett. italiana, IV, 92-96) in cui mostrò credere, senza sufficiente fondamento, che a Leonora da Correggio dirigesse Panfilo Sasso un intero canzoniere amoroso, ch'è nell'Universitaria di Bologna. Per i fatti narrati dei Rusca vedi R. Rusca, Il Rusco overo dell'historia della famiglia Rusca, Venezia-Torino, 1677, pp. 178-79 e assai meglio A. RUSCONI , Memorie stor. del casato Rusca o Rusconi , Bologna, 1874, tav. VI. Sui Rusca promise uno speciale lavoro l'egregio amico nostro ing. Emilio Motta. Cfr. Bibliofilo, VIII, 23. Che rappresenti verosimilmente Leonora da Correggio un medaglioncino miniato a c. 9r del cod . N. VI. 9 della Nazionale di Torino fu già congetturato nel Canzonieretto adespoto, p. 19. Vedasi a riscontro il medaglione scolpito, con testa di donna in profilo, che trovasi oggi nel cortile dell' Albergo Svizzero in Locarno e che B. Reber ritiene appartenga ad una serie di ritratti dei Rusca. Riprodotto in Anzeiger für schweizerische Alterthumskunde, an. XXIV, 1891, p. 597. (2) Furioso, XLII, 92. Dei rapporti di Niccolò con Francesco Ariosto ci fanno testimonianza tre lettere di lui, del 1481, insignificanti per contenuto, che sono nel cod. 210 della Comunale di Ferrara. Vedi ANTONELLI, Indice dei mss. della civica bibl. di Ferrara, I , 124. Su Franc. Ariosto cfr. CELANI, in Arch. della soc. romana, XIII, 384. (3) Ricordi, Venezia, 1555, c. 54 r. NICCOLÒ DA CORREGGIO 223 il cavaller de tanto preggio che con stil elegante et amoroso e col valor de Marte orna Correggio (1) ; Cassio da Narni cantò di lui : Ivi era quello amante da Correggia ch'ebbe nel vulgar dir sì ornato stile ; ivi una donna vaga esso vagheggia per cui composto avea l'opra non vile (2) ; Rinaldo Corso, in certa sua rara operetta ch'è tutta un'apoteosi dei Correggio ( 3) , fa intonare a Niccolò un madrigale , in cui rivolto alla città che se non lo vide nascere fu la culla dei suoi, esclama : Mosso da i campi Elisi torno dopo alcun tempo a salutarti , et lieto ti riveggio, fortunato Correggio. Gli altri dei vinti re, degli hosti uccisi trophei t'alzaro, io questa venni corona a darti, d'allor, di mirto e d'edera contesta. In maggior numero sono i poeti che tributarono onore a lui vivo. (1) Riv. stor. Mantovana, p. 82. (2) La morte del Danese, Milano, 1522, c. 71 r. Il CRESCIMBENI, I. d. v. p. , III , 313, riferendo questi versi , congetturò che Cassio vi alludesse alla Psiche, nel qual caso la donna sarebbe Psiche stessa, o Isabella d'Este, cui il poemetto fu dedicato. Noi peraltro crediamo che il Crescimbeni s'inganni e che nei versi di Cassio si parli unicamente delle sue liriche d'amore, rivolte ad una donna a noi ignota, che nel regno di Venere celeste il rimatore poteva vagheggiare a suo agio. (3) Gli honori della casa di Correggio , Ancona , 1566. Ci favorì la trascrizione del madrigale posto in bocca a Niccolò il prof. F. Foffano , che intorno al Corso pubblicò , or non è molto, un lavoro speciale , nel Propugnatore, N. S., V, II , 158 sgg. Degli Honori della casa di Correggio, rappresentati nel carnevale del 1554 , il FOFFANO discorre a pp. 178-180 . Egli rileva pure (p. 171, n. 7) che a c. 252 del suo commento alle rime di Vitt. Colonna Rinaldo Corso afferma d'aver << riformato » il Cefalo di Niccolò da Correggio. In che cosa veramente consistesse tale « riforma » non siamo in grado di precisare. 224 LUZIO-RENIER Senza curarci dei minimi (1) , citeremo Ercole Strozzi, di cui il Tiraboschi riferisce alcuni versi d'una elegia scritta allorchè Niccolo ebbe la fortuna di salvarsi dalla peste; rammenteremo il Boiardo , compagno di Niccolò in parecchie ambascerie, il quale in una ecloga, come accennammo, ritrasse forse la sua prigionia veneziana ed il 25 gennaio 1481 si rallegrava cordialmente con Cassandra da Correggio pel dono del Castellazzo, che il Duca di Milano aveva fatto a Niccolò, dicendo che il Duca « non potria << donare nè conferire tante dignità et honore al Mag.co vostro << Consorte, che molto più non meritasse » (2) . Oltracciò il nostro Correggio, che il Calmeta menziona fra i tre cavalieri più eccelsi che alla corte di Milano tenessero alto il prestigio delle lettere (3), ebbe famigliarità con Gaspare Visconti, che gli dedicò i Ritmi; e fu in ottimi rapporti con Girolamo Benivieni, che gli intitold i suoi Amori, col Pistoia, con Bernardo Bellincioni , che presso di lui si trattenne qualche tempo (4), con Pandolfo Collenuccio, che gli diresse il suo opuscolo De vipera, con Antonio Tebaldeo (5) . Filoteo Achillini nel Viridario fa rilevare come il Correggio accoppiasse molta accortezza alle sue qualità d'uomo di lettere : Se parli col Correggio habbi reguardo, ch'oltre il giudicio e stile ha mente astuta (6). Cristoforo Melanteo fiorentino, nel suo Theatro del novo para- (1) Vedi i versi di alcuni di essi nella Bibl. Modenese, II, 124-127. Il BIGI (pp. 153-156) non ne sa di più. (2) La lettera è pubblicata dal BIGI a p. 152. (3) Vedi la Vita di Serafino Aquilano premessa alle Collettanee dell' Achillini , Bologna, 1504. Gli altri due sono Gaspare Visconti e Antognetto Campofregoso. (4) LUZIO-RENIER , Del Bellincioni , Milano , 1889 (estr. dall' Arch. stor. lombardo), pp. 14-15 e VERGA , Saggio di studi su Bern. Bellincioni, Milano, 1892, pp. 49-51. (5) Due poesie latine notevoli del Tebaldeo a Niccolò sono nel cod. 395 della Comunale di Ferrara, di cui diede la tavola il Carducci, Delle poesie latine di Lod. Ariosto , pp. 23941. Le possediamo copiate , ma ci proponiamo di pubblicarle in altro lavoro, destinato a studiare il Tebaldeo. (6) Viridario, Bologna, 1513, c. 196 v. Il poema fu composto nel 1504. NICCOLO DA CORREGGIO 225 diso (1), finge per i poeti un anfiteatro tutto a gradini d'oro massiccio, nel quale vede (non altrimenti che Dante nella rosa celeste il seggio di Arrigo VII) gli stalli vuoti che attendono le ombre di Niccolò da Correggio, di Borso Mantovano e di Giuliano de' Medici. Quali fossero le fattezze di Niccolò noi possiamo scorgere ancora da uno splendido medaglione , opera dell'insigne Sperandio Mantovano (2). Egli v'è ritratto di profilo, con la chioma ricciuta, col mento sbarbato , e sul capo un berretto. Ha labbra tumide, guancie piene, un'aria buona e intelligente. Non si direbbe toccasse i trent'anni d'età, quindi l'ipotesi , prima emessa dal Tiraboschi, poi ripetuta dal Bigi, che quella medaglia venisse coniata allorchè Niccolò si distinse nella prima condotta veneta e s'ebbe lettere onorifiche dal doge Pietro Mocenigo (1475), non può dirsi destituita di fondamento, tanto più quando si consideri che quella medaglia cade quasi certamente in un gruppo di lavori simili che Sperandio eseguì in Ferrara (il medaglione coi busti d' Ercole I e di Leonora, e le medaglie dell'astrologo Pietro Bono Avogario e del poeta Ludovico Carbone ecc. ) e che quell'artefice non abitò presso gli Estensi al di là del 1477 (3) . Il rovescio della medaglia è quale si poteva convenire ad un guerriero intemerato e valoroso. Vi si vede un destriero generoso, bardato riccamente e montato da Niccolò tutto in armi , con la visiera levata , che (1) Con questa visione di tre canti, che vorrebbe essere una imitazione di Dante, termina il volume delle Collettanee dell'Achillini. (2) Bellissime riproduzioni se ne hanno in FRIEDLAENDER, Die ital. Schaumünzen des XV Jahrhund., Berlin, 1882, tav. XIII ed in HEISS , Les médailleurs de la Renaissance ; Sperandio de Mantoue, Paris, 1886, tav. XVI. Il diritto della medaglia è pure riprodotto dal Bigi. Descrizioni in TIRABOSCHI, Bibl., Il, 108 ; in BIGI, Op. cit., pp. 129-30 e nella mem. del medesimo, Di Camillo e Siro da Correggio e della loro zecca, Modena, 1870, p. 104; in ARMAND, Médailleurs, 1, 67. (3) Vedi VENTURI , Sperandio da Mantova , in Arch. stor. dell' arte , I , 387-88. II HEISS (pp. 37-38), così a occhio, crede che quel Niccolò abbia dai 30 ai 35 anni, e quindi suppone la medaglia eseguita verso il 1482 ; il FRIEDLAENDER (p. 37) la ripone addirittura nel 1490, ma, facendo anche astrazione dai dati storici, ci sembra abbia torto. 226 LUZIO-RENIER stende la mano ad un vecchio monaco. Intorno si legge la scritta IVSTICIA . AMBVLABIT . ANTE . TE . UT . PONAT . IN . VIA . GRESSUS . TVOS. La guerra fu infatti una gran passione di Niccolò, e più ancora i giuochi guerreschi , splendidi per eleganza , di cui quell'età fu così ricca. Narra il cronista Zambotti che nel giugno 1478 il giovane gentiluomo riportò la palma in una giostra di Ferrara per « la difesa del Dio Amore » ( 1) , ed allora il duca stesso gli diede in premio « uno anello d'oro cum uno diamante a facete » (2). Nelle grandi feste e prove d'armi , che si fecero in Milano nel genn. 1491 per le nozze di Beatrice d'Este col Moro, Niccolò si distinse per valentia ed eleganza. « Sed maxime elegans visus << est Nicolaus Corrigius , cui substrictissima vestis aurea fulge- « scebat », narra un testimonio, ed aggiunge che « unus Nicolai << Corrigii casus nomen cunctis eo die abstulit », perchè riuscì a scavalcare dopo accanito combattimento « Mariolum Viscardum, « Ludovicianae aulae alumnum » (3). Nell'altra giostra milanese del giugno 1492 , pel battesimo del conte di Pavia , il Correggio era giudice (4) , e vi comparve con la maggiore suntuosità : < Messer Nicolò da Corezo, vestito de brochato d'oro con sopra- « veste simile quanto zentile se possi imaginar, con XII fanti a < pede in zuparello de zetonino gialdo » (5). Allorchè nel 1493 Ludovico il Moro recossi a Ferrara, Niccolò fu uno de' combattenti nella giostra ( 6) . Non v'era insomma nessuno spettacolo solenne di questo genere cui il nostro non intervenisse, spinto irresistibilmente da quella gran vaghezza di tutte le cortesie e di tutte le eleganze, per cui fu un rappresentante così insigne del (1) Per quella giostra il Duca pregò Niccolò di prestare un cavallo a Gondulmero, camerlengo ducale. Arch. Est. , epist. di Ercole, 1478, c. 46. (2) VENTURI, L'arte ferrar. nel periodo d'Ercole I d'Este, p. 11 , n. 3. (3) Vedi i Residua di TRIST. CALCO, Milano, 1644, pp. 95 e 96. (4) Lo si ricava da una relazione di Giacomo Trotti, che è nell'Archivio Est., data 12 giugno 1492. (5) Monstra della giostra pubblic. , di su un cod. Morbio, da I. GELLI per nozze Fumagalli-Sajni, Milano, 1892. (6) Diario Ferrarese, in R. I. S., XXIV, 284. NICCOLO DA CORREGGIO 227 suo tempo. La qual vaghezza, dall'amore agli spettacoli d'arme e di scena e dal culto per le lettere, veniva giù giù sino alle cure sapienti dell'abbigliamento ; ed a tale riguardo non isdegnava Niccolò di dar consiglio anche alle dame. Il 12 nov. 1493 Beatrice d'Este chiedeva alla sorella marchesa di Mantova che cosa ne fosse avvenuto di certa fantaxia del passo cum li vincij, << quale fu proposta per m. Nicolò da Corigi ». Se la marchesa non l'aveva ancor messa in atto , desiderava Beatrice di farla eseguire « d'oro masizo per reponerla sopra una camora de ve- << luto morello » (1). II. Il nome della nostra prediletta marchesa di Mantova ci richiama ad una corte con cui Niccolò ebbe rapporti molti , geniali, non peranco studiati. Ora che l'abbiamo conosciuto ne' tratti principali della sua biografia , è venuto il tempo di considerarlo appunto in questi rapporti. La Casa dei Correggio fu sempre coi Gonzaga in buone relazioni. Borso, cugino di Niccolò, che aveva in moglie Francesca di Brandeburgo, nipote di Barbara marchesa di Mantova, fu in tanta intrinsichezza con essi , che nel 1497 compose certo dissenso insorto tra la marchesa Isabella ed il marito (2). Anche con Giberto non mancò la cordialità, e molto più con la moglie di lui , la celebre Veronica Gambara. È cosa nota che Isabella Gonzaga (col fratello card. Ippolito) tenne al sacro fonte il primo figliuolo di Veronica e di Giberto, in cui fu rinnovato il nome del padrino (3). Recentemente furono messi in luce altri documenti, (1) Vedi LUZIO-RENIER, Delle relazioni d' Isabella d'Este Gonzaga con Ludov. e Beatrice Sforza, Milano, 1890, p. 87. (2) Molte lettere d'Isabella sono dirette a Borso. Anche Niccolò fu scelto ad appianare le vertenze tra il marchese di Mantova ed i Gonzaga di Novellara. Vedi BIGI, p. 137. (3) Vedi Rime e lett. di V. Gumbara, ed. Rizzardi, Brescia, 1759, p. XL. 228 LUZIO-RENIER che dimostrano la buona amicizia che intercedeva tra le due famiglie (1) . E l'amicizia veniva sempre più confermata da nuovi vincoli di sangue. Infatti Costanza , figliuola di primo letto di Giberto da Correggio , andò sposa ad Alessandro Gonzaga conte di Novellara, e quella Ginevra Rangoni, che come vedemmo fu moglie a Giangaleazzo figlio di Niccolò, passò in seguito a seconde nozze con Luigi Gonzaga da Castiglione, ed in Mantova fu sepolta. Molto più tardi la sede della famiglia dei Correggio doveva essere trasportata a Mantova dal medico e filosofo Marcello Donati, segretario del duca Vincenzo Gonzaga (2). Il primo documento che ci attesti le relazioni di Niccolò da Correggio con i Gonzaga è un suo sonetto intorno alla morte di Dorotea, figlia di Ludovico marchese di Mantova, e sposa infelicissima di Galeazzo Maria Sforza (3) ; sonetto molto stentato e disadorno , ma di cui vanno condonate le imperfezioni se si pensi che il verseggiatore era allora diciassettenne (4). Le relazioni più vive e costanti passarono naturalmente, come l'età voleva, tra Niccolò ed il marchese Francesco Gonzaga, e specialmente poi tra Niccolò ed Isabella d'Este, un fiore di gentilezza germogliato nei giardini ferraresi, che allignò così rigoglioso nel ben disposto terreno mantovano. Il march. Gonzaga tenne al sacro fonte, nel 1492, Isotta figliuola di Niccolò, che fu poi suor Barbara (5) ; e Niccolò stesso s'era recato a Mantova in persona, due anni prima, per assistere alle nozze di Francesco con Isabella (6). Ciò non toglie che lo legasse stima ed amicizia anche (1) Alludiamo specialmente alle Undici lettere di V. Gambara pubblic. da L. Amaduzzi, Guastalla, 1889, su cui vedi Giorn. , XIV, 441 sgg. (2) Cfr. COLLEONI, Op. cit., pp. 27-31 . (3) Per la sua storia dolorosa si vedano i lavori speciali richiamati in questo Giorn., XVI, 134. Il sonetto trovasi nel cod. Vitali ora Parmense, e conseguentemente nella copia moderna dell'Arch. di Correggio. Lo pubblicò il BIGI a p. 159. Noi lo riproduciamo nella Append. II , nº 1. (4) Dorotea morì fra il 19 ed il 20 aprile del 1467. Cfr. Davari , Il matrimonio di Dorotea Gonzaga con Galeazzo Maria Sforza , Genova, 1889 (estr. dal Giorn. Ligustico), p. 39. (5) TIRABOSCHI, Bibl., IL, 96. (6) TIRABOSCHI, Bibl., II, 117. NICCOLO DA CORREGGIO 229 al vescovo Lodovico Gonzaga, zio del marchese e pur così poco favorito da lui. Nel 1484 mons. Lodovico gli raccomandava il Bellincioni con una lettera che abbiamo altrove pubblicata (1). II 7 maggio 1488 gli scriveva per un motivo ben altrimenti importante. Si trattava della grande scissura malauguratamente avvenuta fra lui ed il nipote march. Francesco (2). Risulta da questa lettera (3) che tanto il duca di Ferrara come Niccolò s'erano interposti acciò le cose si appianassero. Mons. Lodovico si lamenta in ispecie che il marchese non gli permetta di recarsi a Mantova quando gli talenta. « Mi pare, scrive egli , che questa (1) Vedi il nostro articolo cit. Del Bellincioni, p. 5. (2) Per questa inimicizia si consulti quanto ha scritto U. Rossi in questo Giorn., XIII, 305-307. Quelle pagine sono del resto quanto sinora v'è di meglio intorno a mons. Lodovico. Il Rossi accenna anche alle sue relazioni con Niccolò da Correggio. D'un sonetto di Niccolò parla il vescovo anche in certa lettera in data Quingentole, 6 marzo 1491 , ch'è nel copialettere di Lodovico dell' Arch. di Parma. Ci sia permesso di qui rammentare anche un personaggio che fu al servigio di Niccolò e poi di Lodovico e di cui esalta le virtù GIR. CASIO, Libro intitolato cronica , ove si tratta di epitaphii, c. 40r, col seguente sgangherato sonetto: Dil sangue Vitaliano antico e degno nacque per patre Hippolito dai letti : per matre poi di quegli spirti eletti de' Refrigeri con eccelso ingegno. Dil Sansevrin Roberto aspro e benegno fu canceliero e fu degli diletti , poi come volser gli celesti aspetti fu ratto vivo ne lo eterno Regno. Mancato quel, a un nuovo Apollo et Marte Niccolò da Corezzo almo Signore vergò più tempo e vergò ben sue carte. Lodovico Gonzaga monsignore il volle e l'hebbe , e il servì con tal arte, che gli diè donna, haver, governo e honore. Chi fosse codesto Ippolito dai letti, del quale menzioneremo una lettera del 1505, non sarà difficile l'indagare agli eruditi bolognesi. Circa i Refrigeri, con cui Ippolito era parente, cfr. L. FRATI, Notizie biografiche di G. B. Refrigerio, in questo Giorn. , XII, 325 sgg. (3) Si trovava, e forse si trova ancora, nel copialettere di Lodovico Gonzaga, che da Guastalla passò nell' Archivio di Parma. L' Affo ne trasmise copia all' Antonioli , e questa copia , che è ora nell' Archivio di Correggio, servi a noi , per gentile compiacimento del prof. Foffano che a nostra ri- chiesta la trascrisse. 230 LUZIO-RENIER << andata cussì conditionata et qualificata non se causi da altro « che da uno de' due rispecti : o vero che ' l S. Marchese non mi << vole admetter liberamente a Mantua per qualche rispecto ha < di me, et quando cussì sia non mi puosso se non dolere , pa- « rendomi che la servitù, devocione et legalità mie, quali hebbi « sempre verso il predecto, non meriti tal cosa ; o vero che questo « se causa per rispecto di M. Francesco Secco, et in questo caso <<< mi pare similmente potermi dolere insino a l'alma, che essendo « M. Francesco quello che l'è (1 ) et io quel ch'io sono , debba <<< esser tenuto fuora di casa mia cum tanto carico et vergogna, << a torto et senza colpa veruna ». Mons. Lodovico aveva ragione da vendere, ma col nipote non giunse mai a rappattumarsi del tutto. Nel 1491, forse per una di quelle civetterie del sentimento cui non repugnavano gli spiriti della Rinascenza , venne vaghezza al march. Francesco di scrivere certo motto su d'un suo berretto e su di una collana che lo mostrasse il più disgraziato uomo del mondo. Conveniva fosse scritto con garbo, ond'egli pensò di rivolgersi al nostro Correggio, con questa lettera : M.ce etc. L'amor che de continuo havemo portato a la S. V. et la fede che havemo in quella ne dà securtate usare l'opera sua ne le cose che ce occorreno, et maxime dove intervenga qualche nostra fantasia, como hora che desideramo essere compiaciuti da la S. V. El ne va per mente havere qualche digna fictione da portare ne la colana o bereta cum qualche bello motto che dimonstrasse che ciò fusse facto per esser nui el più disgratiato et sventurato homo del mondo ; nè sapendo meglio ce possa satisfare a lo intento nostro de la S. V. per essere praticha et excelente a simile fantasie n'è parso pigliare securtate di quella, et cossì la pregamo che in questo ne voglia compiacere, usandoli mo' quella industria, vigilantia et diligentia che (1) Di questa mala parte, che faceva Francesco Secco, parla anche il Volta, St. di Mantova, II , 227. 11 Secco era, del resto , un gran cattivo soggetto. Favorito del march. Federico (cfr. EQUICOLA, St. di Mantova, Mantova, 1610, pp. 197.98) e del march. Francesco, giunse a tanta perfidia da macchinare contro la vita di quest'ultimo (VOLTA , II , 234-37). La disgrazia del Secco portò migliori rapporti tra il vescovo Lodovico e il marchese (VOLTA, II, 252), ma non tali da ristabilire vera cordialità fra di loro. NICCOLÒ DA CORREGGIO 231 speramo perchè la inventione sia digna cum el motto confermo, nè dubitamo punto che quando la S. V. li voglia mettere quella fantasia che speramo che la non ce trovi cosa che satisfacia a la voluntà et desyderio nostro. Racordando a la S. V. che per hora la non ce poteria fare cosa più grata et cara di questa, ultra che de ogni operatione sua li ne restaremo obligat. "i et a tuti li beneplaciti de la 8. V. ce offeremo parat.mi Marmiroli xv augusti 1491 (1) . Dieci anni più tardi , quando la fama di poeta drammatico del Correggio s'era di molto accresciuta , Francesco Gonzaga volle mettere in scena in Mantova una sua Favola di Callisto , che probabilmente era un'ecloga drammatica. Ma non pare riuscisse, onde il marchese facendo a fidanza con la cortesia del poeta lo pregò di eseguire delle varianti a un capitolo già composto, e di scriverne un altro : La S. V. si è tanto affaticata per noi et tanto volentieri in ciò che ni è bisognato per questa nostra festa che la ni dà animo securamente de operarla di novo senza tema di affaticarla troppo. Et primo perchè quella fabula de Calisto non ni è reuscita secundo credevimo, deliberamo non farla più. Et perchè il capitulo , che ni fece la S. V. sopra ciò , è pur bello , nè più può venire a proposito la pregamo che la vogli recider tutto quello che specta a quella fabula et reimpire el capitulo de qualche inventione sì che el se possi recitare. Apresso ne voressimo uno altro , nel quale fosse introducta Italia Mantua et noi in qualche comparatione o disputatione insieme a la guisa che in quella vostra festa che hora ni haveti mandata sono introducti li casi de tre persone generose in disputatione. Sapemo bene che la S. V. voria el thema più amplo et chiaro , ma non ne curamo noi de dargelo altramente, confidandone che Lei lo troverà meliore che non gli saperessimo dir noi, che volemo anchora che la laude de la inventione sij sua, et cum più modestia Lei lo poterà fare che noi preponergelo , tenendo per certo che in ogni modo havemo di lei restare contenta, et a quella ni offerimo sempre apparechiato. Mantuae xxvin jan. MDI (2). (1) Arch. Gonzaga, Copialett. del March. , L. 139. Nel giorno stesso scrive anche a Cassandra Correggio, pregandola di sollecitare il marito acciò lo compiaccia di quanto gli chiede. (2) Arch. Gonzaga, Copialett. del March. , L. 169. Questa lettera fu pub- 232 LUZIO-RENIER Non era facile il capire in che modo quei capitoli da recitarsi dovessero esser fatti, onde il longanime Niccolò chiedeva in proposito delle spiegazioni all'amico marchese ( 1) : Ill.me et Ex.me D.ne D.ne obser.me. Volendo la Ex. V. ch'io mi provi di satisfarla circha el mutare di quello capitulo che conteneva la fabula di Calisto , bisogna che la mi avisi dopo quale comoedia el vole far recitare o in mezo o in che modo , aciò ch'io sappia remetterli qualche cosa a proposito ; similmente di quello che la vole che parli de Italia. Voria sapere se ha ad essere simplicemente un capitulo fuora de le comedie o se pure ha ad intravenire o in prima o dopoi ne le feste. Se la Ex. V. mi significarà quello ch'io ho ad fare mi forzarò di servirla et presto perchè el far tosto una cosa porta con sè la scusa et in sua gratia mi racommando. Fabrici februarij 1501 . S.r Nicolaus de Corrigia. Il Gonzaga peraltro aveva preveduta da sè la difficoltà, e in quel medesimo 5 febbraio avvertiva : « A ciò che la S. V. non perda << tempo in componere quelli dui capituli, la avisamo como al fine « de cadauna de le nostre feste si ne ha a recitar uno d'essi, sì << che in arbitrio de la S. V. sta a componerli » ( 2). Con straordinaria prontezza, soli sei giorni dopo, Niccolò era già in grado di spedire al marchese due capitoli nuovi di zecca. Ill.me et Ex.me Domine observan.me. Per satisfare a la Ex. V. et ubidirla como sempre voglio fare, ho composto quisti duo capituli quali gli mando: et perchè mal si poteva mutare quello di Calisto per essere quasi tutto seminato di quella materia, più presto mi sono messo a farne uno altro novo, como la vederà, el quale similmente contiene le laudi de lo Ill.mo S.r Duca di Ferrara, differente da quelle dil primo capitulo, como è il desiderio suo: blicata intera da A. BERTOLOTTI , nel Bibliofilo , IX, 11-12 : il D' Ancona, Origini 2, II, 380, ne produsse la prima parte. (1) Questa lettera è nell'Arch . Gonzaga ; così le successive quando non si dica espressamente che si trovano in altro luogo. Ne pubblicò una parte il BIGI, Op. cit. , p. 170; intera la diede il D'ANCONA, Origini2, II, 380. (2) Bibliofilo, IX, 12. NICCOLO DA CORREGGIO 233 et cusì ricercando duo capituli ne haverà tri. Mi sono aprovato , como gli promisi, di satisfare la Ex.tia Vostra et s'io non l'haverò facto scusimi ch'io sono hormai disusato in questa professione. Se in quisti gli parerà che se muti o che se agiungi o minuisca cosa alcuna commandi ch'io ubidirò . Et a Lei mi ricom.. sempre. Corrigiæ, XI februarij, 1501 . Ill.me et Ex.me D. V. Servitor Nicolaus de Corrigia (1). E il marchese di rimando il 12 febbraio : « Li capituli vostri << tanto ni satisfanno et piaceno » che lo ringrazia vivamente della fatica fatta, e il 17 febbr. lo invita alla festa che « prepa- << ramo questo carnevale ». Sembra che allora Niccolò fosse impedito dal fare una gita a Mantova ; ma l'anno successivo accettò : < Ubidirò molto voluntiera a quello che la Ex. V. mi commanda, << di venire a vedere le representationi ch'Ella vole fare, et serò << li a tempo e de la zobia e de la dominica » (2) . Del resto non fu quella certamente la prima , come non fu l'ultima volta che Niccolò, richiesto, inviava suoi versi al march. Francesco. Troviamo che il 22 dic. 1500, rispondendo a certa lettera del marchese in data 20 dic. 1499 , diceva : « Ringratio la S. V. de la << bona opinione ch'Ella ha di me ellegendomi ad far quello ca- < pitulo di che la me manda el subiecto in scripto ..... Sono adesso ◄ occupato circa la confessione per havere el jubileo, ma passati << questi tri giorni li metterò mano ». Altri rapporti letterarî di Niccolò col marchese sono di molto minor rilievo, e non è qui il caso di rammentarli ( 3). Rileviamo invece che quando mori di così tragica morte Pandolfo Colle- (1) Solo qualche linea di questa lettera stampò il BIGI, Op. cit. , p. 170. (2) Lett. al marchese del 22 febbr. 1502. (3) Il 4 sett. 1505 manda da Correggio a Francesco « il libro de le chro- << niche milanesi, secundo li promissi essendo lì , acciochè alcuna fiata, leg- < gendolo per suo piacere, possa scacciare l'ocio ». Bibliofilo , VII , 37. Di quell'anno e del seguente sono due insignificanti bigliettini editi dal BIGI , pp. 171-72. 234 LUZIO-RENIER nuccio, Niccolò che aveva goduto dell'amicizia sua (1), ne scrisse (16 sett. 1504) al marchese dolendosi di la perdita che ha facto « la etate nostra in homo tanto singulare » e raccomandando Anníbale , figliuolo del giustiziato umanista. Nê certo egli parlava a sordo. Il marchese aveva amato assai Pandolfo ed i suoi figli, uno dei quali, Teofilo, fido servitore dei Gonzaga, era spirato al suo fianco alla battaglia di Fornovo (2). Anche con Annibale Collenuccio non erano mancate relazioni antecedenti. Il 9 luglio 1504, fatto prigione Pandolfo, Annibale così supplicava il marchese d'interporsi con lo Sforza : Ill.mo et Ex.mo Signor mio. Havendo mio padre prexone come è noto a la Ex. V. me è parso , poi che ho veduto quanto efficacemente e con quanto supremo favore quella in questo primo mandato se è demostrata benignia e gratiosa verso dicto mio padre e verso noi soi tutti miseri figlioli, primo et ante omnia referirli immortal gratie ; poi suplicarla (già che V. Ex. ha principiato a farce tanto benefitio) a non desistere da questa pijssima impresa ; et essendo occurso el caso et venuto al termine che l'è, per havere dicto mio padre in una supplicatione dicte alcune parole meno che honeste verso el nostro Ill.mo Signore de Pesaro, volere farce gratia de pregare el p.to Signore ad havere misericordia al dicto mio padre et concederli gratiosa venia de quanto quello se senta gravato per le cose da lui dicte verso sua Signoria : el che serrà facillimo a la p.ta V. Ex. et a noi farrà benefitio immortale, e sempre ne restaremo debitori a la p.ta V. Ex. e pregaremo continuo Dio la conservi in stato felicissimo. Recordandoli la servitù de quel povero infelice Theophilo mio fratello , che V. Ex. amo tanto, che per amor saltem de quella anima la non ce aban- (1) Come accennammo, il De vipera libellus di Pandolfo, stampato a Venezia nel 1506 , fu intitolato « Ad illustrem atque acerrimi judicii virum << Nicolaum Corrigium, Castellacii comitem » . La stampa fu fatta per iniziativa di Annibale Collenuccio ed ha in testa una lettera di Lilio Gregorio Giraldi a Niccolò. Vedi su di ciò rilevanti informazioni di A. ZENO, Lettere, V, 319 e 321. Cfr. SAVIOTTI, Pandolfo Collenuccio, Pisa , 1888, pp. 77 sgg. (2) Vedi quello che ne dicemmo nel nostro articolo su Francesco Gonzaga alla battaglia di Fornovo, Firenze , 1892 , estr. dall' Arch. stor. italiano, p. 27, n 2. L'autore del cit. poemetto La guera de Parma, ripubblicato da H. Ungemach, lo cita ad onore così : Morto si fu misser Theophil da Pe saro, | Ch'un gran barone propio si asembiava. NICCOLO DA CORREGGIO 235 doni in questo caso, et in bona gratia de V. Ex. ce recommandamo sempre tutti figlioli e figliole (1) del povero messer Pandolpho. In Pesaro adi 9 de luglio MDIIII. De V. p.ta Ex. Servo Hannibale Coll. figliolo de messer Pandolpho. Jacopo della Torre era già prima stato spedito da Mantova a Pesaro, con una credenziale del marchese (2) per chiedere spiegazioni di quell'inaudita malafede (3) . Col della Torre lo Sforza alzò visiera: << Sua Signoria, scrive Jacopo dello Sforza a Isabella, < mi responde che V. Ex. può tanto disponere di lui , stato et < cose sue, como de le proprie, ma che ' l se rende certo V. Ex. < non esser bene informata dil caso di m. Pandolpho , maxime << di una supplicatione facta per esso carcerato contra l'honore << dil p.to S.re e che forsi quando quella l'haverà vista (4)... la (1) Del 15 apr. 1499 è una lettera di Pandolfo alla marchesa Isabella, in cui le chiede qualche dono, poichè manda a marito in Pesaro sua figlia Ginevra. Si rivolge alla liberalità della Gonzaga perchè è carico di famiglia ed ha tenui sostanze. (2) Copialett. del March. L. 182. Ecco i termini risoluti in cui è concepita: Dno loanni Sforcie Pisauri ecc. 111. S.re. Chi ne havesse giurato che V. S. dovesse far un tal acto, qual è quello che l'ha usato contra il M.co m. Pandulpho da Pesare , senza reverentia de la fede datane per sue lettere, non l'haveressimo mai creduto, e per Dio che tanta è la bona opinione che havemo di V. S. che non imputamo il male tanto a lei quanto a le sinistre persuasioni del S. Petro Gentile e di m. Mattheo da Busseto, persone apte a ruinare ogni gran Re che li credesse , non che uno par de la S. V. Per questo la pregamo et per l'honor suo e più per il nostro, chè non volemo esser creduti participi di questo scandalo , che la lo vogli relaxare incolume et illeso, exhortando la S. V. ad aquistarsi de li amici e non perdere quelli che l'ha , chè quanto sia per noi, se ben per il passato non li havemo facto commodo alcuno , siamo sufficienti fargline per l'advenire, como più a longo li dirà il presente nostro messo qual mandamo a posta per questo. Expectamo da la S. V. la reintegratione di l'honor nostro , qual in questo caso reputamo leso. Siamo a li piaceri di la S. V. aparecchiati. Goito VI Julii MDIIII. Vedasi la lettera ipocrita che il 4 giugno 1504 Giov. Sforza aveva scritta al marchese, in SAVIOTTI, Pandolfo Collenuccio, p. 261. (4) Gliene aveva mandato copia. 236 LUZIO-RENIER << non serà forsi d'animo de favorirlo. Io gli respondo che l'a- << more qual li porta V. Ex. è di sorte che mai il favor suo li < venirà mancho et tanto più quanto che m. Pandolpho confessa << haver facto il tutto per farsi. benivolo il duca Valentino et a << ciò che ' l fusse, como fu, favorevole alla causa sua. Fino qui il < p.to S.r è indurato, ma se spera perhò in lo favor di V. S. Ill.ma << sotto la speranza di la quale vivono sette figlioli del carcerato, << lui , et molti suoi parenti qui , quali mi fanno intendere che << questo S.r ha perdonato a persone che hanno preso l'arme << contra lui et che alla intrata che 'l fece in la recuperatione << dil stato promise perdonar a tutti ; si che per questo non se << dubita punto che venendo nove littere da la Ex. V. et dil << S.r Marchese il zentilhomo non venghi liberato ». Lo Sforza medesimo scrisse in questi termini al marchese : Ill.me ecc. Da m. Jacobo Canc.ro di V. Ex. ho receputo lettere de quella, quale lecte et notato el scriver suo non ho potuto fare non prendi quella molestia et cordiale displicentia che l'affectione et observantia porto a la S. V. Ill.ma ricerchano, essendo per epse certificato lei dolerse de me in havere havuto pocho rispecto a la promessa fede et commendatione de V. Ex. Et per rispondere ad quanto è necessario dico : quello ho promisso son per mantenere et observare inmudabilmente, se mille vite ce andassino. Et ad epso m. Pandulpho ne la venuta sua qui gli ne ho demonstrato boni effecti non tanto ne la prima accoglientia quanto in lo continuo confabulare familiarmente seco per riverentia di V. S. benchè la sua maligna et pessima natura nol meritasse. De che tutta questa terra po'essere bon testimonio. Essendose lui alcuni giorni riposato, doppo gli detti audientia publica in presentia de li suoi adversarij , per intendere le controversie loro presentialmente como epso ricercava, et per penuria di tempo la commissione de la causa fu differita ad un'altra audientia. Ne la quale essendo altercatione fra loro, da la parte adversa fu exhibita una copia de supp.ne del dicto m. Pandulpho facta et impetrata dal Valentino, quale lecta in publico la ritrovai tanto diffamatoria et di graveza de l'honor mio che ogni bono animo già conceputo verso lui se convertì in ira et indignatione. Et questa è stata la potissima et justa causa de la detentione sua, la quale quando V. Ex. examinarà col prudente judicio suo son certo lei medesima dirà questa tanta notabile calumniosa iniuria da epso m. Pan. factame non ricercare persuasione d'altri per dargli NICCOLO DA CORREGGIO 237 condegna punitione : et sì como quella d'animo excelso et magnanimo cum ardentissimo studio et vigilantia si sforza conservare l'honor suo, et meritamente, intacto da omni suspitione non che macula de infamia, non altrimente si debbi persuadere la Ex. V., anzi tener per certo, ch'io me risento, vedendome da un simile homo cussì atrocemente calumniato , como per la copia de la supp.ne la potrà apertamente vedere. Perhò per questa non serò più longo ad quella , reportandome in le altre cose a la relatione di epso m. Jacobo col quale il tutto ho communicato diffusamente. Solum prego et supp co la S. V. Ill.ma se degni deponere ogni molestia conceputa del caso de m. Pan., perchè tutto s'è facto justificatamente como è dicto, et se mentione alcuna di secureza nel scrivere ad epso ho facto gli ho scripto como quello era ignorante de la supp.ne et che havea intentione bona de observarglila et già ne havea principio, como è noto a tutta la terra, cum animo de sequire , se ad me non fusse stato apertamente facto constare per li suoi adversarij in presentia sua el suo enorme et intolerabile delicto verso me perpetrato, et che lui non ha saputo negare. La Ex. V. adunqua intendi la justificatione mia : racomandome di cuore ad quella, de la quale sono et serò mentre vivo bon parente et vero servitore et che po' di me liberamente et del stato quanto de cosa propria disponere et valersene ad ogni suo comando et beneplacito. Et ipsa felix valeat. Pisauri 9 julij 1504. Affinis et s.tor Joannes Sfortia de Aragonia Cotignolæ Comes Pisauri. Con lettera dello stesso giorno a Isabella lo Sforza rimettevasi a quanto aveva scritto al marito di lei, e con lettera 10 agosto mandava un suo agente a meglio giustificarsi ( 1) . Dopo tali pratiche è facile il comprendere quanta dovesse essere l'irritazione dei Gonzaga, allorchè giunse loro la nuova che l'11 luglio lo Sforza aveva fatto crudelmente strangolare Pandolfo: ond'è a credere fossero dispostissimi ad accogliere la raccomandazione del Correggio. Non Annibale, che passò a Ferrara, ma Teodoro fratello suo, fu preso al loro servigio. Egli venne (1) Questi documenti rimasero ignoti al Saviotti e furono solo accennati , su comunicazione nostra , da G. S. SCIPIONI , in questo Giornale , XI , 429. Non ci dilunghiamo , del resto , a chiarire i fatti , perchè dopo il bel libro del Saviotti ciò sarebbe superfluo. Giornale storico, XXI, fasc . 62-63. 16 238 LUZIO-RENIER accolto in quella corte nel dicembre del 1504; ma fece prova poco buona. Il 21 apr. 1505 partecipava il marchese, con molta delicatezza, ad Annibale d'aver dovuto licenziare Teodoro, perchè implicato in un furto di 80 pezzi d'argenteria : « Per questo non « mi è minuita in parte alcuna la dispositione verso la casa vostra, chè più assai ponno li benemeriti del q. excellente vostro << patre che disgratia alcuna di Theodoro , qual speramo però « debba anchor reuscire da bene » ( 1) . In seguito non abbiamo altre notizie di Annibale Collenuccio all'infuori delle insistenze con cui replicatamente i Gonzaga si rivolgevano a lui per ottenerne copia della Storia di Napoli del padre suo (2) . Ma proseguendo la nostra via, da cui ci siamo un po' allontanati per dire dei Collenuccio , osserveremo che non sempre rimase inalterata l'amicizia di Niccolò col marchese. Conosciamo certa relazione al Consiglio dei dieci del residente veneto a Ferrara, Sebastiano Giustiniani, in data 25 giugno 1507 (3), in cui è detto che il marchese di Mantova consiglia a tutti ed in tutti i modi la guerra contro Venezia, secondo riferisce Niccolò da Correggio << Mi ha parso, continua l'oratore, debito mio notificare a « la Celsitud. V. tal cossa, benchè poteria esser che la non fusse « vera , per esser el marchexe et lo signore Nicolò inimici ». Il documento è molto esplicito ; ma noi non siamo in grado di valutare compiutamente la gravità di tale inimicizia : crediamo solo che non fosse di lunga durata. (1) Copialett. del March. , L. 185. (2) Il marchese cominciò già a chiederla nel dic. del 1505, ma Annibale non l'aveva presso di sè, avendola data a trascrivere ad un frate di S. Francesco passato da Ferrara a Lucca. Isabella rinnovava la richiesta con una lettera del 27 genn. 1510, che è nel L. 210 del Copialett. del March. , e che fu edita nel Bibliofilo, IX, 37. Pare che neppure quella volta la domanda venisse soddisfatta, perchè troviamo che il 19 luglio 1513 Federico Gonzaga nuovamente chiedeva ad Annibale d'inviargli quella storia (1. cit. del Bibliofilo). Essa fu pubblicata la prima volta nel 1539, ed ottenne tanta celebrità da raggiungere ben 15 edizioni originali e varie traduzioni. Vedi quanto ne scrive G. S. SCIPIONI nell' Opinione della domenica, an. I, 1882 e specialmente SAVIOTTI, Pandolfo, pp. 205 sgg. (3) Arch. di Stato in Venezia, lettere di ambasc. ai capi del Cons. dei X, da Ferrara, 1507. Comunicaz. di Vitt. Rossi. NICCOLO DA CORREGGIO 239 Più costantemente sereni e cordiali furono senz'alcun dubbio i rapporti di Niccolò con la marchesa Isabella, che si fondavano, non solo sull'alta stima reciproca, ma sull'amore grande che entrambi nutrivano per le arti. Il 26 nov. 1494 Alessandro da Baesso, avvertendo da Vigevano Isabella della venuta di Chiara di Monpensier, aggiungeva che parlandosi « nanzi M.na Ciara, dove era m. Nicolò da Corezo et altri omeni de bene, d'alcune donne de Italia, el fu dito che la S.ria V. era la prima donna del mondo». In seguito (1511) Isabella non esiterà a qualificare il defunto Niccolò il più atilato et de rime et cortesie erudito cavagliere et barone che ne li tempi suoi se ritrovasse in Italia » ( 1).
(1) Rime del Pistoia, ediz. CAPPELLI-FERRARI, Livorno, 1884, p. LIII.
La loro
amicizia fu affettuosa e tenace , e si estendeva dai rapporti famigliari ai politici, dalla poesia alla musica ed al teatro.
Non è infatti da credere che una donna come Isabella , che
vedeva così addentro nella vita del tempo suo, potesse rimanere
estranea alle vicende politiche in mezzo alle quali Niccolò si
trovava. Quando egli , stando a Milano , era stato prescelto nel
1491 a recarsi in Francia come ambasciatore (2), non mancò di
renderne subito avvertita la marchesa:
(2) Quell' ambasceria andò poi in fumo. Vedi quanto ne accennammo in addietro.
« El non ne pareria pigliare il camino con mia satisfactione se prima non ne havesse dato notitia a la S. V., sì per debito mio et per meritare cossi l'affectione et amore ch'io li porto , como per darli adito et tempo de fare electione de quelle cose che li parerà gli habbia ad portare ». A sua volta la marchesa, allorchè il marito cadde in disgrazia della Signoria veneta, ne scrisse subito diffusamente a Niccolò (luglio 1497), rendendogli conto delle pratiche fatte e terminando col dire : « lui è qui apparecchiato a rendere bon conto d'ogni suo andamento , et de fare constare a tutto el mondo essere de una fede immaculata » (3) .
(3) L. VIII del Copialett. d'Isabella.
E ne' tempi travagliosi in cui il Valentino , cresciuto a straordinaria potenza, minacciava tutti gli stati italiani, era al Correggio che la Gonzaga si rivolgeva per aver notizie particolari di ciò che faceva il duca Cesare in Milano e delle accoglienze di Luigi XII ( 1).
(1) È noto che nel 1502, quando Luigi XII scese in Italia, egli era mal prevenuto contro il Valentino ; ma questi corse a Milano e lo voltò alla parte sua. Cfr. GREGOROVIUS, St. di Roma, VII , 553-54 e diffusamente ALVISI, Cesare Borgia, pp. 300 sgg. I Gonzaga si trovavano allora in gran tribolazione , non sapendo a qual partito appigliarsi. Isabella tremava pel marito e gli raccomandava prudenza (cfr. D'ARCO, Notizie d'Isabella, pp. 58- 59). Intorno all' armeggio dei Gonzaga col Valentino sono da vedere i documenti preziosi che pubblichiamo nel nostro libro su Mantova e Urbino.
È degna d'esser riportata intera una lettera che appunto in quel frangente Niccolò le scriveva, giacchè egli vi si palesa un modello di corrispondente fido e garbato :
Ill.ma et Ex.ma Domina observan.ma.
Sia per mille volte ringratiata la Sig.la Vostra, de la impresa, che per una lettera sua mi commette, volendo ch'io
la tenga avisata de li successi de la Corte ch.ma, tanto come io li dimorarò,
che magiore gratia la non mi può fare in ogni tempo , che comandarmi,
Perch'io non spendo tempo con più mia satisfactione di quel ch'io consumo
in gratificare, e obedire la Sig.ria Vostra; e dogliomi d'havere fin qui persa
tanta occasione di servirla, che non è stato perhò, se non perchè essendo qui
lo Ill.mo sig. marchese, anchora ch'ello non habbia cancelliero , mi credevo
pure che qualchuno dovesse satisfar oltra quello che scriveva il Prete.
Hora per dare principio al comandamento de la Sig.ria Vostra, le dirò che
sabbato di sera, como scio ch'ella haverà inteso, gionse qui il Duca Valentino
venuto per staffetta ; et non si poteria dire quanta demonstratione li habbia
facta la ch.ma M.tà che tornando ella da festa, da casa de mes.
Arasimo da Trivultio, e sopravenendoli esso sig. Duca , che veniva da Porta Romana,
lo raccolse, et abraccioe con molta alegreza, e lo menò in castello, dove lo
fece allogiare ne la camera più propinqua a la sua et lei stessa solicitò la
cena sua et ordinò diverse vivande, e per quella sera per tre o quatro volte
li andò a la camera fin in camisa quando dovea entrare in lecto.
Ordinò puoy seschalchi e servitori per il predicto sig. Duca : et ha voluto che
heri
el vestisse, de le camise, zupponi, e habiti suoy , dicendoli che per bisogno
de la persona sua non dimandasse cosa alcuna a persona viva , se non di
quelle proprie di sua M.tà , cusì di questo bisogno del vestire perchè ' l non
ha cariaggi, como de cavalcature.
Pensi la Sig.ria Vostra che sua M.tà pigliò
cura fin de farli conciare una lectera da campo a suo modo.
In summa più
non si poteria fare a figliolo nè a fratello.
La predicta M.tà ch.ma
heri, che fu dominica, venne a odir messa in S.to Steffano, quella chiesa dove fu amazato il Duca Galeazo.
Dopo la messa andò a disnare ne la casa de lo lll.mo Sig. Duca di Ferrara vostro patre, che è
tenuta hora per mes. Theodoro da Trivultio che li dette disnare.
Dopo disnare sua M.tà tornando in castello andò a veder danzare in casa
de Francisco Bernardino Vesconte, dove erano dame a questo fine , e dopo
la cena andò fuora di porta Lenza a casa de lo episcopo Pallavicino pure
a veder danzare , e con sua M.tà cavalcava il predicto sig. Duca di paro, e
quando tornorno al castello era più d'una hora de nocte.
Nui non fussimo a festa , ma intesi che a casa de lo episcopo Pallavicino era la Hippolita, de altra non li scio dire che habbia nome.
Questa matina la M.tà del Re è andata a disnare a Binasco, dove sta tutto hoggi; e
dimane andarà a Pavia a cena ; lo Ill.mo sig. Duca vostro patre similiter andarà
dimane a Pavia, partendo de tre o quatro hore inanti giorno.
Da Pavia se tene che sua M.tà ch.ma anderà a Zenua et non più a Parma
como si dicea, e perhò il ritorno suo in Francia serà più presto che non
se stimava.
Non sciò altro dire a la S. V. circha le cose del mondo, che
mi pare temerario chi fa in questi tempi judicio alcuno.
Il sig. Marchese
venirà presto e dirà più oltre de le careze factese tra il duca e sua Sig.ria.
Il conte Joan Petro e conte Marchoantonio da Nuvolara hanno acceptato il
guanto di combattere insieme como la Sig.ria Vostra haverà forsi inteso, io
a ciò ch'ella intenda minutamente il tutto li mando li capituli che sono tra
loro e la ellectione delle arme e poterà vedere la querela loro et ogni imputatione che si danno.
In gratia della Sig. Vostra humilmente mi raccomando sempre.
Quæ bene valeat.
Mediolani,
VIII augusti MDII.
Ill.me et Ex.me D. V.
Servitor Nicolaus de Corrigia.
Anche le relazioni famigliari erano di tal natura che gioie e sventure venivano sempre comunicate e condivise. Così troviamo che quando a Niccolò mori d'apoplessia la madre, Beatrice d'Este, egli non tardò (il 17 dic. 1497) a rendere partecipe Isabella della perdita di quella « sua cia e serva » (1) . Quando il figliuolo di Nic- (1) Il primo giorno del 1498 Isabella così si condoleva col Moro per quella perdita : Ill.mo Princ. et Ex.ma Domine pr. hon.ma. La morte di M.a Beatrice q. mia amita molto mi è doluta, sì per la affinità ch'io havea cum lei et per 242 LUZIO-RENIER colò, Giangaleazzo, prese in moglie Ginevra Rangoni (1), la marchesa regalava a quest'ultima un magnifico clavicordio. La lettera con cui la ringraziava il Correggio è piena di particolari intimi, sulla salute del duca Ercole , su quella di Cassandra da Correggio ecc. , è insomma una lettera quale soltanto un vero ed intimo amico poteva scriverla : Ill.ma et Ex.ma Domina colen.ma. Qui a Correggio, et non a Ferrara , ho riceputa la lettera de Vostra Ex.tta la quale saperà che heri io mi partiti di là, et fui qui a xxIII hore et lasciai lo Ill.mo sig.re suo patre , che haveva havuto il preceduto termine de la sua febre cioè il tertio , assai mancho longo et molesto de li altri, che cusì come li durò il primo et anche el secundo da le xvin hore in sino a le xvi del giorno sequente, che venivano ad essere xx hore, questa, che cominciò pur a quel hora, terminoe ad un hora de nocte ; et oltra di questo una febre che li soleva venire la nocte in tutto lo havea lasciato, sì ch'io spero che quando tornarò a Ferrara trovarò sua Ex.tia cusì ben convaluto, che potrò fargli gustare de le oche salate che la Sig.ria Vostra mi manda , de le quale non posso nè so gustare fin ch' io non sia là dove sono rimaste , et serà fra tri giorni, ma pure ne ringratio epsa Vostra Sig.ria quanto posso, et emmi parso dargli questa bona nova del meglioramento del predecto Ill.mo sig. suo patre ; nè li tacerò anche che io, che sono venuto qui quasi per staffetta per una molto crudele doppia essere stata donna d'assai et da me amata, sì etiam per havere compreso ne le littere de la Ex.tia V. che quella n' ha singulare dispiacere. Pur con- siderato che il caso suo è stato naturale et ch'el non è in possanza di homo mortale contrariare a le constitutione di Dio , ho deliberato attendere a li savii et a me aprobatissimi consigli et ricordi di la Ill.ma S.ria V. , tolerando et confortandomi secundo le sue amorevole persuasione: il che tanto meglio et più facilmente farò quanto che intenda la Ex.tia V. haverne mancho di- spiacere, benchè per la sua prudentia et magnanimità sciò la porterà cum animo queto. Et in sua bona gratia sempre me rac.do. Mantue primo Januarii 1498. Filia et Ser.trix Isabella Marchionissa Mantue. Questa lettera si trova nella raccolta d'autografi del senatore conte Pier Desiderio Pasolini di Ravenna, che la comperò in Parigi. Egli volle darcene cortese comunicazione. (1) Il 17 nov. 1503 Niccolò si consolava, scrivendo alla marchesa, d'aver dato in moglie al figlio « la più delichata figlioletta ». Nella stessa lettera scherzosamente diceva ad Isabella : « Io spero anchora ballare con lei in ◄ sala bisognando giostrare per suo amore , e chi è vechio suo danno >. NICCOLO DA CORREGGIO 243 tertiana de mia mogliere, la ho trovata in modo megliorata, che la tenemo fuora del periculo in che la è stata , con la gratia de Dio , et de la bona cura che se li è facta, et stando di bene in meglio come spero, faccio conto de tornare come ho dicto fra tri giorni a Ferrara , dove io ho convenuto promettere di habitare per satisfactione de lo Ill.mo sig.re suo patre ; et ben ch'io creda ch'ella lo haverà inteso pure mi è parso mio debito toccargline questa parola. Ho trovato che la Ex.tia Vostra ha mandato uno clavicordio bellissimo a mia nora , et dignatasi mandare domno Philipo per metergelo ad ordine, come ha facto molto zentilmente , di che oltra le gratie che ge ne farà epsa mia nora, la ringratio anch'io immortalmente, che questi sono favori da non poterne mai mostrare assai gratitudine. Circa la cantione che Vostra Ex.tia mi dimanda ch'io voglia ellegiere del Petrarcha, perchè la vole fargli fare sopra un canto, io ho ellecta una di quelle che più mi piace , che comincia Si è debile il filo a cui s'atiene, parendomi che anche se gli possa componere sopra bene , essendo versi che vanno cresciendo , et sminuendo, et aciò che la Ex.tia Vostra conosca che la mi piace gli ne mando una mia composta a quella imitatione, aciò che facendo fare canto sopra la petrarchesca, con quello canto medemo potessi anche cantare la mia, se la non li dispiacerà , et non solo questa ma anche un'altra de una reconciliatione d'amore composta a foggia di quella pure del Petrarcha che comincia Chiare , dolci , et fresche aque , et in sua bona gratia me ric.º , ratenendo domno Philipo che questa matina volea partire per hoggi , et dimane a securtate et iterum a la Ex.tia Vostra me ric.º. Corrigie, XXIII augusti 1504. Ill.me et Ex.me D. V. Servitor. Nicolaus de Corrigia (1). Ginevra stessa porgeva alla marchesa i suoi ringraziamenti con questa letterina ufficiosa piena di devozione sincera: Ill.ma et Ex.ma Sig.a e patrona mia observan.ma lo non sciò dove incominciare per rendere debite gratie a la Ex.tia Vostra del clavicordo tanto bello et bono ch'ella mi ha mandato, acompagniato da una sua tanto favorevole littera et piena de mie laude, che se bene io sciò non esser in me virtute alcuna degna di tanto testimonio come è quello de la Ex.tia Vostra ; non di (1) L'ultima parte di questa lettera fu pubblicata dal Davari, La musica in Mantova, in Riv. stor. mantovana, I , 56. Alcune righe ne furono date scelleratamente dal BIGI, Op. cit. , p. 171 , che cambia il clavicordio in un ricordo! 244 LUZIO-RENIER meno, io godo ch'ella mi habbia in tale opinione che mi fa piena fede de esser bene accolta in sua gratia come io desidro et dirò che io merito se devota et amorevolissima servitute può meritare tale dono. Nè effetto nè parola alcuna poteria procedere da me per li quali io potesse satisfare a la minima parte de l'obligo ch'io ho a la Ex.tia Vostra, per el presente dignissimo di lei, per le honorevole parole che ella ha usate de me, et per el tanto favore ch'ella si è degnata de farmi ; ma con il core tutto la ringratio quanto posso, et con memoria continua de Vostra Ex.tia, a ch'io sono tanto obligata, exercitarò lo clavicordo ch'ella mi ha mandato el quale può ben dolersi di sua sorte che sia da tanto alto loco venuto a basso, benchè essendo d'una creatura et devota servitrice de Vostra Ex.tia si può dire chel non babbia cangiato servitio. Ad epsa V. Ex.tia insieme con Madonna mia matre humilmente baso la mano et mi racomando. Corrigiæ XXI augusti 1504. De la Ex.tia Vostra Servitrice Zenevre da Corregio manu propria. Ma la congiuntura di famiglia in cui massimamente ebbe a farsi valere la fida ed oculata servitù del Correggio fu in Ferrara, ne' tristi drammi che accompagnarono l'inaugurarsi del dominio del duca Alfonso. È risaputo come il 3 novembre del 1505 il cardinale Ippolito d'Este , per gelosia d'amore , facesse da' suoi scherani quasi acciecare il fratello naturale Giulio ( 1 ) ; ma è ignoto che nella conciliazione dei fratelli ebbe parte massima Niccolò da Correggio. Il cardinale chiese perdono a Giulio, ed il duca Alfonso, commosso, pregò Niccolò di tener loro un discorso ; il che egli fece molto acconciamente e poscia invitò i due fratelli a baciarsi (2) . Ma le cose purtroppo non si fermarono lì , e l'anno appresso ( 1506) Ferrante d'Este ordi con Albertino Boschetti e con altri una congiura contro il duca ed il cardinale, cui prese parte anche Giulio (3). La march. Isabella, che con ansia indi- (1) Vedi Frizzi, St. di Ferrara , IV, 222 e Cappelli , Prefaz. alle Lett. di Lod. Ariosto , 3ª ediz. , pp. xxix sgg. Il Cappelli suppone che la donna per cui accadde quel brutto fatto fosse Angela Borgia. (2) Lett. di Bernard. Prosperi alla Marchesa del 24 dic. 1505. (3) FRIZZI, IV, 223-24. NICCOLO DA CORREGGIO 245 cibile aveva seguita la tragedia del 1505 , fatta accorta della nuova macchinazione , tanto s'adoperò che giunse a sottrarre Giulio, in Mantova, all'ira del duca. Mediatore di quelle pratiche fu pure Niccolò da Correggio, come ben si rileva da questa lettera del marchese, ch'è nel L. 192 del suo copialettere : Al S.re Nicolò da Coreza S. Nicolò : Ultra quel che 'l S.r Don Julio manda a dire a V. S. in sua iustificatione circa il caso ove el si trova , ni pare , in comprobatione di la iusta causa che l'ha di temere ritornando bonamente a Ferrara e di la ragione per la qual prima el se ne levò, farli fede come la Ill.ma nostra consorte avisata da Ferrara de molti giorni nanti il suo partire di certo male che li potria accadere in Ferrara fece instantia cum noi , secundo che Lei istessa può anchor testificare, che sotto vista di invitarlo a vedere la nostra stalla, lo levassimo dil focho. Il che facessimo tanto più voluntieri, quanto che noi per altra via havevimo pur il medesimo aviso e come quel che dubitavamo di qualche infame scandalo, a cui nostro officio era a tutta nostra possa provedere. Al S. Don Julio non parse partir alhora, dubitando (come el ne rescrisse) che tal sua partita non fosse interpretata una fuga per Hieronymetto preso ; essendone doppo alquanti giorni refrescato pur che le insidie e periculo era magiore che mai, di novo rimandassimo uno messo a posta a pregarlo che 'l se levassi ; e la fortuna volse che ' l nostro messo gionse quella matina medesima che Don Julio si era levato , avedutosi alfin dil caso suo , e pur hora novissimamente havemo di loco degno di fede che venendo l'è anchor in certissimo periculo di la vita. Per questo concludemo che se 'l fusse alquanto respectivo a ritornare non li saperessimo dar torto. Facemo ben anchor fede che Don Julio è volunteroso di ritornare e revedere il S. Duca, nė si trova persona al mondo che desideri più questo di lui , per amarlo cum la debita reverentia e fede e per haver più speranza in lui sol che in tutto il resto dil mondo. Dicemo ben che l'havemo persuaso a soprasedere alquanto e consigliato a regersi talmente che cum pocha consyderatione el non tornasse nel focho, unde cum sua laude el si era levato. E perhò mossi da l'officio nostro che è di acquetare simili scandali per comune honore e bene, ni è parso usar il meggio di V. S. destra e prudente quanto alcun'altra in pregar il S. Duca in nostro nome che usi di la sapientia sua in questo caso, e stia contento per amor nostro far una segureza a Don Julio perchè intendendosi che ' l S. non è per farli dispiacere, come lui non merita e noi ne vivemo certificati, altri intendano che molto meno l'è per comportare che li 246 LUZIO-RENIER sia facto , che a questo modo ni parirà senza nostro caricho poterlo lassar venire. La segureza dimandata per uno che habia iusta causa de temere è sempre iusta dimanda, nè si de' mai negare. V. S. adunque faci questo officio cum quel amore che anche ni move noi ; che si altro ni induce ad interponerni in questo che una tenereza universale fra nostri cognati et il rispecto di l'honor comune , Dio non ni concedi mai cosa che vogliamo. E facendoni il S. Duca questa gratia, la quale non sol ad uno cognato et ad uno fratello ma ad ogni privata persona el faria, voglij V. S. impetrarli anchor uno pocho de dilatione al venire , aciò che il termine degli dui di statuitoli che anderano in haver risposta da V. S. el non pari haver disobedito......... Mant. xxi julij MDVI El vostro fratello El Marchese di Mantua. Nello sventare la congiura del 1506 Niccolò acquistossi non piccolo merito verso il duca Alfonso, che in compenso gli regalava un palazzo nella via degli Angeli in Ferrara (1) . Ciò nonostante è innegabile che i maggiori rapporti tra il conte e la marchesa riguardarono cose d'arte, particolarmente poetiche e musicali (2). Abbiamo testè riferita la lettera del 23 agosto 1504, (1) TIRABOSCHI, Bibl. , II, 120. (2) Solevano per altro scambiarsi anche oggetti di lusso , e ghiottornie , come lo prova tra l'altro questa curiosa letterina, in cui Niccolò chiede (in compenso d'un paio di guanti) degli eccellenti tartufi di Volta e Cavriana: Ill.ma M.na mia cara. L'è vero ch'io li promisi li guanti dopij, ma non li havea dopoi mandati per pocha memoria , che è mio natural difecto , e li manchamenti naturali meritano perdono. La S. V. serà anche per questo mal servita , perchè io non ho se non uno paro da donna , che mi pareno grandi, ma per esser dopij se mostrano anche magiori. Heleonora se n'è ritrovato uno paro de più picoli , che li manda a la Ex. V. Ho pregati essi guanti che in mio nome basino quella parte de la mano che la mia bocha voria poter basare. El Prete è ritornato da Milano , quale mandarò uno giorno a la S. V. Corrigie xxvI decembris 1498. La S. V. me mandi de le tartufole se la ne ha; se no , fati rivoltare la Volta e la Capriana sotosopra, tanto che se ne habia. Servitor Nicolaus de Corrigia manu p. NICCOLO DA CORREGGIO 247 con la quale Niccolò spediva a Isabella, insieme con una canzone petrarchesca, varie cose sue da musicarsi. Con quell'invio egli appagava il desiderio espressogli dalla sua gentile amica il 20 agosto 1504 : « Volendo nui far fare el canto sopra una can- << zone del Petrarcha , pregamo V. S. vuolerni elegere una che << gli piacia et scriverne il principio, et apresso mandarne una « o due de quelle de la S. V. che più a lei piace , ricordandosi <<« anchora dil capitulo et sonetto che la ue promise » . Il 30 marzo 1493 Niccolò manda a Isabella una « silva cantata nel passato < carnevale », e l'8 luglio di quel medesimo anno un'ecloga musicata. Ma quest'ultima lettera , sebbene nella sua ultima parte già edita ( 1), merita d'esser comunicata nella sua interezza : Ill.ma et Ex.ma Domina honor. El non è cosa al mondo che io non mi trovi che la Sig.ria Vostra non ne sia tanto possessore , quanto me medesimo : per haverli dedicato già più tempo le qualità mie , et la persona propria. Essa per sue lettere mi richiede la lyra che mi mandò Athalante (2) per usarla in questi suoi principij de imparare a sonarla. Mi duole insino al cuore che non se è ritrovata qui apresso me. Ma havendossi a transferire di presente a Ferrara dove ella è , mi è parso fargliela consignare in quel luocho. La lyra sta ne le mane di uno mio che è da Ferrara : al quale per la alligata cometto che subito la voglia presentare alla S.ria V. Quella se ne potrà revalere ala gionta sua per ritrovarla ad ordine, et essere usata da esso mio che si diletta sonarla. Se la S.ria V. precisamente non mi havesse richiesto quella di Athalante, glie ne haveria mandato un'altra che io mi trovo quà, che per essere alquanto più piccola di quella , seria forsi stata più a suo proposito. Como se sia, usarà quella di Athalante, che con il nome suo , et memoria de chi l'ha data se disponerà con qualche più affectione alo imparare. Che son certo lo saperà presto fare per l'ingegno , et bone condictione sue. Mando ala S.ia V. uno capitulo da cantarli drento, già facto più anni , quale se li piacerà poterà tenerlo a questo effecto : et non essendo a proposito , me lo farà intendere, che forsi mi disponerò a qualche cosa più delectevole per lei : et se altro mi trovo la S.ra V. domandi , che mai non mi trovarà stancho a compiacerla. Ala quale mi recomando. Il capitulo è una (1) Dal DAVARI nella cit. Riv. stor. mantovana, 1 , 54-55 , insieme con la lett. 30 marzo 1493 sovra menzionata. (2) Migliorotti, celebre musicista. 248 LUZIO-RENIER egloga pastorale : dove Mopso et Dapni pastori parlano insieme. Mopso si duole di la fortuna : Dapni se ne gloria. El senso alegoricho lo dirò a bocha ala Ex.ia V. como li parlo. Corrigiæ die VIII julii 1493. Ex. V. Servitor Nicolaus de Corrigia Vicecomes Comesque Castellani . 1 Qui ci appare la giovane Isabella desiderosa d'apprendere a suonare la lira. Lo strumento peraltro che essa suonava con speciale predilezione e maestria era il liuto , nel trattare il quale fu ammaestrata prima da Girolamo Sestula , poi da Gio. Angelo Testagrossa ( 1 ) . Nel canzoniere torinese di Niccolò da Correggio sonvi due sonetti composti per un liuto della marchesa (2). Non si trascuri , a questo proposito, il dialogo , pieno di raffinatezza, che Niccolò nel medesimo canzoniere imaginò tra una suonatrice di cetra ed il tarlo roditore del suo strumento prediletto (3). Nel comporre de' versi il signore di Correggio fu molto precoce. Abbiamo veduto che quando scrisse il sonetto in morte di Dorotea Gonzaga non poteva contare più di 17 anni. Nel 1471 trovavasi già nella libreria d'Ercole I « uno libreto vulgare in « versi di carte 3 composto per mess. Nicolò da Corezo in carte << bone cum chuperta de carte incolade chuperte de dalmascho << biancho rechamato a diamanti » (4). Non farà quindi meraviglia che nel 1491 Niccolò possedesse già più d'una raccolta di proprî versi. Isabella le conosceva , forse per averle avute in (1) Riv. stor. mantovana, I , 67-68. (2) In origine i sonetti dovevano essere quattro, ma nel cod. Torinese non ne rimangono che due. Non credo si possa dubitare che la Marchesa accennata nella rubrica sia Isabella. Vedi i due sonetti nell'Append. II, nº 2 e 3. (3) Vedi Appendice II, nº 4 e 5. (4) Inventario d'Ercole I , 2 sett. 1471, in VENTURI, L'arte ferrarese nel periodo d'Ercole I, p. 16. I docum. modenesi su Niccolò sono poverissimi di allusioni alla sua attività poetica. Abbiamo presente solo una lettera del 6 marzo 1502, indirizzata da Niccolò a Sigismondo d'Este, in cui dice : « De « li sonetti , ch' Ella mi domanda , che per hora non li saria tempo, la sa- « tisferò puy di tuto quello che la vorà, e voluntiera ». Arch. Est. , Prin cipi esteri, Cart. Correggio. NICCOLÒ DA CORREGGIO 249 prestito o per averle scorse più volte a Ferrara, cosicchè poteva con sicurezza richiedere al suo amico « l'ultimo capitolo del libro << nero e il primo del bertino » , desiderio che il Correggio appagava di buon grado il 28 agosto del 1491. Ma prima , il 18 giugno di quell'anno, Isabella ricordava al Correggio come nelle nozze d'Alfonso con Anna Sforza egli le avesse promesso un'ecloga sua ed una di Virgilio « translatate de latino in volgare »; onde lo pregava attenesse la promessa « perchè essendo nui de natura << appetitosa, le cose ne sono più care quanto più presto le ha- « vemo ». Il Correggio l'aveva prevenuta con lettera del 16 giugno, scusandosi del ritardo « per esser quasi di continuo stato in motu << et occupato apresso lo Ill.mo S. Ludovico » . Le manda l'ecloga sua e l'altra de Virgilio traducta de latino in vulgare, facta da <<< altra persona, aciò ch'essa non creda ch'io ne sia stato il tra- << ductore. Le stantie ch'io componea sono ultimate et intitulate << a la S. V. ». Non v'ha dubbio che queste stanze siano la Psiche. Troviamo infatti che già il 13 maggio del '91 Gio. Pietro Pietrasanta, verseggiatore egli pure del gruppo sforzesco ( 1) notificava in segreto a Jacopo d'Atri : « La Psyche haverete fra pochi di << da la Ill.ma vostra Madonna ad chi è intitulata. Già è compita << et credo ve piacerà, ma per vostra fè non ne fate parola, però << che chi l'ha facta non vole che sia prevenuta per fama la pre- << sentatione ». Nei codici, ed anche, dicesi, in una stampa oggi rarissima (2) , la Fabula de Psiche è preceduta dalla seguente notevole dedicatoria alla Marchesa di Mantova : (1) RENIER, Gaspare Visconti, Milano, 1886, p. 93. (2) Senza luogo nè anno. Come esistente nell' Ambrosiana la menzionano il QUADRIO, St. e rag . , VI, 396, il COLLEONI, Op. cit. , p. 16, il TIRABOSCHI, Bibl. , II, 127 ; ma nell'Ambrosiana, dove esiste un'ediz. zoppiniana del 1521 , la ricercò invano per noi l'amico Novati. Nelle stampe cinquecentiste, in cui la Psiche compare col Cefalo , la lettera di dedica manca. I codici invece l'hanno tutti, tranne il Torinese N. VI. 9. Essi sono, per quanto noi conosciamo, l'Estense X. * . 34, il Ferrarese della Comunale 408, il Vaticano Regina 1601 dei latini . La nostra edizione è condotta sul cod. Estense; il BIGI , Op. cit., pp. 163-164 , unico editore moderno dell'epistola , s'attenne al Ferrarese. 250 LUZIO-RENIER Ne mei più teneri anni, Ill.ma Madonna, quando le amorose fiame avamporno tanto il mio quasi adusto core, che in lui non era loco a la ragione, per aleviamento di le mie pene, cum la lira in braccio , svaporando lo intrinseco foco a lauri, a faggi, a fronde, a fiori, cantando spesso facea noti i dolor mei. Onde havendo in simil stato consumpta la prima parte de li mei inenarrabili affani , feci habito alquanto nel celebrato suono de la preditta lira, et assuefatta la lingua al poetico materno stile, mi trovai più volte certando esser vincitore e coronato per pretio di victoria di laureati serti, come concedea l'achademico costume. Mi condussi a più alte palestre et accadendo cum alcuni, per via de diporto, alternando cantar versi impremeditati, datasi l'uno a l'altro la materia diversa ,. a me toccò per sorte trattare d'uno fig mento amoroso, se non vero non in tutto falso, et senza altro exordire prorumpendo in quello che 'l mio amor peccava intepedito per li amorosi contrasti, ma non però extincto il mio più che natural amoroso foco mi sforzai cum persuasione non fincte indur li amanti a viver in quieta vita , per lo exempio mio assumendo alcune fabule non senza vere allegorie conteste, in specie quella de Psiche da esso amante suo Cupido in questo luoco recitata, la qual fu mio precipuo thema proposito di narrare. E facto di questo tractato alcune stantie, non lo sapendo le furno da certi astanti sì como per noi si dicevano in quel punto raccolte, che certo a me ne dolse, perchè di l'ornamento di la lyra private , parme vedere una difforme donna , che già adiutata da l'ornamento havea ardire de mostrarsi, hora denudata di quello ogni sua turpitudine dimostra. Pur astretto dal comandamento di voi , mia signora e patrona , quelle che sono alle mie mane pervenute vi mando. Et perchè in molti errori superflua è la scusa , che dove sono pochi manchamenti alcune volte si supplisse, perdonarò a questa fatica per non la veder proficua e restaròmi di le excusatione di la rozza et inepta narratione loro. Le vergognose et erubescente rime vengono adonque alla vostra Excel.tia per uno testimonio di la fede et observantia mia alli precepti di quella. Se dignirà raccoglierle nelle delicate mane sue, basandogele loro humilmente farano quanto da me gli fu nel suo partir imposto. A Lei humilmente mi racomando. Vale (1) . (1) In una lett. a Giammaria Trotti del 27 dic. 1491 , in cui Isabella fa chiedere al Tebaldeo venti o venticinque de' suoi sonetti migliori , è anche detto: < et ricordate al M.00 m. Niccolò da Corezo che 'l ne mandi quello << ne ha promesso ». Si tratterà della Psiche non peranco inviata ? Può darsi ; ma è ad ogni modo fuor di dubbio che quel poemetto fu composto nel primo semestre del 1491. NICCOLO DA CORREGGIO 251 Durante il soggiorno milanese, non solamente Niccolò inviava alla marchesa i frutti del proprio ingegno, ma non si dimenticava di lei neppur se gli capitava qualche primizia di amici suoi. Cosi quando Gaspare Visconti , ragguardevole personaggio della corte Sforzesca che si dilettava di rime ( 1 ) ed aveva con Niccolò non piccola famigliarità ( 2), dedicò nel 1493 a quest'ultimo i suoi Ritmi (3), il Correggio ne mandò subito, non l'esemplare di dedica, ma una copia stampata << in simile forma » a Isabella, la quale gli dichiarava che il dono le era riuscito gratissimo, << ma molto più seria se l'havessimo havuto nanti fusse stampato. << Tuttavia lo legemo vulentieri et per rispetto dell' auctore (4) (1) Vedi RENIER, Gaspare Visconti, e per la biografia particolarmente le pp. 9-20. Cfr. anche PORRO, Catal. mss. Trivulziani, p. 460. (2) Nel cit. lavoro su Gasp. Visconti, pp. 74-76, raccolgonsi i dati da cui risulta l'amicizia e la stima di Gaspare per Niccolò . (3) Gasp. Visconti, pp. 20-21 . (4) Nel cit. Gasp. Visconti , p. 75, è detto : « Che Gaspare sia mai stato << in relazione diretta con la coltissima gentildonna dei Gonzaga, non risulta « nè dalle carte mantovane nè da altri documenti ». Tuttavia non è improbabile che Gaspare appunto il poeta (si sa che vissero contemporaneamente parecchi personaggi del medesimo nome) si recasse a Mantova ambasciatore del Moro poco prima della battaglia del Taro. Ecco una lettera di Ludovico al Marchese che vale a farne testimonianza: Ill.me D.ne Cognate tanquam frater char.me È retornato m. Gaspar Vesconte quale poi la significatione de la bona et humana recoglienza factali da la S.Pia V. ne ha referto cum quanto animo, core et dispositione la S. V. procede a questa impresa , cum incredibile de- siderio de fare cognoscere con effecti la grandeza de l'amore suo verso noi . Questo se ben a noi non è stata cosa nova nè fora de quello che indubitatamente se persuademo de lei , per l'amore nostro fratello et per la grandeza de l'animo et virtù sua , nondimeno è tanto el caso quale ne facemo che ogni nova confirmatione ce ne è facta ne lassa cum singulare piacere, como facemo adesso , ringratiandola quanto possiamo , cum certificandola che noi non porriamo essere in maiore speranza quanto siamo che veramente habijno da lei reuscire tali effecti in questa impresa che li portarano immortale laude et gloria, et perpetuo obligo de tutà Italia, ma in specie de noi . Med. 2 junij 1495. Ludovicus Maria Sfortia Anglus Dux Mediolani etc. B. Chalcus. Nel Gasp. Visconti, pp. 103-4, fu pubblicata una lettera, 1 giugno 1498, di 252 LUZIO-RENIER << et de cui ce lo ha mandato. Ringraciamone V. S. la quale pre- << gamo, se non gli siamo troppo importune, che havendo qualche << cosa del suo composto doppo che non la vedessimo voglia man- << darcene, perchè senza adulatione ne piaceno più che de alcun << altro che adesso dica in rima , et non la poteria fare magior << piacere » (1). Una simile dichiarazione, venutagli da tal dama, doveva certo soddisfare grandemente l'amor proprio di Niccolò. Nè mancavano altre cortesie, che sempre più dovevano dimostrargli quanto Isa- ' bella lo apprezzasse come uomo non meno che come poeta. Il 29 maggio del 1497 gli scrive : « Desiderando nui grandemente << de godere la S. V. qualche di, la pregamo et confortamo che << la voglia a ogni mo' et presto satisfare al desiderio nostro..... << et la conduchi secho la Mag.ca M. Elionora sua figliola » . Ma Niccolò non venne allora per un delicato riguardo. A Correggio v'era stato qualche caso di peste, ed egli non voleva recarsi a Mantova con quel brutto sospetto. Andò invece a goder la quiete della campagna , che tanto prediligeva , come apparisce da' suoi versi. In una lettera alla marchesa data « in valle Campiginis > 1'8 giugno 1497 scrive : « Domatina, Ill.ma M.ª mia, voglio andare << a desinare a la Selvapiana, longi da Rosena due miglia, dove << el celebratissimo m. Francesco Petrarcha compose tante opere, << locho ameno et apto a tale exercitio. E se la legie la vita sua << che è stampita dreto a li sonetti e triumphi soi, la vederà no- << minata ; e cusi alegramente anderò passando questi fastidii . Gaspare a Leonardo Beci detto Aristeo , famigliare del vescovo Lodovico Gonzaga. Nel copialettere di Lodovico (Arch. di Parma) sono due biglietti di mons. Lodovico ad Aristeo , che riguardano il Visconti. Il primo, dato da Ostiano 22 agosto 1489, dice : « Del libro o vocabolista quale me richie- <« desti già più di sono per m. Gaspar Vesconte se cava copia tutavia , et << fra tri o quatro dì credo serà in ordine » ; il secondo , pure da Ostiano 1 sett. 1489 : « Vi mando el libro facto copiare per el mag.com. Gaspare << Visconte : se esso non è honorevole , per essersi copiato in pressia, come << la Magnificentia sua desiderava, pregatela di perdonarmi ». (1) Queste due lettere, del 28 febbr. e del 26 marzo 1493, furono stampate integralmente nel Gasp. Visconti, pp. 74-75. Quasi contemporaneamente produceva la prima il Davari, Riv. stor. mantovana, I, 54. NICCOLO DA CORREGGIO 253 << Rosena è longi da Corezo 25 miglia et è locho molto remoto : << starò li qualche giorno a li comandi de la Ex. V. de la quale << son schiavo ». Nel luglio peraltro il Correggio fu a Mantova, giacchè il 22 di quel mese scriveva ad Isabella , essendogli capitata addosso una febbre: « In un tempo posso dire lasciai, par- << tendo, la Ex. V. et la sanitate ». Come si vede, la galanteria di Niccolò andava crescendo di conserva con la intrinsichezza per la marchesana. Ne è prova anche il seguente biglietto autografo dell'anno successivo , in cui il nostro gentiluomo, prendendo occasione dalla visita che un suo fido aveva fatta alla Gonzaga, piacevoleggia sul magnifico quartiere della grotta d'Isabella, pieno di cose d'arte e di eleganze d'ogni genere : Ill.ma et Ex.ma Dna. Accelerato dal cavalaro de la Ex. V. a la risposta de le aportate littere, non dirò molto per haver qua tre coppie de combattenti, a li quali per mia disgratia ha convenuto dar campo , non credendo prima che dovessino combattere e cusì asicurato ; pur son condutto e dubito mi bisognerà esser crudele. Questa sola serà per rengratiare la Ex. V. de l'haver posta la homicida mano sul papiro per mostrar de tenir conto de un schiavo che a pretio lo venderesti poi per uno obolo, benchè io non lo vogli anchor afirmare fin tanto che non mi ritrovo a la prova che serà presto, e se io serò admesso a la solinga grotta, como fu el Prete (1), mi reputarò in bon stato, s'io serò facto a lui inferiore cognoscerò dove mi trovo e forciaromi far de li officij che fa lui se io lo saperò fare e se poi non serò grato como lui dirò che l'è mia disgratia. A la Ex. V. mi ricomando. Corrigia 7 martij 1498. Servulus Nicolaus de Corrigia manu pp. Isabella in quel tempo aveva per le mani una bisogna molto delicata : scegliere il motto per la medaglia che volea farsi incidere. S'era per ciò rivolta a Niccolò, che la aveva servita subito. Ma Isabella era molto delicata : essa trovò che quel motto era già stato usato da altri, onde pregò l'amico di mutarlo. La risposta del Correggio suona così : (1) Di questo personaggio discorreremo in appresso . Giornale storico, XXI, fasc. 62-63. 17 254 LUZIO-RENIER Illustriss. et Ex.ma D.na mia observ.ma Puoi che la Ex.tia V.ra, como ella mi scrive, ha ritrovato in altro loco il motto de la medaglia sua, io mi accordo seco, che epsa non debbe fare cosa prima facta da altri, certificandola che io non l'havevo veduto mai, anzi pure mi occorse in simile proposito. Ma in cambio di quello, piacendoli, poterà dire in quello medesmo significato: Benemerentium ergo, che vene a dire Benemerentium causa. Che ben mostrarà ch'io ho voluto al meno subito expedire il Cavallaro suo, se non bene, et ch'io ubidisco a li precepti de la Ex.a V.ra la quale ringratio summamente di tanto honore ch'ella mi fa, tanto più como io sciò che oltra l'ingegno suo che saperia provedere a magior cosa ella ha molti apresso di sè li quali haverianno meglio saputo satisfare al desiderio di quella in questo caso. Et sempre me li racomando. Dolendomi bene ch'io non possa venire a fare riverentia a la Ex. V.ra per octo giorni che di questa settimana mi conviene andar a Milano. Ma assetate alchune cose io mi satisfarò in parte de la presentia sua. Quae bene valeat. Corrigiae die xviiij maij 1498. Ill.me et Ex.me D. V. " Servitor Nicolaus de Corrigia. Postscripta. Me ne sono occorsi dui altri pure di quello significato ch'io ho voluto subgiongere ben che tutti pocho cunti, et iterum a la Ex. Vostra mi racc.º. Dat. ut in literis Naturae officium Gratitudinis studio . Id. S.tor Ni. La medaglia bellissima d'Isabella ha diffatti sul retto l'effigie e sul rovescio una donna alata, che tiene una verga con cui minaccia un serpente, dritto a lei d'innazi, e sopra la testa il segno del sagittario sormontato da una stella, col motto intorno BENE . MERENTIUM . ERGO (1). Vedemmo poc' anzi che la marchesa amava anche molto la compagnia di Leonora, figliuola di Niccolò. Benedetto Capilupo, (1) Vedi ARMAnd, Médailleurs, II, 99-100 . La cronologia esatta della medaglia non si conosceva. Dal documento addotto si rileva che s'avvicinò molto al vero l'Armand giudicando che Isabella vi fosse effigiata di venti o venticinque anni. Nel 1498 essa ne aveva 24. NICCOLÒ DA CORREGGIO 255 che la vide sfoggiare a Milano nel 1498, la chiama, scrivendone a Isabella, « M. Elionora nostra da Corezo » (1). Conoscendo i gusti della Gonzaga, anche Leonora le faceva invio delle primizie poetiche che le venivano tra mano. Appunto in quell'anno 1498 essa le spedì un capitolo, che piacque molto alla signora di Mantova ; ma sgraziatamente andò smarrito. Indicibile fu il dispiacere che n'ebbe Isabella. Di gran premura scrisse a Leonora: a M. Ellionora : Quello capitulo, che l'altro di ce mandasti, ne piacque tanto, che potressimo desiderare che 'l ni fusse parso mancho bono, perchè non haveressimo il dispiacere che hor havemo. La disgratia nostra vole che l'habiamo perso , nè sapemo in che modo , nè a cui dar la colpa , se non che forsi el sia piaciuto ad altri , come el faceva ad nui , et che la sua troppo bontà ce ne habia private ; ma per non ne restare senza copia, vi pregamo che di novo ce lo vogliate mandare etc..... Mantue ult. maij 1498, Leonora risponde : Ill.ma et Ex.ma Domina mea colen.ma Puoi ch'io non posso, a la Ex.tia Vostra mandare quello capitulo che la mi dimanda , per haverni quella sola copia ch'io ne haveva tolta al R.mo Card.le nè sapendo dove haverlo altrove, io li mando questi quattro sonetti che sono composti per il sig." mio patre novamente in questo viaggio da Corregio a Milano , dove gionse heri et a la Ex. V. si racomanda. Il mio libro da li capituli si trova a Corregio, perhò non gli lo mando, et solamente ne la gratia di la Ex.tia V. mi racomando. Che Dio nostro la conservi che altro più non desidero. Mediolani die 1 junij 1498. Ill.me et Ex.me D. V. Servitrix Heleonora de Corrigio. Ma Isabella, nella sua vivace indole giovanile, non s'accontenta e riscrive : M. Helionora. Havemo ben chari li sonetti che ce haveti mandati, perchè (1) Cfr. Luzio-RENIER, Relaz. d'Isab. con gli Sforza, p. 143 n. Isabella stessa chiama nostra Leonora da Correggio in una sua lett. del 1513. Cfr. ediz. CF. delle Rime del Pistoia, p. LV. 256 LUZIO-RENIER sono boni, ma più ce seriano accepti se havessimo havuto in compagnia il capitulo che ricercavimo. Però vi pregamo per lo amor che ce portati a volercelo subito fare havere, nè bisogna ritrovare scuse, perchè non ve le acceptamo, chè cognoscemo ben M.or Rev.mo nostro fratello di tal natura, che se gel dimandareti per noi non vi lo negarà. Et mandandocelo avisateci chi l'ha composto, benchè noi lo reputiamo opera del signore vostro patre. Mantue, v junii 1498. Il giorno stesso sollecita il Capilupo ad interessarsi della cosa e si dirige anche allo stesso Niccolò, supplicando: « perchè la com- << positione (se ben giudicamo) è de la S. V., la pregamo et strin- << gemo ad operare che l'habiamo , se ben la lo dovesse ricom- << ponere per amor nostro. E quando la fusse opera d'altrui, la << voglia instruere M.ª Helionora del modo che l'ha ad osservar << in satisfarci ». E di nuovo al Capilupo il 10 giugno : << Sollicita << il capitulo che dimandemo a M.ª Elionora, et di ' a Mons. nostro << fratello che quando serrà qua ge ne havemo da monstrare uno << bello ». Nel frattempo Niccolò aveva cortesemente risposto : Ill.ma et Ex.ma Domina mea observandiss.ma. Se quello capitulo de che me scrive la Ex.a V.ra fosse mia compositione, el non bisognaria ch'ella me lo adimandasse , perchè havendoli come io ho già dedicate tutte le cose mie, non teneria questa priva de tanto honore. La saperà adunque che ' l non è mio. Di mia mano li ho ad scrivere più diffusamente. Non li dirò altro per questa se non ch'io mi rac.º sempre ne la gratia sua. Mediolani, die vш junii 1498. Ill.me et Ex.me D. V. Servitor Nicolaus de Corrigia. Di quel capitolo non si sa poi più nulla , ed è probabile che la marchesa non riuscisse più ad ottenerlo : ma a nessuno dei lettori sarà sfuggito quanto sia caratteristica la insistenza con cui la Gonzaga ne faceva richiesta. Altri capitoli, forse del padre, le inviava Leonora nel 1501, come appare da una risposta del 28 maggio di quell'anno, ch'è nel L. 12 del Copialettere d'Isabella. Molto più tardi , quando Niccolò era già morto , Leonora fece tenere alla marchesa un libro del marito suo , Lotterio Rusca : NICCOLO DA CORREGGIO 257 Ill.ma et Ex.ma Mad.ma. Essendo andato il mio consorte per alcune occur rentie sue di pocha importantia ne li Elvetii, et per spassare in parte gli affanni scripse el presente libretto in modo di uno itinerario, non perchè andassi in luce, ma solo per sua satisfactione et per la gran servitù ha verso V. Ex.ttia a quella lo dedicò : per il che io lo pregai, dopo era sì ben dicato, lo mandassi, pensando ni dovesse havere piacere, il che non volse mai, con dire gli bastava assai havere a sè stesso satisfacto de dedicarlo a cui egli più del libro era dedicato, ma che mandarlo non gli pareva conveniente per essere cosa di poco momento ad tanta et si ecc.te Signora et di tanta intelligentia. Io che pur vedeva questo nome Elvetio essere in tanta fama al sente, et che conosco V. Extia desiderosa di cose nove, gliel'ho tolto et per Cleophas (1 ) a quella lo mando. Se 'l serà de qualche eruditione et se piacerà a V. Ex.tia, mi serà ad gran mia satisfactione, se altramente, quella mi potrà havere excusata per non havere de simile cose cognitione. A V. Extla con M.ª mia matre, quale è qua de continuo se racomandiamo. preIn Milano, 5 ott. 1517. Di V. Ill.ma S.ria Servitrice Elionora Rusca da Correzo contessa (2). Isabella rispondeva con la amabilità consueta : M.ca tamquam soror nostra cariss.ma Già sono più giorni che Cleophas ni presentò una lett. de V. S. insieme con lo itinerario composto per il m.co suo consorte a noi dicato. Non havemo più presto fatto l'officio di ringratiar l'uno et l'altro perchè expectavamo che esso Cleophas ritornasse. Hora che 'l viene lì c'è parso far questo effetto. Però sì como l'opera per esser molto ellegante, erudita et delectevole a noy è stata grat. " , così ni donamo infiniti ringratiamenti al m.co suo consorte che ce l'habbi dicato , et a lei che ne l'ha mandata. Non dovea già esso suo consorte esser ritroso in mandarni simil cosa perchè poteva esser certissimo non poteva se non piacerni, sì per esser cosa sua, che non potressimo haverla se non cara et grata, como perchè (1) Tornitore, con cui Isabella ebbe molti rapporti artistici, come mostreremo un giorno. Era di casato Donati. Su di lui si vedano per ora le notizie che diede W. BRAGHIROLLI, Lettere ined. di artisti del sec. XV, Mantova, 1878, pp. 31-2 e 51-2. (2) Questa lett. fu pubblicata da A. BERTOLOTTI, nel Bibliofilo, VIII, 23, ma noi la riproduciamo dopo averla collazionata sull'originale. 258 LUZIO-RENIER veramente è molto bella. In recompensa di essa non sapemo che dir altro a V. S. et a lui, se non che ni offer.º et. Quæ bene valeat. Mantue 20 nov. 1517 (1). Le spedizioni di versi di Niccolò si susseguirono particolarmente frequenti negli ultimi anni di sua vita, quand'egli, vivendo gran parte del suo tempo in Ferrara e non essendo turbato da troppe faccende politiche, aveva maggiore agio di darsi alle Muse. In una lettera del 25 agosto 1504 parla di canzoni inviate alla marchesa e si rallegra che siano piaciute, promettendo altre cose per l'avvenire. Altra lettera, del 24 febb. 1505, accompagna certi sonetti specificatamente descritti, di cui non è rimasta traccia fra i versi del Correggio che conosciamo : Ill.ma et Ex.ma Domina, Domina mea observan.ma Ho riceputo li carpioni che scrive mandarmi la S. V. quali mi sono stati gratissimi (2). Benchè non havessi destinato il messo per haverli da lei , tutta volta, puoi che li è piacciuto farmine un presente, li goderò per amore e con continua memoria di quella, la quale ringratio summamente. A li passati giorni io hebbi da Roma un sonetto composto sopra questa materia che essendo uno giovene Romano in braccio a la sua inamorata bellissima , l'anima gli spiroe (3). Per la qual cosa parendomi il caso di qualche memoria degno, persuaso anchora da chi mi mandò il predicto sonetto, mi disposi anchora io componere qualche cosa : et cusì facto quattro sonetti, li mando per satisfactione sua a la Ex. V. Nel primo parla il giovene morto, nel secondo la donna ad (1) Sarebbe curioso rintracciare quell'itinerario del Rusca. (2) I famosi carpioni del Garda, che i Gonzaga regalavano tanto volentieri agli amici loro. Cfr. le nostre Relax. d'Isab. con gli Sforza, p. 47, n. 2. (3) Informatissima come era la Marchesa di tutte le poesie nuove che com. parivano essa aveva già avuto copia di quel sonetto da Antonio da Ferrara che se ne diceva l'autore, seppure quell'Antonio non aveva anch'egli su quel caso pietoso composto un nuovo sonetto. La lett. è da Ferrara, 16 febbr. 1505: << Recordandomi de l'obligo ch'io ho con V. S. di mandarvi sempre qualunque < cosa ch'io compona ... mi è parso il presente sonetto mandarvi per essere « l'effetto suo raro e pietoso. E questo è d'uno amante che poi che hebbe < colto quel dolce frutto che lungo tempo havea bramato in quella hora fra « le braccia de la cosa amata restò morto , et in questi versi lui stesso de << la propria felicità ragiona. Son certo che 'l sonetto per il novo sugetto << se non per altro piacerà a V. S. ». NICCOLO DA CORREGGIO 259 Amore; nel terzo pure la donna ad epso giovene defuncto, e nel quarto la urna dove è sepulto , como chiaramente la comprhenderà. Quello che mi resta è ch'io ho facto le debite ricomandatione a li Ill.mi S.r Duca et M. Duchessa, a sue Sig.rle acceptissime . et cusì ge le retribuiscono ; et mia mogliere et figliola la ringratiano per infinite volte che si degni tener memoria di quelle che gli sono deditissime servitrici. Epse infinitamente se ricomandane a la S. V. et io insieme. Ferrariæ , xxIII februarij , MDV. Ill.mae et Ex.mae D. V. Servitor Nicolaus de Corrigia Comes. In quell'anno 1505 la marchesa smarri novamente alcuna delle composizioni poetiche di Niccolò, ond'essa s'affrettava a chiedergliene un'altra copia : Nicolao. Essendoni smarito (non sapendo come) el capitulo et sonetti che ne detti la S. V. quando eravamo a Ferrara, pregamola che per nostro singulare piacere vogli esser contenta de farli rescriver et mandarceli. Et quando la se scusassi non haverne copia , maxime de li sonetti , ce contentarimo haverni altritanti de novi : et apresso ne mandarà quelle poche stantie che la ne dete l'ano passato, quale principiano Non è si ardito il core etc., perchè similmente non le trovamo per colpa de la morte de la nostra Brognina (1) che ne haveva custodia. La S. V. ne farà cosa di gran satisfactione, et a questo effecto solo gli driciamo el presente nostro cavallaro, offerendoni a li comodi et piaceri di essa sempre paratissime. Mantue, xxvii juni 1505. Ad invito così pressante Niccolò rispose in questi termini : " Ill.ma et Ex.ma Domina ecc. Visto quanto per la sua de xxviii del passato mi scrive la S. V. chiedendomi quello cap.10 et sonetti gli diedi essendo a Ferrara, subito per satisfare a la voglia sua li ho facto rescrivere et cussi ge li mando qui annexi : vero è che li sonetti non sciò se siano quelli medesmi che ricerca la S. V. ma per quanto mi fa intendere il scriptore di essi et che scripse ancho li altri sono quelli proprij. Haverà anchora qui (1) È una delle damigelle della marchesa più spesso nominate nei documenti mantovani. 260 LUZIO-RENIER insieme le stantie che comminciano Non è si ardito il cor (1) , ma queste si sono ritrovate con grande difficultate, talmente che poco è manchato che non le habbia havute, perchè io non tengo conto nè copia de stantie, pure a caso si sono ritrovate queste nel mio archetipo, como dico, e a la Ex. V. quanto posso me ricommando. Corrigiae die septimo julij MDV. Serv. Nicolaus de Corrigia. Nel febbraio del 1507 c'imbattiamo in una lettera di Niccolò, con cui risponde al desiderio della marchesa di rifare una certa canzone d'altro poeta, foggiata sul Petrarca. Può dirsi questa una lettera tipica per cortigianesca eleganza. Il Correggio vuole e non vuole, finge di non poter compiacere la sua amica e poi finisce col cedere, ascrivendo tutto il merito di quanto ha fatto alla sua gentile corrispondente : . Ill.ma Madama signora mia ; Per el conte Laurentio de Strozi mi è stato portato una cancione morale in nome de la Ex.tia Vostra, et mostra che suo desiderio seria che quella sententia che in essa cancione è expressa si dicesse in un'altra de simile stile . La cancione è imperfecta perchè è facta a similitudine di quella del Petrarca che comincia Quando el suave mio fido conforto. Quella ha sei stantie, oltra la cantilena missiva, et la cantilena ha cinque versi. Questa che ha mandata ha tre stantie sole, et a la cantilena mancha un verso, che sono quattro tanto ; et quando la S. V. volesse che la cantilena fusse de quattro versi soli, levi via il versetto di mezzo, che il resto poi se accorda. In una parte , Ill.ma Madama , mi doglio , in un'altra mi allegro. Dolmi ch'io non sia apto a satisfare a li desiderii de V. Ex.tla: godo poi che la si ricordi di comandarmi , che questo sempre fu, et è mio desiderio servirla, ubidirla et observarla. Non mi seria però bastato l'animo, nè ancho seguìte le forze a non solo megliorare, ma pur ad imitare quella, che deve essere stata composta per bona mano , perchè è ben dicto quello che ha vogliuto dire : ma datomi el precepto in nome de V. S. mi stimai ancho havere la influentia del suo nume ; et senza far più scuse de l'arte interlassata, benchè sempre male operata , son venuto ad ubidire , et così gli mando qui incluso quanto può produre el mio poco ingegno. Ringratio (1) Anche queste stanze non ci sono conservate. NICCOLO DA CORREGGIO 261 quella che mi comandi : et quanto più el peso che me imponerà serà disproportionato a le spalle mie, cognoscerà lei che portandolo, mia voluntà serà, ma sua virtù et possanza. Bacioli la mano, et la adviso che già lo Ill.mo S. Duca suo fratello commincia a iubilare de haverla quà per non mancho de duo mesi, dove havemo ragionato far maschare (1) : et io lo desidero per non havere potuto conseguire la promessa factami de essere un mascharato amante, che già havevo preparate foggie , e significati , tutti adiricciati a quel bersaglio, con suspiracci da portar la nave lumellina dal ponente al levante, stimando così dovere seguire ancho da l'altra parte, et esser più presto superato, che adeguato. Hor non più: bacio mo' el piede, con questa poca trascorsa. Ferrariae, xo februarij 1507. De Vostra Ill.ma S. Servitor Nicolò da Corregio Conte del Castellatio. Questi discorsi carnevaleschi di mascherate ci traggono a dire d'una delle passioni più acute del nostro poeta, quella per gli spettacoli teatrali. Il Cefalo, rappresentato in Ferrara il 21 gennaio 1487 (2), se fu il più famoso dramma di Niccolò , non fu certo (1) Niccolò prendeva sempre parte vivissima ai carnevali ferraresi. L'anno innanzi era stato capitano nella grossolana battaglia delle ova ed era andato in maschera con Lucrezia Borgia e coi buffoni Barone e Frittella. Vedi il nostro articolo Buffoni, nani e schiavi dei Gonzaga , Roma , 1891 , pp. 25-26, estr. dalla N. Antologia. Con la fastosa Lucrezia pare che Niccolò non se l'intendesse male, se ben comprendiamo queste righe, alquanto sibilline, d'una sua lettera alla marchesa dell'8 sett. 1502 : « Preterea perchè « sciò che a Ferrara se promettono li balli, io vi dimando da ora a la ve- << nuta de la mia Ill.ma Lucretia secunda Borgia Estense , de la quale ho << dicto tanto bene altre volte a la S. V. , e godomi che la vederà lo efecto. < Aparechiatevi a gale, che non bisognerà farli soprascritto perchè non siano << bene intese ». (2) Diario Ferrarese, in R. I. S., XXIV, 278. Le stampe venete dicono che fu rappresentato il 21 genn. 1486, ma o è errore tipografico , o seguono il computo dello stile veneto. La data 1487 è confermata dalla cronaca ms. di fra Paolo da Legnago , in cui a c. 148 si legge : « A dì 21 zenaro « MCCCCLXXXVIJ fu recitata la fabulla de Cefalo nel cortile novo , per « le nozze de m. Giulio Tassone e de Mad. Hyppolita sua consorte ». Cfr. D'ANCONA , Origini², II, 128-129 , ove è detto che il Cefalo fu fatto per le nozze d'Annibale Bentivoglio con Lucrezia d'Este. Ciò non sembra esatto. 262 LUZIO-RENIER l'unico. Si rammenterà la sua fabula de Calisto , destinata nel 1501 ad essere prodotta sulle scene di Mantova , di cui già ci occupammo. Una di quelle ecloghe drammatiche così care al Rinascimento, che furono i veri incunabuli del dramma pastorale (1) , suppone ragionevolmente il D'Ancona (2) che fosse la Semidea del cod. Estense. Nel 1495 Niccolò fece rappresentare in Milano una « fabula che se lege in lo Inamoramento de Orlando , de << Hippolito , Teseo et Florida , quale fu conducta con gran or- « dine » (3). Non è ben certo se fosse cosa sua o d'altri, giacchè il Correggio non valeva meno come ordinatore di spettacoli di quello che come compositore. Nell'Archivio di Modena (4) v'ha una lettera di Niccolò al Duca di Ferrara, in data 28 febbr. 1492, nella quale si scusa di non poterlo accompagnare nel viaggio di Roma, essendo impegnato in Milano per due carnevali, il romano e l'ambrosiano, dovendo eseguire pel primo una farsa in casa sua e pel secondo ordinare alcune cose pel sig. Ludovico. Nel 1499 lo vediam accorrere alle solenni rappresentazioni che diede Ercole I in Ferrara (5) . Nel carnevale del 1506, tra molte altre baldorie, si recitò in Ferrara un' ecloga sinora ignorata , di cui fu certamente ordinatore, forse compositore il nostro Niccolò. La relazione Paolo da Legnago aggiunge alla notizia surriferita: « Adi 25 ditto (genn. 1487) << fu recitata la comedia di Amphitrione per le nozze del M.co Annibale < de' Bentivogli in madona Lucretia , figliola dell' Ill.mo Ducha Hercule. « Adi 26 ditto el Duca di Ferrara andò a Bologna alle noce de la sud. << sposa, accompagnata da M. Nicolò da Corezo cum grande nobilitade ». (1) Chi meglio sinora ne ha parlato è VITT. Rossi, Battista Guarini e il Pastor Fido, Torino, 1886, pp. 166 sgg. , ma ci associamo al voto del D'Ancona che qualche bravo giovane prenda ad occuparsene di proposito. Sarà la migliore preparazione al libro che sul dramma pastorale prepara lo Stiefel. (2) Origini ', II, 70 n. (3) Vedi le nostre Relaz. d'Isab. con gli Sforza, p. 108 n. e anche D'ANCONA, Origini 2, II, 366 n. Isabella Gonzaga assisteva a quelle feste. Si era recata a Milano nel genn. '95 e Niccolò l'aveva incontrata a Cremona ed accompagnatala a Milano. Relazioni, p. 105. Se veramente la rappresentazione fu tratta dall' Innamorato, è da credere che si mutassero i nomi dei personaggi. (4) Principi esteri, Cart. Correggio. (5) Diario Ferrarese, in R. I. S., XXIV, 361. NICCOLO DA CORREGGIO 263 che ne dava ad Isabella Bernardino Prosperi, il 5 febbr. di quelPanno, va riportata per disteso: Ill.ma Madama ... Luni a sera nanti cena fo facto et recitato l'Egloga quale me condussi a vedere per poterne scrivere qualche cosa a la S. V. in summario. Il principio suo doppo la sonata di piffari fò uno mato che usite a sono de uno tamburino cum acti moreschi, poi uno Mercurio notificando Alcide godere in celo fra li Dij del figliolo stabellito Duca ne la sedia sua, anunciandogli pace cum il ramo de oliva che 'l portava et de non havere a temer più carestia ni peste , et confortandolo a piaceri et festegiare cum la consorte sua de la quale dixe laude , promettendogli come verace pronosticatore uno novo Alcide. Veneno poi alcuni pastori de li quali uno imberbe vilipendendo Cupido et dicendo non credere ni haver tema de le force sue, et l'altro contrastando cum epso, et nel passare de una Nympha fo preso talmente de l'amor suo che abandonete il compagno et la cura de la grege sua et andoe errando gran tempo per monti et boschi per ritrovare dicta Nympha. Tandem ritornato et vestito cum habito pur da pastore ma de più lezadria et essendo correpto dal patre et confortato a lassare la impresa che ' l ne faria sacrificio a li Dij ritornete pur ad investigare le pedage de la Nympha. Il sacrificio fo facto per il vecchio cum una columba et odori et cantato per quatro pastorelle intorno al sacrificio. Et qui finitte il primo acto. Nel secundo ritornete lo inamorato pastore cum certi altri desperato de la Nympha quale da ogni banda il fugiva, et lo vecchio cum una coppa dimostrandogli haver havuto da una incantatrice una bevanda da liberarlo dal dicto amore et passione ; datagli la bevanda cum ragione persuasive venne in angonia et cadete in terra et adormentosse. Supravenne doppoi la incantatrice cum una altra bevanda quale dixe multe cose de l'arte sua et dove et in che modo l'haveva imparata , et inclinata a questui che dormiva cum scongiuramenti gittoli in facia et supra il focho de la compositione che la teniva in mano, quale subito butoe focho for del corpo et salite in pedi laudando li Dij et lei d'esser liberato , et persuadendo a le brigate a non intrare in tal passioné et da lui pigliare lo exemplo. Intratanto vene uno Appollo sonando la lira, quale lo sequia uno leone , uno orso et un altro animale artificiosamente facti. Et mentre sonava usite alcune Nymphe quali lo percossino et retirolo fra loro. Lo soggetto de questo non lo intesi, se non fosse stato per la gratia concessa a le force de la incantatrice. Questo tuto fo facto in dui acti , et lo primo intermezo fo de lire grande sonate da octo persone, l'ultimo di fiauti cum una callata in fine quale ballete uno cum acti 264 LUZIO-RENIER moreschi et cum tochar de multi sonagli che ' l teniva intorno cum tanta misura et gallantaria quanto pensar se possa. Et qui se fece fine. Le brigate convidate al spectaculo andorno a cena a casa loro, l'altre da ballare restorno a pigliar piacere fina presso al di. Questa cosa fo governata per m. Nic. da Correzo et credo anche composta per la magior parte per lui perchè in vero in quelle force de amore passione et vanità ricitate ge era moralità et notabili dicti assai ... Dev. servo Bern.no de Prosperi. Non va in fine trascurato come da varî eruditi si ritenga ora probabile che sia opera del Correggio la prima versione italiana dei Menecmi, che rappresentata la prima volta in Ferrara nel 1486 ebbe poscia tanta fortuna sulle nostre scene cortigiane della fine del sec. XV ( 1 ) . Quella traduzione (o meglio riduzione), conservataci, a nostra notizia, da due codici (2), non è certo bella, ma se appartiene a Niccolò , attesta pur sempre in lui una intraprendenza non piccola nel porre sulla scena, tra i primi, un'opera di Plauto tradotta , ed insieme anche una non mediocre cultura classica. Di questa è pure indizio il fatto che il 17 febbr. 1503 Niccolò chiedeva di ritorno alla marchesa una « tragedia << di Seneca intitolata Troas » che le aveva prestata (3). ALESSANDRO Luzio -RODOLFO RENIER. (La fine nel fascic. prossimo). (1) Primo a supporre che quella versione fosse da assegnarsi a Niccolò fu A. CAPPELLI , Lettere di Lor. de' Medici , in Atti e mem. di Parma e Modena, I, 319. La sua ipotesi fu appoggiata dal D'ANCONA, Orig. ", II, 128 e dal SAVIOTTI, Pandolfo, p. 130. Si veda una nostra obiezione, fondata su di un sonetto del Bellincioni, nell'artic. cit. Del Bellincioni, p. 15 n. (2) L'Estense X. *. 34 ed il Sessoriano 413 della Vittorio Emanuele di Roma (cc. 34-57). Da quest'ultimo noi riferiamo, per saggio, il prologo e le prime scene nella nostra Appendice III . Non ci fu dato fare il confronto con le rarissime stampe venete, che si vuole contengano la medesima traduzione. (3) La lett. è nel Bibliofilo, VII, 37. CARLO CANTONI UMORISTA E FAVOLEGGIATORE DEL SEC. XVIII Vernon Lee nel suo libro geniale П settecento in Italia (1) lamenta la dimenticanza in cui sono stati lasciati uomini e cose del settecento italiano, a differenza di quel che fu fatto per gli uomini e per le cose del settecento inglese, francese e tedesco. A questo giusto lagno ha fatto eco recentemente, fra gli altri, il Carini nella prefazione al primo volume della sua opera L'Arcadia dal 1690 al 1890 (2), in cui sono raccolte copiose notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori dei primi anni del secolo XVIII. Anche per il settecento adunque, chiamato per dileggio il secolo Za dell'esilità, dell'infiacchimento e delle insulse pastorellerie, è cessato l'incurante disprezzo, indegno dello storico, per dar luogo allo studio diligente e imparziale, alla ricerca laboriosa e spassionata, che ci condurrà alla conoscenza intera e sicura di quel periodo della nostra vita civile e letteraria , e ci permetterà di darne un giudizio non unilaterale e soverchiamente rigido , ma comprensivo ed equo. Non mi si accuserà quindi, spero, di voler tentare un'inopportuna ed inutile esumazione, se m'accingo a discorrere di un fecondo e modesto verseggiatore della prima metà del secolo passato, che ebbe lodi dal Baretti, al quale fu maestro di sano gusto (1) Milano, Dumolard, 1881 , vol. II, pp. 323, e seg. (2) Roma, Cuggiani, 1891 , p. xii. 266 G. MALAGOLI letterario, e le cui rime, dettate con rara facilità e naturalezza e sparse di spontanei e piacevoli sali , non sono senza importanza per la storia della produzione letteraria di quel tempo. I. Giuseppe Baretti, nelle Stanze al padre Serafino Bianchi (1), racconta che a sedici anni (1735), lasciata la casa paterna, si recò a Guastalla, dove, come egli stesso dice, Di soggiornar duoi anni e piú mi piacque, Che un tal dabben vecchio onorato e piano Colà d'ammaestrarmi si compiacque, Un cammino additandomi con mano, Che tutto sparso di purgata luce All'immortalità gli uomin conduce ; e dichiara in nota (2) che questo « dabben vecchio » fu Carlo Cantoni, « uomo eruditissimo ». Quasi tutte le biografie del Baretti parlano dell'amicizia col Cantoni e degli utili ammaestramenti che questi diede al giovine. Primo il Mazzuchelli (3) ci narra, che il Baretti a Guastalla <<< contrasse amicizia con Carlo Cantoni, il quale conosciuta l'ot- <<< tima disposizione che il giovane aveva per la poesia, non cessò << mai d'esortarlo a secondarla con applicarvisi seriamente. Laonde <<< mosso dall'autorità di si valente poeta, vi si applicò con tutto << il calor possibile, e in pochi mesi sotto la scuola del Cantoni << fece mirabili progressi ..... Egli fu poi udito più volte dire che << dal detto Cantoni imparò a distinguere i buoni da' cattivi au- <<< tori di nostra lingua, e che tutto il buon gusto, che aveva acqui- << stato nella poesia toscana , era soltanto frutto della conversa- << zione di lui ». Altri curiosi particolari intorno al Baretti e (1) Opere, Milano, Mussi, 1814, t. IV, pp. 161 e sgg. , stanza III . (2) Loc. cit. , nota 2. (3) Gli scrittori d'Italia, Brescia, Bossini, 1758, vol. II, p. 1, p. 346. CARLO CANTONI 267 al Cantoni sono contenuti in una lettera di Carlo Antonio Tanzi, riportata dallo stesso Mazzuchelli (1 ). Il giovane Baretti era stato allogato da un suo zio, che dimorava in Guastalla, come scritturale nel negozio dei signori Sartoretti (non Sanguinetti, come per errore di memoria scrisse il Tanzi, e con lui i biografi successivi). In quel negozio era pure impiegato da tempo il Cantoni, il quale << voleva ne' giorni di spaccio dettare al Baretti le let- << tere, ed ei, che non sapeva chi il Cantoni si fosse, se ne sde- « gnava e diceva di sapere scrivere da sẻ; di che il buon vecchio, << compatendo alla gioventù del Baretti , si tacque. Passato indi << qualche tempo, accadde che in un giorno d'ozio cavò il Cantoni « un suo libro di Rime, e lo diede a leggere a' giovani di quel <<< negozio. Volle anche il Baretti vederlo, nẻ sapendo l'autor di << esse, lodolle assai : alla qual lode volendo il Cantoni per umiltà << opporre, diceva che non valevano nulla ; anzi vagliono assai, << replicava il Baretti, ed ella che non sa di poesia si dovrebbe < star zitto. Proseguí una tale scena in equivoco per buono spazio << di tempo; poi essendosi finalmente il Baretti assicurato che << quelle erano poesie del Cantoni : Signor Cantoni, gli disse, la << mi scusi se l'ho creduta finora un minchione ; d'ora in avanti << sarà contenta di dettarmi le lettere ». Il Custodi (2), il quale conferma quanto dice il Mazzuchelli e riferisce pure l'aneddoto narrato dal Tanzi, aggiunge che il Baretti quando gli fu annunziata la morte del Cantoni , cosi , condolendosene , si espresse con un comune amico : « Tu hai per- << duto un amico in quel Carlo Cantoni, che il simile non troverai « piú..... Di quella sorte d'uomini il mondo ne ha sempre avuti pochi , avvenendo assai di rado che tanta bontà si congiunga << con tanto sapere in un solo individuo »; e il medesimo Custodi aggiunge ancora, che l'amicizia del Cantoni procurò al Baretti quella di Vittore Vettori , mantovano , dotto medico e gioviale (1) Loc. cit., nota 3. (2) Memorie della vita di Giuseppe Baretti, in Scritti scelti ined. o rari di G. B., Milano, Bianchi, 1822, vol. 1, pp. 55 e seg. 268 G. MALAGOLI verseggiatore , di cui si ricorda tuttora un capitolo sulla follia, che il Cantú (1) chiama « carissimo per naturalezza ». Ma null'altro che lodi generiche e l'attestazione della stima del Baretti e dell'amicizia col Vettori , si rileva dai passi degli autori citati, intorno al Cantoni e all'opera sua. Più determinate, se non sempre copiose ed esatte, sono le notizie che di lui diedero il dott. Francesco Albertoni , suo pronipote , nella Lettera premessa alla raccolta delle poesie del Nostro (2), il Quadrio nella Storia e ragione d'ogni poesia (3), il Tiraboschi nella Biblioteca modenese (4) , l'Affò nella Istoria della città e ducato di Guastalla (5) , il Lombardi nella Storia della letteratura italiana nel secolo XVIII (6) ; e altre io potei raccoglierne da manoscritti e da carte inedite nella Biblioteca Maldotti di Guastalla e nella Comunale di Novellara. II. Nel frontispizio dell' edizione di Milano già citata si legge : Poesie di Carlo Cantoni di Guastalla ; e guastallese è pure detto il Cantoni in parecchi altri luoghi. Ciò potrebbe far credere ch'egli fosse nato a Guastalla o che appartenesse a famiglia originaria di questa città . Né l'una cosa, né l'altra. Il Cantoni stesso ci fa sapere, che nacque « in rimoto, ma gentil paese » tra Guastalla e Correggio (7), e questo « rimoto » e « gentile » paese fu, (1) Storia della lett. it. , Firenze, Le Monnier, 1865, p. 455. (2) Milano, G. Richino Malatesta, 1752. (3) Milano, Agnelli, 1752, vol. VII, pp. 97 e 271. (4) Modena, Società tipografica, 1781 , t. I , p. 387. (5) Guastalla, R. D. Stamperia, 1787, t. IV, pp. 13, 47 e 81. L'AFFò forní le notizie sul Cantoni al Tiraboschi per la Biblioteca modenese , e scrisse sul medesimo argomento a Girolamo Colleone di Correggio , come appare dalle Memorie di Carlo Cantoni , in Memorie mss. di Guastalla, raccolte da CARLO GALVANI, che inedite si conservano nella Biblioteca Maldotti di detta città. (6) Venezia, Andreola, 1832, t. V, p. 111. (7) Poesie, ed. cit., t . I, p. 7. CARLO CANTONI 269 - - senza alcun dubbio , Novellara , come è provato , oltreché dalle attestazioni dell'Affò e del dr. Giuseppe Taschini , novellarese, che del Cantoni dettò una biografia inedita (1), da documenti del tempo, quali la patente dell'Accademia dei Muti di Reggio, alla quale il Nostro fu aggregato nel 1722, la raccolta delle rime in morte del gatto del Balestrieri, e i libri battesimali di Novellara, dai quali risulta che nacque in questo paese il 14 ottobre 1674, dai coniugi Giacomo Cantoni e Francesca Vezzadini, novellaresi (2) . Carlo fece i primi studî letterarî nel paese nativo sotto la direzione dei gesuiti, che, col favore dei conti Gonzaga, avevano fondata una casa di probazione e aperte scuole in Novellara. Ma giovanissimo ancora aveva appena 13 anni (3) dovette abbandonare le scuole e le lettere per addestrarsi , come dice l'Albertoni (4) , « in negozi e in professioni ... lontanissime dalle << cognizioni scientifiche ed opposte (dirò cosi) come per dia- <<< metro all'esercizio della poesia »; a tal fine si acconciò con un ricco mercante di Brescia, e stette in questa città diciassette anni. Anche in mezzo agli affari di commercio però egli non neglesse i suoi diletti studî, e nei pochi momenti di libertà continuò, senza alcuna guida , la sua educazione letteraria. Vecchio , era solito dire che non aveva « mai saputo nella sua gioventú cosa fossero << divertimenti (5) » ; e convien crederlo, perché, senza veglie e fatiche, non sarebbe riuscito certamente , con la sola istruzione avuta nelle scuole, a scrivere lodate poesie italiane e latine ed a meritarsi dal Baretti la lode di uomo eruditissimo. E convien (1) È inserita nelle Memorie istoriche mss. di Novellara del canonico VINCENZO DAVOLIO, t. III, pp. 189 e segg. (2) Questi possedevano in Novellara due case : l'una nella Contrada Lunga, oggi segnata col n. 28, ove nacque il Nostro, l'altra in villa Borgazzo (TASCHINI, Biografia cit. , loc. cit.). (3) ALBERTONI, Lettera cit.; GALVANI, Memorie mss. di Guastalla, vol. I, p. 200. Che il Cantoni a 13 anni abbandonasse gli studî e il paese nativo, è affermato anche in una postilla di carattere dello storiografo novellarese Vincenzo Davolio, che si legge nell'esemplare delle Poesie del Cantoni (t. I, p. 7), posseduto dalla Biblioteca comunale di Novellara. (4) Loc. cit. (5) ALBERTONI, loc. cit. Giornale storico , XXI, fasc . 62-63. 18 270 G. MALAGOLI pure ammettere, coll'Albertoni, che egli fosse fornito da natura di un certo acume, che lo aiutasse a discernere i buoni dai cattivi modelli poetici ; se, quantunque nato, come egli dice, In un secol di gusto depravato (1), poté formarsi uno stile naturale , ugualmente lontano cosi dalle gonfiezze dei marinisti, come dalle leziosità arcadiche. Forse questa necessità, in cui si trovò, di far da sẻ, fuori del convenzionalismo di ogni scuola, giovò a dargli l'impronta di verseggiatore originale e spontaneo. Da Brescia si trasferi a Guastalla presso i signori Sartoretti, ricchi commercianti , che lo nominarono agente della lor casa, << dove si amministrava la tesoreria ducale e l'appalto di tutti << gli effetti camerali (2) ». III. Guastalla, sul principio del secolo XVIII, godé alcuni anni di pace e di vero splendore. Il duca Vincenzo Gonzaga , che mori nel 1714, era riuscito, usando fermezza e prudenza, ad ampliare i suoi possessi (3) . Gli succedette il figlio Antonio Ferdinando, che, avendo ereditate dal padre molte ricchezze, poté largheggiare in munificenze e liberalità. Speravano allora i Gonzaga di Guastalla di poter estendere il loro dominio anche sul ducato di Mantova; e pare inoltre che Antonio Ferdinando vagheggiasse un connubio colla figlia del principe Iacopo Sobieski di Polonia, Maria Clementina. Per queste speranze, le quali poi si mostraron vane, si pose mano ad abbellire di fabbriche Guastalla, che aveva sofferto danni nelle guerre della fine del secolo antecedente, e nel luogo della demolita Rocca edificaronsi case e formossi un'altra (1) Poesie, t. II , p. 232. (2) AFFò, Istoria della città e duc. di Guastalla, t. IV, pp. 47 e seg. (3) AFFò, Op. cit. , t. III, p. 298. CARLO CANTONI 271 piazza , su cui si inalzò poscia una vaga torre architettata da Cristoforo Trivellino di Parma. Sorsero pure in quel tempo a Guastalla un collegio per l'educazione delle fanciulle , alla cui istituzione concorse largamente il duca , e case di rifugio ed Orfanotrofi per maschi e per femmine, in virtú di benefiche disposizioni di benemeriti cittadini (1). Il duca Antonio nominò suo primo ministro il conte Pomponio di Spilimbergo , uomo accorto e di versatile ingegno , il quale, come dice l'Affò (2) , « dava risalto alla magnificenza del padrone, << procurando di fargli collocar i favori o in persone di alta por- << tata o in uomini valorosi e letterati ». Fiorirono in tali circostanze i buoni studî , e Guastalla , che aveva già avuto nel secoloXVII due accademie poetiche, l'una denominata degli Inesperti, l'altra degli Oziosi , ne vide istituita in quegli anni una nuova, che più delle precedenti fu chiara e rinomata. Fu questa l'Accademia degli Sconosciuti, fondata da Alessandro Pegolotti con la cooperazione del Cantoni (3) . Il Pegolotti, nato a Guastalla il 19 ottobre 1667 (4), aveva già fatto parte dell'Accademia degli Oziosi, istituita nel 1696 (5) , ed era pastor arcade, ascritto alla Colonia Crostolia , col nome di Orialo Minieiano (6). Amico del Crescimbeni, del Martelli, dello Zeno, del Vallisnieri (7) , s'era acquistata bella fama co' suoi versi, fra cui un lodatissimo ditirambo sul vino (8) . Nella sua casa, fornita di ricca biblioteca, si raccoglievano le più colte e studiose persone del luogo « affin di udire letterarie curiosità, e legger (1) AFFò, Op. cit., t . IV, pp. 3 e segg. (2) Loc. cit. (3) TIRABOSCHI, Bibl. mod. , loc. cit. (4) NEGRI, Vita del cav. Alessandro Pegolotti, ms. inedito, nella Biblioteca Maldotti di Guastalla. (5) AFFò, Istoria cit ., t. III, p . 224. (6) Vedi Elenco degli Arcadi in CRESCIMBENI, Storia della volgar poesia, Venezia, Basegio, 1730, vol. VI. (7) AFFÒ, Istoria cit. , t. IV, p. 12. (8) È compreso nella Nuova scelta di poesie (Scelta di canzoni) di TEOBALDO CEVA, Venezia, Bassaglia, 1784, pp. 522 e segg. 272 G. MALAGOLI << libri usciti di fresco alla luce »; e in tali conversazioni incominciarono i radunati a « recitare ad arbitrio i loro componimenti << sopra diverse materie tessuti, all'uso degli Apatisti di Firenze, << colla facoltà a ciascheduno di esporre i proprî suoi sentimenti << amichevolmente e senza contesa » ( 1) . Cosi ebbe principio la nuova Accademia, la quale, perché tenuta dapprima privatamente, si chiamò degli Sconosciuti, e pigliò per impresa l'immagine del fiume Po, dalla cui urna escono acque correnti tra verdi selve, col motto Virgiliano : Flumina amem sylvasque inglorius (2). Le circostanze stesse , in mezzo alle quali l'Accademia sorse, rendono difficile stabilire in qual anno essa fosse fondata ; solo si può affermarla già istituita nel 1724, poiché in quell'anno fu pubblicata la prima raccolta di poesie degli Sconosciuti, in onore del padre Romualdo da Parma, oratore sacro. La detta raccolta, edita dal Giavazzi in Guastalla, contiene componimenti di undici autori , e si apre con versi del Pegolotti , a cui tengon dietro cinque poesie italiane e una latina del Cantoni ; non si parla in essa, a dir vero, né di Accademia, né di Sconosciuti, ma sono più che sufficienti le testimonianze del canonico D. Giuseppe Negri (3) , che pure faceva parte dell'Accademia e collaborò alla raccolta, e del Giornale de' letterati di Venezia del 1724 (4) , in cui si dà notizia della pubblicazione , per ritenerla opera degli Accademici guastallesi. Ben presto l'Accademia, a cui non mancò il favore della Corte, crebbe di pregio, e vi furono aggregati anche forestieri. Gli Sconosciuti tenevano l'ordinaria loro riunione una volta l'anno in carnevale ; e in occasione di nozze illustri o di pubbliche feste davano alla luce raccolte di versi , come quella di cui si è già parlato. Di queste raccolte a stampa se ne conservano otto nella Biblioteca Maldotti di Guastalla, pubblicate dal 1724 al 1747. Due fra esse si compongono di un sonetto proemiale dedicatorio a rime (1) NEGRI, Ms. cit. , pp. 93 e segg. (2) NEGRI, Ms. cit., loc. cit. (3) Ms. cit. , loc. cit. (4) Venezia, Hertz, 1724, t. XXXVI, p. 349. CARLO CANTONI 273 libere, più quindici sonetti « coronali », intrecciati in modo che l'ultimo verso di ciascuno divien il primo del sonetto che segue, e l'ultimo sonetto è formato col primo verso dei quattordici antecedenti. In tutte queste raccolte si trovano numerose composizioni del Cantoni, il quale fu uno degli ornamenti principali dell'Accademia. Fra gli Sconosciuti egli era chiamato Il piacevole, nome desunto molto probabilmente dalle qualità del suo ingegno. Quando nel 1736 mori il Pegolotti , chiamato nella sua Accademia , per la bontà dell'animo e la cortesia dei modi, Il compiacevole, gli Sconosciuti riuniti in assemblea il 14 gennaio , tre giorni dopo la morte del loro capo, stabilirono di celebrare in onore di questo un'accademia nel giovedi di mezza quaresima, e incaricarono il Cantoni e il Negri di rivedere i componimenti degli altri accademici (1) ; di tali componimenti si fece poi una raccolta, in cui figurano i nomi di ventisei accademici, pubblicata per le stampe nello stesso anno. Dal Cantoni fu pure dettata per il Pegolotti, di cui era amicissimo, l'iscrizione sepolcrale latina (2). Dopo la morte del promotore dell'Accademia, il Cantoni, come appare da una sua canzonetta (3), esortò i compagni a continuare l'esercizio poetico ; e nell'anno 1739 , avendo deliberato gli Sconosciuti di fare annualmente, oltre la solita accademia del carnevale, un'altra accademia nel mese di ottobre, fu concordemente eletto il Cantoni stesso a comporre la prefazione della prima accademia d'autunno (4) . Anche quando il Cantoni lasciò Guastalla, come si vedrà in seguito, per recarsi a Mantova, non cessò di far parte dell'Accademia guastallese , a cui mandava composizioni. Fra gli Sconosciuti poi egli contava i suoi migliori amici, quali ad esempio il Negri, più volte citato, che era detto in Ac1 (1) Verbale dell'adunanza del 14 genn. 1736 degli Accademici Sconosciuti, steso dal segretario Francesco Brugnoli ; nella Biblioteca Maldotti. (2) NEGRI, Ms. cit. , p. 107. (3) Poesie, t. II, p. 11 . (4) Verbale dell'adunanza del 30 maggio 1739. 274 G. MALAGOLI cademia L'agevole , e la spiritosa e colta poetessa guastallese, Gaetana Secchi Ronchi , chiamata L'avvenevole, in casa della quale si solevano fare le recite e le unioni dell'Accademia (1) . IV. Il Cantoni , quantunque occupatissimo , come egli stesso dice, in casa, in negozio, in foro e in corte (2) , scriveva, rubando le ore al sonno (3) , moltissimi versi, che ne resero chiaro il nome anche fuori di Guastalla. In fatti nel 1722, come si accennò sopra, egli fu aggregato all'Accademia dei Muti di Reggio, e non molto dopo fu inscritto nell'albo degli Arcadi col nome di Cidaspe Archemoriaco , come si apprende da un sonetto da lui scritto in quest'occasione (4) e da una sua lettera latina del 10 dicembre 1728, diretta al padre Tommaso Ceva (5). In questa lettera, che può dirsi un brano autobiografico, e che è scritta parte in prosa e parte in esametri, il Cantoni racconta che, trovandosi in Mantova, aveva avuto in dono , da un fratello del Ceva, il poema Puer Jesus insieme con le Selve e le Dissertazioni del suddetto padre. Letto l'apologo De muribus et fele , che fa parte delle Selve, volle tentarne la parafrasi in versi italiani , e questa, mandata dal Pegolotti al Crescimbeni , come saggio dell' ingegno poetico dell'autore, gli procurò l'ammissione in Arcadia. Il padre Ceva , che non conosceva il Cantoni, quando lesse quella parafrasi << non ebbe difficoltà a dire pubblicamente , come attesta << l'Albertoni (6) , che sembrava aver esso tolto dal nostro au- <<< tore il seme di quell' apologo , non già esserne stato questi il « traduttore ». Fu pure ascritto all' Accademia dei Filodossi di (1) Verbale dell'adunanza del 14 gennaio 1736, già cit. (2) Poesie, II, 202. (3) Poesie, II, 171. (4) Poesie, II, 25. (5) Poesie, I, 169 e segg. (6) Lettera cit. CARLO CANTONI 275 Milano , come si rileva da una sua canzonetta all' abate Pietro Maderni (1) , e a quella de' Timidi di Mantova. Pei bisogni del negozio il Cantoni faceva spesso viaggi fuori di Guastalla (2) . Fu per qualche tempo a Milano, dove ebbe il piacere di sentir lodata « da' più saggi pastori » l'Accademia degli Sconosciuti. Ma la vita chiassosa della città non gli piaceva, e, com'egli si esprime, ... il civile onorevole tumulto D'encomî, che sonavami d'intorno, Piú che un applauso mi parea un insulto ; e tornando a Guastalla esclama : Oh come volontieri ora ritorno Alla mia solitudine sí cara In queste valli, dove ho il mio soggiorno (3). Nel gennaio del 1729 fu a Novellara donde scrisse agli amici di Guastalla un capitolo giocoso , narrando le avventure del suo viaggio e la traversata in barca del « posticcio mar », formato dalle acque dei fiumi, che avevano rotti ... i ripari fatti a suon di squille (4). Più spesso si recava a Mantova, dove aveva anche parenti ; ivi fu ammalato nell'agosto del 1732 , come appare dal seguente sonetto, che trovasi manoscritto, con la data di Mantova, 25 agosto 1732, nella Biblioteca Maldotti : Vivere d'acquacotta e di brodetto E d'un paio e non più d'ova incerate, Dimenarsi e cercar freddo pel letto, Che per lo piú non trovasi d'estate ; (1) Poesie, II, 202 e seg. (2) Poesie, II, 207. (3) Poesie, II, 156 e seg. (4) Poesie, II, 235 e segg. 276 G. MALAGOLI Con barba lunga quindeci giornate E d'argenteo color puro e perfetto, Colle guance magrissime e scarnate, Coll'appetito di quel che è interdetto ; Con in capo i pensier dei dí felici Delle pesche, de' fichi e de' meloni, Meditar il soffitto e le cornici, E intanto dir pochissime orazioni, Sperando in quelle de' suoi buoni amici : Questo è quello che fa Carlo Cantoni (1). Un più lungo viaggio gli toccò fare nel 1731 quando, abbandonati per un momento gli affari del negozie , accompagnò a Vienna il conte di Spilimbergo, che, con l'assenso del Sartoretti, lo condusse seco come suo segretario. Lo Spilimbergo era allora ministro del duca Giuseppe Gonzaga, succeduto nel 1729 al defunto fratello Antonio, e, per l'accortezza sua e per la debolezza di mente del duca, poteva dirsi il vero signore di Guastalla. Per render vani gli sforzi della principessa Eleonora , sorella del duca Giuseppe e vedova di Francesco Maria de' Medici di Toscana, la quale, spalleggiata dal partito avverso allo Spilimbergo, avrebbe ambito di governare in luogo del fratello , l'astuto ministro , che era riuscito a ottenere la delegazione , per decreto cesareo, ad amministrare tutte le cose del ducato fino al perfetto ristabilimento del duca , aveva pure conchiuso un matrimonio per quest'ultimo con Maria Eleonora Carlotta di Schlewig-Holstein ; e perché non fosse nota ai parenti della sposa l'imbecillità del duca, si recò egli stesso a Vienna nel febbraio del 1731, e là, dopo esser riuscito a distogliere i genitori della principessa dal pensiero di seguirla in Italia, la sposò, come procuratore del duca, nell'aprile del 1731 (2). Il Cantoni descrive piacevolmente questo viaggio, in due canzonette e un capitolo, ad Erbistilla, nome arcadico della Secchi (1) Il medesimo sonetto , senza data e con parecchie varianti , si trova a p. 219 del t. I delle Poesie. (2) AFFò, Istoria cit. , t. IV, pp. 29 e segg. CARLO CANTONI 277 Ronchi (1). Nella prima canzonetta , che ha la data di Spilimbergo, 21 gennaio 1731, narra come lasciata Guastalla e varcato il Po , arrivassero a Borgoforte , e finge che , al passaggio del fiume, le ninfe gli chiedessero notizia della sposa. A Mantova è Vergilio che gli parla dell'Olsatica eroina » ; e a Verona domanda al << puro genio di Catullo » qualche ispirazione per le nozze del Sovrano. Indi proseguono il viaggio premuroso » e giungono a Vicenza , che ricorda al poeta l'Italia del Trissino, mentre verso Padova ei saluta da lungi « l'ombra amica » del Vallisnieri ( 2) . Da Castelfranco passano a Treviso, poi a Conegliano ; e sulle rive della Piave , antico Anasso , ecco apparire lo spirto d'Anassilla (Gaspara Stampa) : Cinto ancor di molle mirto E di rime eccelse e vive : Amorose e vive rime, Amorose rime conte, Per cui va tuttor sublime Di Collalto il degno Conte. Mentre brama di posare vede « spuntar fuor tra ramo e ramo » il campanile di Sacile; qui si fermano , ed egli è trattato come persona di gran conto : Illustrissimo, Eccellenza Qui mel bevo a tutto pasto, E n'ho tanta compiacenza Come l'asino del basto . (1) Poesie, II, 116 e segg. Il Taschini, nella citata biografia, asserisce che i versi del Cantoni , in cui è descritto il viaggio di Vienna , sono diretti < alla Luisa Bergalli, che trovavasi allora in Guastalla e che fu poi moglie < del celebre conte Gaspare Gozzi » ; qui è manifesto l'equivoco : la Bergalli fu senza dubbio a Guastalla e conobbe il Cantoni, come appare da parecchie poesie del Nostro e specialmente da un capitolo, scritto da Mantova, la notte del ferragosto 1730 , al Pegolotti (Poesie, II, 96) ; ma il suo nome arcadico era Irminda Partenide non Erbistilla. (2) Il dr. Antonio Vallisnieri, scandianese, professore a Padova, era stato a Guastalla nel 1729 per curare il duca Giuseppe Gonzaga (Poesie, II, 200, 207) . 278 G. MALAGOLI Riprendendo il viaggio giungono a Spilimbergo, che gli rammenta Irene, poetessa e pittrice; e la canzonetta finisce. Nella seconda, scritta da Vienna il 10 febbraio , il Cantoni continua a narrare il viaggio da Spilimbergo alla capitale dell'impero. Varcato il Tagliamento e giunti a Codroipo, si rinnova la posta, che li conduce sulla sera, con la neve e una fiera tramontana , a Palmanova, dove cessano i dominî della repubblica veneta e incominciano gli austriaci. Il forte di Gradisca fa riparo al confine , e ivi vicino si traversa « il Lisonzo verde chiaro... ». Vien Gorizia al piano posta Città bella presso il colle, Ch' ha il castello sulla costa Che a difenderla si estolle. Qui si perde quasi affatto Il linguaggio italiano, Qui si sente tutto a un tratto Un miscuglio molto strano. Qui d'Italia, qui d'Illiria, E il parlar furlano e schiavo, Di Carintia e della Stiria : Chi l'intende è un uomo bravo. Qui non vedesi piú mai Né camino, né pur fuoco, Ché i deserti focolai Alle stufe danno il loco. Qui di freddo ognor si trema Per le nevi d'ogni intorno, E qui cangiasi sistema Sino all'ore, sino al giorno. L'ampia strada qui si prende Or per monti o per pianura, Che magnifica si stende Sin di Vienna all'alte mura . . . Con sei poste lunghe e lente Per montagne e neve immensa Arriviamo finalmente A Lubiana a notte densa. Loda la signorile Lubiana, colonia arcadica ; donde , sempre in mezzo alla neve, arrivano a stento a Gratz, Città bella, città vasta, Qui frequentansi le scuole E per fabbriche e per sito E i bei studî e l'arti amene, E per gente, cui sovrasta Un castello ben munito. E Minerva qui si cole Qual facevasi in Atene. Finalmente, con altre dodici poste, giungono alla meta. Stassi Vienna sul Danubio Capo augusto dell'impero, E può dirsi senza dubbio: Qui ristretto è il mondo intero ... CARLO CANTONI 279 La città, che pur è grande, Un gran popolo comprende ; Ma da tutte le sue bande Ne' subborghi poi si stende. Per le vie nota un « miscuglio » tumultuoso di maschi e femmine, che non si soffrirebbe in Lombardia. Poco o nulla intende il linguaggio, e dice che non avrà mai coraggio « di saper parlar << tedesco » ; anzi da buon lombardo non si vergogna di tacere, e parla solo , con molta prudenza , quando il bisogno lo sforza. Non gli va a sangue il contegno degli uomini « disgradevoli » ; le donne in vece gli sembrano amabili e ne loda la bellezza. Il viaggio era durato quasi tre settimane, ed egli lo riassume Con dir solo: Sempre monti, Sempre freddo e sempre neve. Il capitolo poi fu scritto pure da Vienna il 3 marzo , per replicare a una quarta rima , che la Secchi Ronchi gli avea diretta da Guastalla in risposta alla prima canzonetta (1) . In esso manifesta il desiderio di ritornare in patria e di rivedere gli amici : Qui non si può co' piedi andare a spasso, Che la neve ha lasciato un fango immenso, E la carrozza costa ad ogni passo. Qui sempre il cielo è nubiloso e denso, Il freddo mai non cessa e tira il vento, Ed io me ne sto in casa e non ci penso. Che di star solitario io son contento , Perché il pensier piú libero sen vola Costà, dove il mio amor ha il suo fomento. Cosí da lungi la memoria sola Che di voi serbo, e de' miei cari amici, Mi ricrea, mi diverte e mi consola. Spero intanto che il ciel con fausti auspici Ricondurrà nella stagion novella I giorni piú giocondi e più felici. E noi verrem colla real Donzella In compagnia del gaudio e della speme A far la patria nostra assai piú bella. (1) È inserita nel t. II delle Poesie del Cantoni, a p. 123. 280 G. MALAGOLI E spero che verrà la pace insieme A far la nostra Italia ognor tranquilla, Che dal timor, dal danno afflitta or geme. La speranza di pace per l'Italia non era che un pio desiderio dell'animo buono e mite del Cantoni ; ché nulla si poteva sperare dalle subdole arti della diplomazia di quel tempo, la quale non aveva riguardo a diritti e tutta si reggeva su meschini intrighi. In fatti, due anni dopo, nel 1733, le truppe francesi, condotte dal maresciallo Villars , e quelle del re di Piemonte, Carlo Emmanuele III , con l'aiuto anche degli Spagnuoli collegati coi Gallosardi contro l'Austria, invasero la Lombardia. La corte di Guastalla, vedendosi in pericolo , si trasferi a Venezia ; quasi subito dopo la città fu occupata , e subí devastazioni e saccheggi , che il Cantoni descrive in una poesia composta per la morte del Pegolotti (1). Nel 1736, essendo state sospese le ostilità, la corte ducale ritornò a Guastalla, e tale ritorno segnò la fine della potenza dello Spilimbergo, perché la giovine moglie del duca, incitata dai cortigiani, nel tempo della sua dimora in Venezia , a odiare il ministro come un despota, che comandava su tutto e su tutti, senza aver riguardo nẻ a lei , né al marito, cominciò in segreto a scalzarne il potere , sminuendone il prestigio presso la corte imperiale (2). Lo Spilimbergo , prevedendo la sua prossima caduta, chiese all'imperatore di lasciare il governo di Guastalla ; le sue dimissioni furono accettate nel settembre del 1738. Egli continuò tuttavia a reggere interinalmente gli affari fino all'aprile del successivo 1739 , in cui fu confermato il suo congedo. Allora il conte , lasciata Guastalla , si recò a Mantova ; e lo seguí , come attesta l'Affò (3) , il Cantoni « suo amicissimo » : ciò avvenne nel 1740. In Mantova il Cantoni passò il resto de' suoi giorni , e prese (1) Poesie, II, 7 e segg. (2) AFFò, Istoria cit. , t . IV, pp. 74 e segg. (3) Loc. cit.' CARLO CANTONI 281 parte alle riunioni dell'Accademia de' Timidi, come si rileva da una sua lettera inedita a Francesco Bugnoli, segretario di quella degli Sconosciuti ( 1). Ivi mori l'8 gennaio 1752 , ed ebbe sepoltura in S. Barnaba (2). V. Fu visto sopra con quanto rispetto parlasse il Baretti, non solo del sapere , ma anche della bontà del Cantoni : di lui può dirsi veramente che pari alla mente ebbe il cuore. Onestissimo, andò incontro a pericoli pur di non deviare dal sentiero del giusto e del retto (3). Fu disinteressato , tantoché trascurò quelle occasioni che l'avrebbero potuto rendere « giustamente , come dice « l'Albertoni (4 ) , più comodo ed opulento » . Liberale con tutti, fu tale in ispecie coi parenti , per vantaggio dei quali si privò più volte dei frutti delle sue fatiche. Fra questi gli fu carissimo il nipote Carlo Cantoni, che sovvenne di continui aiuti, perché frequentasse la scuola di medicina a Bologna. Il giovane corrispondeva degnamente alle cure amorose dello zio , a cui somigliava oltre che per il nome, anche per l'ingegno e pei costumi. Egli pure, come lo zio, aveva amore alle lettere e faceva parte dell'Accademia degli Sconosciuti (5). Aveva già conseguita la laurea, e dava di sẻ le più belle speranze, quando lo colse morte prematura nel 1739. Tutti ne piansero la fine ; e , fra gli altri , (1) È scritta da Mantova il 3 febbraio 1741 , e trovasi nella Biblioteca Maldotti. Con essa lettera il Cantoni accompagnava un suo sonetto per l'Ac- cademia: << ...O bene o male viene un sonettuzzo per l'Accademia che è << lo stesso da me recitato ieri sera fra i Timidi. Non ho avuto né tempo, « né voglia di far altro, e molto meno il Dottorino Albertoni , che è impe- « gnato nello studio della sua professione ... ». (2) TASCHINI, Biogr. cit. , loc. cit. (3) ALBERTONI, Lettera cit. (4) Loc. cit. (5) Di Carlo Cantoni iuniore, fra gli Sconosciuti, Il capevole , si trovano inseriti alcuni sonetti nella raccolta delle poesie dello zio ; altri versi inediti del medesimo si conservano nella Biblioteca Maldotti. 282 G. MALAGOLI il Vettori, sotto la cui direzione il giovane si esercitava nell'arte medica, scrisse una canzone, che dedicò con lettera consolatoria allo zio, il quale era rimasto profondamente afflitto per tale perdita (1). Un'altra bella dote adornava in sommo grado il Cantoni, cioè una modestia vera , non simulata , figlia d'un animo semplice, alieno da ogni fasto e altrettanto indulgente nel giudicar gli altri quanto severo nel giudizio di sé. lo sono un poetuzzo da dozzina (2), diceva egli facendo il proprio ritratto ; e a un tale , che , scrivendogli, aveva usato con lui il titolo di Illustrissimo, rispondeva col seguente sonetto : L'Illustrissimo a me sulla coperta, E nella fronte, e in corpo, e a pie' del foglio? Questo civil di cerimonie imbroglio, Sotto specie d'onor, mi dà la berta. Tal finezza, vel dico a faccia aperta, Serbatela ad altrui, ch' io non la voglio ; Invasato non son da tanto orgoglio Sicché i titoli usurpi a chi li merta. Per dar luogo all'epiteto ammirando Nell'umil casa mia manca lo spazio ; Accoglietelo voi, ch' io vel rimando. Entrar non vo' in censura, e vi ringrazio : Troppo grave sarebbe il contrabbando Se siffatte bugie pagasser dazio (3) . Era tanta la sua modestia, che non aveva mai voluto aderire al desiderio degli amici, che lo stimolavano a dare alla luce una raccolta de' suoi versi ; anzi avendo saputo una volta che uno (1) La canzone del Vettori, a cui è premessa la lettera di dedica, fu stampata nel 1740 (Mantova, Erede Pazzoni). (2) Poesie, I, 5. (3) Mss. di rime di C. C., nella Biblioteca Maldotti . Nella raccolta a stampa (1, 157) si legge un altro sonetto, a rime sdrucciole, sul medesimo argomento. CARLO CANTONI 283 stampatore si proponeva di pubblicare parecchie sue composizioni, che gli erano state consegnate « da certo soggetto, come << dice l'Albertoni (1), cui impropriamente sorti levarle di mano << all'autore », adoprò ogni mezzo per impedire che ciò fosse mandato ad effetto . Cosicché fino all'anno in cui il Cantoni mori, di lui non avevano visto la luce che i componimenti compresi nelle raccolte degli Accademici Sconosciuti, un oratorio per musica in onore di S. Luigi Gonzaga, composto per ordine del duca Antonio Ferdinando ( 2) , e alcuni apologhi , stampati a Milano all'insaputa dell'autore. L'Albertoni vide questi apologhi « impressi << a piedi di un dozzinale libricciuolo... colmi d'errori » ; da ciò ebbe impulso a fare una raccolta completa e ordinata dei componimenti del prozio, col proposito di darli alla luce anche senza l'assenso di lui. Mentre attendeva a ciò, lo stampatore Giuseppe Richino Malatesta di Milano gli scrisse offrendogli di stampare a proprie spese tutte le poesie del Cantoni ; la proposta fu accettata, e il Malatesta diede tosto notizia agli uomini di lettere della pubblicazione che stava per fare (3). L'opera usci nel 1752, dopo la morte del Cantoni, in due grossi volumi in quarto, col ritratto in rame dell'autore, e fu dedicata dall'editore al conte di Spilimbergo. Il primo volume contiene, oltre la Lettera , più volte citata , dell'Albertoni al lettore : Ritratto dell'autore , corona di dodici sonetti ; Le glorie della padella, sproposito ditirambico, preceduto da un sonetto fidenziano di dedica allo Spilimbergo; Apologhi e altri componimenti faceti; Parafrasi di vari componimenti faceti tolti dalle Selve del padre Tommaso Ceva ( le parafrasi sono quattro : Il congresso dei topi, terza rima ; Il diavolo vestito da eremita , ottave ; I sogni , terza rima ; La rosa d'inverno , strofe libere di (1) Loc. cit. Nelle Memorie mss. di Guastalla del GALVANI (loc. cit. ) è attribuito, non so con quale fondamento, al Baretti il fatto di aver raccolte molte rime giocose del Cantoni e di averle vendute poi in Milano a G. R. Malatesta. (2) Le gare della virtú di S. Luigi Gonzaga, Guastalla, Giavazzi, 1727. (3) Novelle letterarie, Firenze, Stamperia imperiale, 1752, pp. 747 e seg. 284 G. MALAGOLI ottonarî e quadernarî) ; Componimenti divoti ; Le gare della virtú di S. Luigi Gonzaga, coronate dalla Gloria; Componimenti per varie monacazioni; Componimenti per vari predicatori; Lauree ; Versi nuziali. Il volume secondo comprende: Composizioni lugubri; Componimenti diversi ; L'infelicità dell'amor sensuale, dodici sonetti, estratti dal libro elegiaco di Benedetto Menzini : De infelicitate terreni amoris, e dedicati ad Alessandro Pegolotti ; Componimenti scritti a varî letterati (sonetti, capitoli , canzonette, poesie latine, versi maccaronici) ; Traduzione del primo libro dell'Asino d'oro di Lucio Apuleio divisa in tre canti, in ottava rima. VI. Dal prospetto sommario dei componimenti poetici del Cantoni appare che questi toccò anche le corde gravi della lira, massime cantando soggetti sacri. Non troppo felicemente però, chẻ in tal genere spesso gli fecero difetto la scelta elevata dei pensieri e la varietà ed eleganza della forma. Solo è sempre notevole la fluidità del ritmo, e talvolta anche una semplicità e veracità di concetto, a cui non disdice la quasi familiare spontaneità dell'espressione, priva d'ogni ornamento retorico : come in questo sonetto in lode di S. Francesco di Sales , che ha per epigrafe il motto biblico : Disponit omnia suaviter : La santità, che solitaria visse Fra spelonche, fra boschi e ne' ritiri Piú cupi, ove a se stessa ognor prescrisse Preci, digiuni, lagrime e sospiri, E le sue membra stranamente afflisse Co' flagelli, co' stenti e co' martirî, Prese un novello aspetto, ed : In me, disse, Idea migliore io vo' che il mondo ammiri. Allora fu ch'ella fra noi discese, Ed al Salesio eroe postasi accanto, Entrogli in cuore e sí soave il rese, CARLO CANTONI 285 Che seguendo il bel genio e il dolce incanto Per esso il mondo ammiratore apprese Piú soave la via di farsi santo (1) ; e nel seguente, inedito, composto dal poeta nella sua vecchiaia : Quale appassito fior colto dal gelo, Nelle sue foglie languido e cascante, Non si sostiene sul natio suo stelo : Tale son io, tale è il mio sembiante. Pallor, magrezza, bianco e lungo pelo, Polso sempre febbril, mano tremante, Vista accorciata, debil fiato anelo, Lena perduta e piede vacillante Dicon che di mia età venuto è il verno. Ahi rigida stagion che del mio frale Fa con tanti malori aspro governo ! Ma pur si avanzi la stagion fatale , Quella non struggerà che nel mio interno Di racchiuder mi pregio alma immortale (2). Il Cantoni stesso capiva di non esser nato per la poesia grave, e confessava che il suo stile « carnevalesco » non era adatto a « lodare i santi » (3) . Egli era portato, per una felice disposizione naturale, alla poesia giocosa, e possedeva le due principali doti del poeta burlesco, che sono , secondo il Baretti (4) , la naturalezza e il bell'ingegno o spirito , « facoltà — giusta la definizione << dell'inglese Johnson riportata dal Baretti stesso della mente << nostra che inaspettatamente riunisce idee semplici , ma dissi- « mili e distantissime , e le impasta e le incorpora cosí subito << bene insieme, che ne forma una naturalissima idea composta » . Ecco come egli dipinge piacevolmente sé stesso : (1) Poesie, I, 246. (2) Mss. citati, nella Biblioteca Maldotti. (3) Poesie, II , 133. - (4) Frusta letteraria , sulla Raccolta delle rime piacevoli di G. Santi Saccenti, in Opere, ed. cit . , t . I, p. 275. Giornale storico , XXI, fusc . 62-63. 19 286 G. MALAGOLI Uom che già vecchio arma di occhiali il naso, Poiché il fece l'età di vista corta, Che in negozî distratto ed in Parnaso Tien fra varî pensier la mente assorta, Che nel vestire, o sia costume o caso, Poco attillato , la parrucca ha storta, Che rade volte il bianco mento ha raso, Che non ha mai un quattrinel di scorta, Che volea prender moglie, e nol fe' poi , Per non partir le sue miserie in dui O per non porsi il bel cimier de' buoi, Che sempre faticò pe' fatti altrui , Né cura mai si die' de' fatti suoi, S'io non son quello, chi sarà costui ? (1) e come parla della sua liberalità : Son un uomo liberale, Che non tien denari addosso ; Ed ho il conto sempre uguale Sopra il libro del riscosso. La mia borsa sinodale È scarnata sin sull'osso , Par che i soldi abbiano l'ale, Trattenerli mai non posso. Liberale ancor più strano La poetica moneta Io sparpaglio a larga mano. Cosí d'esser niun mi vieta Liberal quanto un sovrano: Virtú questa è da poeta (2) . Ma se il poeta era amante della facezia e dello scherzo, l'uomo, come s'è visto, aveva condotta fin dagli anni giovanili una vita lontana da ogni allegra spensieratezza e dedita soltanto al lavoro e allo studio ; di qui un contrasto tra il fondo serio del suo ca- (1) Poesie, I, 1. (2) Poesie, I, 150. CARLO CANTONI 287 rattere e la giovialità dell'arte , che produsse in lui uno stato particolare dello spirito , a cui si deve l'impronta genialmente umoristica de' suoi versi. È il canto mio composto ad arabesco Di morale, di serio e di berniesco, E in somma d'uno stil fatto a mio modo. Trarmi dal capo in tal maniera io godo Quell'umor malinconico grottesco , Onde talor a me medesmo incresco ... (1). L'umorismo del Cantoni manca spesso di profondità e di finezza, ma ha pregi di popolana schiettezza e di originalità. In ciò il Nostro ha qualche contatto coi poeti dialettali , a cui s'accosta anche per il poco riguardo, che, in più luoghi, confessa d'aver avuto alla Crusca e al parlar toscano : senza Aver obbligo o riguardo Alla Crusca di Fiorenza Da lombardo In rozza canterò piana favella (2) . il nostro Il Thackeray , nel suo saggio su Swift , osserva giustamente che lo scrittore umorista « fa professione di eccitare e dirigere << il nostro amore , la nostra pietà , la nostra bontà << disprezzo dell'insincerità , della pretensione , dell'impostura << la nostra compassione verso il debole , il povero , l'oppresso, << l'infelice » (3). Se la musa del Cantoni non si propone espressamente tutto questo, è certo però che sotto l'apparenza del riso bonario essa nasconde il più delle volte l'utile ammaestramento o la riprensione arguta. E non è lieve merito per il Nostro, se si pensi che nel secolo passato l'Italia abbondò di poeti berne- (1) Poesie, I, 9. (2) Poesie, I, 18 ; I , 170 ; II , 263. (3) Saggi e riviste, vol . III : Gli umoristi, Milano, Daelli , 1865, p. 82. 288 G. MALAGOLI schi , i quali troppo spesso coi loro versi giocosi mirarono soltanto a far ridere un popolo, che aveva bisogno in vece di essere scosso dall'inerzia e dal torpore. Per la bontà e mitezza dell'animo suo il Cantoni rifuggiva dal flagello della satira, e anziché vituperare apertamente il costume corrotto amava stimolare gli uomini al bene valendosi di esempî, come fece negli apologhi : ... satyræ indulgere recuso, sub imagine tantum Vera loquor blande ... (1). Tuttavia si incontrano qua e là nell'opera sua alcuni accenni satirici , che son degni di nota anche perché fanno presentire non molto lontane le sferzate letterarie del Baretti e quelle civili del Parini. Il Cantoni ha rimproveri per « la molle Arcadia , ripiena di « folli amori » (2) , ha severe parole contro i marinisti, i pseudopetrarchisti e i giocolieri della poesia : Gli acrosticanti, gli anagrammatisti Di poesia per le campagne apriche Smunti sen vanno, dimagrati e tristi . Seco raccolgon lappole ed ortiche, Voce, voce e null'altro i marinisti, Lasciando indietro le migliori spiche. Sovente con costor si veggon misti I fiorelli sterpar con monche mani Certi erotici pseudo-petrarchisti ; E ne intreccian ghirlande in modi strani , I bisticci tirando insin co' denti, Vati non già, ma giocolieri insani (3). Si diverte poi in ispecial modo a mettere in canzone le « amo- << rose cicalate », di cui, dic'egli , è pieno tutto il mondo: (1) Poesie, I, 171. (2) Poesie, II , 224. (3) Poesie, II, 221. CARLO CANTONI 289 Par che amore il canto instilli A i pastori nelle selve, Ed il nome d'Amarilli Par che imparino le belve. Filli, Tirsi, Dafni, Aminta Son d'amore dolci nomi ... Ognuno vuol cantare d'amore, Cosicché la poesia Grande onor d'ogni accademico Divenuta è una pazzia Ch'è il peggior morbo epidemico (1). Piú caustico aggiunge : chi vuol sapere perché gl'innamorati siano inclinati al canto, ponga mente Di primavera al canto degli alati , Volanti tra le fratte ..... Poi dica in suo pensier : Se Amor guidati Ha gli augelli a cantar sí dolcemente; Se i gatti van su i tetti , e per eccesso D'amor cantan dí e notte in lor linguaggio; Se per le strade i cani fan lo stesso ; Se canta l'asinel : Ben venga maggio ! Non canterà l'innamorato anch'esso, Che sembra delle bestie un po' piú saggio ? (2) Disapprovava pure l'uso di far versi con luoghi comuni ; e all'abate Pietro Maderni, che gli chiedeva un sonetto per monaca senz'altra specificazione, rispondeva : Questi son componimenti Da non prendere l'impegno ... Dai difetti piú massicci Non si veggon mai immuni, O riescono pasticci, O lezioni de comuni. Mortua lemmata li chiama Sin l'antico Marziale ... (3) . (1) Poesie, I, 210. (2) Poesie, II, 213. (3) Poesie, II, 202. 290 G. MALAGOLI Quanto al costume , egli ha frecciate contro il cicisbeismo e Le amorose follie di nuova moda (1) ; non crede all'amor platonico , per cui la bellezza femminile è scala per salire al cielo, e su tale amore scrisse due capitoli satirici, pieni di brio, mosso dal « giusto sdegno » contro un costume, che cominciava fin d'allora a diventare « abuso reo » (2). Sulla vita nelle corti scrive : Ognun crede saper cosa sia corte, Ma pochi il sanno, e forse niun pon mente A gir per le sue vie mal note e torte. E quindi avviene che onoratamente Alla galea dannato insino a morte, Taluno ha il remo in mano e non lo sente (3). Si scaglia contro il giuoco del biribisso , e chiama i giocatori <<< stoltissimi cervelli » (4) . Schernisce la ciarlataneria di certi medici col seguente sonetto: La medicina ripartir si suole In terapeutica, in fisiologia, In semiotica, in patologia E in igiene, oh terribili parole ! In queste basi appoggiasi la mole Dell'arte incerta , a cui dà sol balia Nel mondo la stravolta fantasia Di alcun che senza mal sempre si duole. Ma il vero professor, che più perfetta Rende e lucrosa più la medic' arte, Tale division sprezza e rigetta. La ciarlataneria, che in voce e in carte Inganna ognor il volgo e lo diletta , Ei vuol per sesta e principal sua parte (5). (1) Poesie, II, 264. (2) Poesie, II, 42 e segg. (3) Poesie, I, 127. (4) Poesie, I, 154 e seg. (5) Poesie, I, 144. CARLO CANTONI 291 In un sonetto inedito, che comincia Il collegio civile e criminale Ma criminale assai piú che civile ... (1) sferza la poca onestà de' legali ; e in un altro sonetto, pure inedito, dopo aver parlato del « povero giumento », che è destinato a servire a tutti senza suo vantaggio, deplora che anche l'uomo debba servire a chi è più forte, con mercede pari a quella dell'asino (2). Il Cantoni è sincero credente, ma non bigotto ; riconosce i difetti del clero, a cui non risparmia le punture. Preti o frati lodar, voi ben sapete Che non è mio costume o mio mestiere, scriveva al Negri, chiedendogli un sonetto per l'arciprete di Castiglione delle Stiviere, e aggiungeva : Di lode in vece vi saria pericolo Ch'io facessi una qualche satiretta ... (3) . Contro le monacazioni non spontanee scrive, affettando bonomia e quasi per ischerzo : La bellezza a lei concesse Liberale la natura, Si dirà che l'interesse La serrò fra quattro mura. S'ella è brutta come un mostro Vada pure a monacarsi, Si dirà che al secol nostro Non trovò da maritarsi . La matrigna, la cognata, Il fratello, la sorella La cacciaron disperata A morir dentro una cella. Queste cose né Pasquino Me le detta, né Marforio, Ma dal buon padre Calino lo le intesi e al parlatorio (4). (1) Mss. citati, nella Biblioteca Maldotti . (2) Mss. citati. (3) Poesie, II, 130. (4) Poesie, II, 203. 292 G. MALAGOLI VII. Venendo ora agli apologhi , che sono , senza dubbio , la parte più importante dell'opera poetica del Nostro , si presenta spontanea anzitutto un'osservazione. Com'è noto, la favola in versi italiani, sciolta dal corpo di poema e formante un genere letterario a parte, può dirsi un prodotto del secolo XVIII. II Bertòla nel suo Saggio sopra la favola affermò che il Crudeli << fu forse << il primo a tentare fra noi » questa maniera di letteratura (1). Per tale testimonianza , a cui non si può dare un valore di assoluta certezza, perché il Bertòla stesso credé opportuno temperarla con un « forse », i critici posteriori furon soliti affermare che la favola in versi incominciò nel secolo passato col Crudeli (2) . Se si consideri che questi nacque nel 1703 e che il Nostro compose parte delle sue favole dal 1720 al 1730, come appare dalla citata lettera latina , scritta al padre Ceva nel 1728, non sembrerà fuor di proposito l'asserire che il Crudeli sia stato preceduto nello scriver favole in versi italiani dal Cantoni , il quale è probabile si accingesse a tal genere di componimenti, non solo per la naturale disposizione alla poesia piacevole e insieme urbanamente educatrice , ma anche per l'esempio de' favolisti latini del suo tempo , e più ancora pei consigli dati dal Muratori nel trattato Della perfetta poesia italiana, che vide la luce in Modena nel 1706 e che a lui , caldo ammiratore del ... vasto ingegno universale e raro Del gran Lamindo ... (3) non poté rimanere ignoto. Ivi si legge il seguente brano, degno di nota per la genesi della favola poetica italiana nel settecento: << Può tuttavia desiderarsi nel Parnaso d'Italia qualche eccellente << poeta, che alla guisa di Fedro , liberto d'Augusto , e d'Avieno (1) BERTOLA, Operette, Bassano, 1789, vol. III , p. 8. (2) MORSOLIN, Il Seicento, Milano, Vallardi, 1880 , p . 81. II TORRACA (Manuale della lett. it. , Firenze, Sansoni, 1887 , vol. III, p. 283) riporta il giudizio del Bertola, omettendo il forse. (3) Poesie, II, 86. CARLO CANTONI 293 << chiuda in versi alcune brevissime e gentilissime favolette. << Cosi fatto argomento fece risonare nel secolo prossimo passato <<< fra i poeti franzesi il nome del Sig. della Fontana, autore però << non modesto abbastanza per oneste persone. Ora in tali favo- <« lette non solamente io richiedo ogni possibile onestà , pregio, << che per obbligazione debbono aver tutti gli uomini d'onore ; << ma vorrei che con opera tale si spiegasse tutta o in gran << parte la Filosofia de' costumi e la pratica della vita civile. In << qualche maniera si mira ideata questa, che può chiamarsi Fi- << losofia d'immagini, nelle favole dell'acutissimo Esopo ; ed io porto << opinione che sommamente utile non men che dilettevole sa- << rebbe una tal fatica nella nostra lingua. O s'inventassero, o si << prendessero da' vecchi autori le favolette, o fossero queste apo- «< logi di bruti, d'uccelli e d'altre simili cose ; o parabole, o sto- << rielle d'azioni e ragionamenti o veri o finti : potrebbero tutte << agevolmente contenere un qualche nobilissimo insegnamento << per la vita civile e apportar maraviglioso diletto. Ma sarebbe << singolarmente necessario , che ad una vivacissima e spiritosa << fantasia si commettesse questo affare ; onde fossero le immagini << sempre mai con fecondità capricciosa inventate e con ingegnosa << forza di vivi colori espresse. E conciossiachẻ la varietà è una << possente raccomandazione di tutte l'opere belle, dovrebbe essa << farsi campeggiare in questa, col cangiar sovente soggetto e col fuggire la simiglianza delle azioni , de' ragionamenti , delle in- << troduzioni e de' personaggi. Dovrebbonsi appresso adoperare << varî stili , ora l'affettuoso, il tenero, il dolce , ora il grave ed << eroico, ora l'acuto e piccante, ora l'insegnativo e sentenzioso, «< e simili ; come pure tutti que' diversi metri, e quelle tante fogge << di versi, delle quali è feconda la nostra favella, ora sponendo << con molti , ora con pochi versi una intera favoletta ; in guisa << che l'altrui appetito non potesse mai saziarsi, ma sempre mag- << giormente dilettarsi colla varietà de' cibi e colla comodità di << cangiar saporetti » ( 1) . (1) Della perfetta poesia it. , Modena, Soliani, 1706, t. II , pp. 87 e seg. 294 G. MALAGOLI Il Cantoni seguí questi precetti nelle sue favole, che sono circa una sessantina, non comprendendovi un buon numero di componimenti, di carattere piuttosto epigrammatico e faceto, quantunque spesso tra la favola e l'epigramma vi sia, come nota il Bertòla riportando il giudizio dello Scaligero, una stretta e naturale connessione (1 ). Tanto le favole quanto gli epigrammi del Cantoni, se si eccettuino poche facezie miranti al puro diletto , contengono, espresso o tacito, qualche utile insegnamento. Anche qui si palesa l'indole arguta e bonaria del Nostro , che non la pretende a filosofo, ma ammonisce e consiglia secondo che gli suggerisce il buon senso e l'esperienza della vita. Pone in ridicolo la superbia (La metamorfosi della zucca, Il sonetto in cartoccio, La cicala d'Anacreonte, Il barbagianni in corte , Il nano superbo, Il tripode rovesciato , Il piato della carrozza e il tino), e la vitupera, dipingendola madre degli altri vizî e più specialmente dell'amor proprio o egoismo, che predomina in cuore d'ogni persona ed è ... d'una tal prava natura Che quand'egli è satollo e soddisfatto Delle indigenze altrui punto non cura (2) . Punge la leggerezza delle donne (Stravaganza della moda, La cuffia Proteo , La tonsura delle donne) , la caparbietà delle mogli (Il fico benemerilo , La virtù del capestro , Il consiglio di Socrate) e la fretta di riprender marito nelle vedove ( Le disperazioni della vedova). Avverte che la ragione deve sempre prevalere sull'autorità ( La contesa dell'autorità e della ragione), che l'apparenza non ha valore ( La barba delle capre) , che si deve cercare di compiere opere utili ( La tutela degli alberi) , che la libertà è da preferire a tutti i comodi (La gabbia e il merlo , Il topo in città) , che bisogna insegnare con l'esempio (I consigli del gambero), che è da stolto affidarsi a vane speranze ( Il pescatore contento del poco , I castelli in aria) , che (1) Saggio sopra la favola, loc. cit. , p. 17. (2) La discendenza della superbia. CARLO CANTONI 295 ognuno ha i suoi pregi ( Il cimento dell'aquila e del gufo) , che dalle stesse cose diversi prodotti si ricavano da diverse persone (Il confronto del ragno e delle api) , che son poco sicuri i patti coi più potenti (Il viaggio del leone e dell'asino) , che ciò che piú nuoce agli oppressi è il timore di alzar la voce contro gli oppressori ( Vox faucibus haesit). Altre favole sono contro il finto amore (L'asino ammalato) , contro la vanità (Il cervo al fonte) , contro gl'ingiusti vanti ( L'origine delle fontane) , contro la fumosa nobiltà e la ricchezza corruttrice ( La regina Pecunia, La Pecunia vilipesa dalla Nobiltà , Ercole veritiero) , contro l'ingratitudine (Il fiume ingrato), la millanteria (La millanteria della spada), la pigrizia ( Amor pigro), l'imprevidenza (Risposta delle formiche alle cicale), la servilità ( Le pecore da due piedi), l'invidia impotente (Il ragno invidioso) , contro l'avarizia e la prodigalità ( Recipe per l'avaro e per il prodigo) , contro i tribunali (L'ostrica in lite) , contro l'ignoranza di certi medici (1 tre ciechi) , contro l'amor cieco (La guida d'Amore) . Quasi tutte le favole del Nostro sono brevi ; tre sole : La discendenza della superbia , I castelli in aria , La tutela degli alberi, si discostano dalle altre per uno svolgimento più ampio, la prima in ispecie, che per la sua lunghezza ( 163 endecasillabi ) e per la copia delle descrizioni e riflessioni , è più vicina alla novella allegorica che alla favola. Quanto alla forma metrica il Cantoni preferi il sonetto , che trattava agilmente ; poche sono le favole scritte in altri metri : ottave , terzine, ottonarî a rime accoppiate e settenari rimati liberamente. Il Cantoni (come dichiara in più luoghi) tenne a modello Esopo : ... seguo o di seguir mi sembra almeno Il mio frigio piacevole maestro (1) . Non gli fu ignoto però il La Fontaine , di cui riprodusse ne' Castelli in aria la favola La laitière et le pot au lait ; in tutto il resto poco o nulla s'accosta alla maniera del favolista francese. (1) Poesie, I, 6, 171, 220. し 296 G. MALAGOLI Vide egli negli ultimi anni della sua vita le favole del Crudeli, che si trovano nella Raccolta di poesie di questo , pubblicata a Napoli nel 1746 ? Sembra difficile poterlo affermare ; d'altra parte se anche le conobbe, egli già in precedenza, come si disse, aveva composto la massima parte delle sue. Entrambi probabilmente si diedero a scrivere favole in versi senza che l'uno sapesse dell'opera dell'altro ; e prova ne sembra anche la diversa via tenuta, chẻ se il Cantoni si attenne al modello esopiano, il Crudeli in vece ne' suoi quattro « mirabili apologhi » come li chiama il Carducci ( 1 ), segui più da vicino il La Fontaine. Le favole del Nostro non hanno il valore artistico di quelle del Crudeli, e nemmeno l'eleganza e la pulitezza, di cui vanno adorne quelle dei posteriori favolisti del secolo XVIII. In esse tuttavia son pregi notevoli di originalità nell'invenzione e nella condotta , di sana ed elevata morale , di popolare schiettezza e vivacità di rappresentazione e di stile , di lepidezza d'immagini e di sentenze. Soprattutto le anima quello spirito bernesco, qualità principale dell'ingegno dell'autore, che gli fa perdonare l'immagine e la frase talvolta un po' basse e volgari. Eccone alcuni esempî: L'ASINO CENSORE. Un asino che avea dell'intelletto Quanto può averne un animal suo pari, Venuto alla città per suo diletto Si pose ad osservar gli umani affari. Vide le donne mettersi in assetto Ed abbellirsi che pareano altari, Vide marcire gli oziosi in letto, Vide su l'oro vigilar gli avari, Vide nel foro la legal tempesta Sbatter di qua e di là ragioni e fatti , Vide su gli altrui guai medici in festa, Vide poeti vaneggianti e astratti, Indi crollando l'orecchiuta testa : Oh che bestie, diss'egli, oh che bei matti! (1) Della poesia melica it. e di alcuni poeti erotici del sec. XVIII, in Il libro delle prefazioni, Città di Castello, Lapi, 1888, p. 193. CARLO CANTONI 297 6 IL GUARDINFANTE RIMPROVERATO. Il taffettà diceva al guardinfante: Il più bel pregio io son del sesso imbelle, Per me si adorna ogni gentil sembiante, Per me le brutte ancor sembrano belle ; Ma tu dal fianco scendi giú alle piante , Formando il baldacchino alle pianelle, E al popol delle pulci saltellante Allarghi il regno sotto le gonnelle. Che val che io tenga un po' ristretto il volto Donnesco, se tu poi dilati in fondo Il rimanente fra' tuoi cerchi avvolto ? Rispose il guardinfante : lo mi confondo, E con rossore i tuoi rimprocci ascolto, Ma che farci, fratel ? cosí va il mondo. Sgridava i figli suoi I CONSIGLI DEL GAMBERO. Un gambero vegliardo , Dicendo: Oh come tardo Avete il passo, o figli ! Su, presto, andate avanti E indietro non tornate. Ai paterni consigli Risposer tutti quanti Que' gamberelli infanti : Padre, non ci sgridate, Ma se meglio bramate Che pur da noi si vada, Fateci voi la strada. IL PREDATORE PREDATO. L'avide penne lo sparviero ingordo eo Dietro il tordo movea, che per timore Fuggia ; quand' ecco lo sparvier col tordo Incappò nella rete, e al cacciatore Dicea pregando : Io mai non mi ricordo D'averti offeso, lasciami uscir fuore. Ciò nonostante il cacciator lo prese, Dicendo: E questo tordo in che ti offese? e in tono più grave: 298 G. MALAGOLI IL FIUME INGRATO. Gonfio d'acque feconde un fiume ingrato Cosí il nobil schernia fonte natio : Tu se' scarso d'umor, povero rio, Da rupe informe ignobilmente nato ; Ed io di pesci abbondo, e valle e prato Rende fertili intorno il corso mio, E di quest'onde al dolce mormorio Danzar veggomi ognor le ninfe a lato. A tanto scherno l'irritato fonte La sottil ritiro limpida vena, E la nascose in seno al patrio monte. Il fiume allora, cui non dié piú lena La sorgente, abbassò l'altera fronte Senza pesci, senz'onde, in secca arena. LA CONTESA DELLA AUTORITÀ E DELLA RAGIONE. Alla ragione naturale e schietta, Che va sempre col vero accompagnata E di bugia non è giammai sospetta , Diceva un dí l'autorità togata : Io, che alle leggi son la più perfetta Norma da forti penne in foro armata, Dovrò cedere a te, che o sei negletta O distorta o mal nota o male usata? La ragion rispondea : Perché, sorella, Non vuoi cedere a me che son intenta A farti ognora e vigorosa e bella ? Al fin tu sai, che la tua forza è spenta Senza il mio aiuto, ed io son sempre quella, Che in me sussisto e son di me contenta. Non sarà sfuggita al lettore la facile armonia del verso , la spontaneità della rima e la piacevole e arguta spigliatezza della forma, nonostante qualche negligenza dell'espressione. Già fu detto sopra che il Cantoni non si diede troppa cura della purezza della lingua, cosicché ne' suoi versi s'incontrano spesso idiotismi lom- CARLO CANTONI 299 bardi ed emiliani. Questa mancanza di purgatezza fu notata dalle Novelle letterarie di Firenze del 1753 ( 1 ) . Anche lo Zaccaria nel volume XI della sua raccolta periodica di notizie e articoli, intitolata Storia letteraria d'Italia, deplorava che all'ingegno poetico del Cantoni non avesse potuto esser pari lo studio (2). Quasi un secolo dopo il Lombardi nella Storia della lett. italiana nel sec. XVIII (3) , parlando del Nostro , disse che egli « ci lasciò << due tomi di composizioni bernesche di cui non abbonda l'Italia ». Grande è la lode contenuta in queste poche parole, ma non immeritata ; chẻ la felice e sana festevolezza e il sentimento naturale e genuino di quelle poesie sono davvero cosa piuttosto rara nella nostra letteratura, la quale non patí mai scarsità in vece di componimenti accademici e artificiosi. GIUSEPPE MALAGOLI. (1) < ... Queste poesie meritano la loro lode . Benché lo stile non sia pu- << litissimo, pure vi è tutto il genio e la fantasia poetica » (Ivi, pp. 635 e seg. ) . (2) < ... Noi conoscemmo questo valente poeta, ch'era d'un ingegno ame- « nissimo e di facilissima vena a poetare, alla quale se corrisposta fosse la < coltura pochi pari avrebbe avuti » ( Ivi , pp. 37 e seg. , Modena , Remondini, 1757). (3) Loc. cit. IL CANZONIERE , DEL PETRARCA NEL CODICE ORIGINALE A RISCONTRO COL MS; DEL BEMBO E CON L'EDIZIONE ALDINA DEL 1501 L'odierna critica letteraria, applicata agli studi petrarcheschi, rinnovando la conoscenza del testo originale del Canzoniere ha posto il vero fondamento per restituire a questo superbo capolavoro dell'arte italiana la genuina lezione e l'ordine primitivo. Quando già di quel testo originale da qualche tempo (ma non si lungo come si crede) non si parlava più, ne ravvivarono la memoria Giosuè Carducci nel 1876, ricordando che l'edizione aldina del 1501 era stata fatta sul codice originale ( 1 ) ; quindi Adolfo Borgognoni, negando che un codice originale del Canzoniere fosse mai esistito (2) ; infine Vittorio Cian, contraddicendo (3). E questi fu sul punto di risolvere la questione. Poichè, a confermare le asserzioni proprie, e specialmente la sua convinzione che quel codice esisteva ancora, gli restava a guardare, nell'inventario dei mss. che fanno preziosa la Biblioteca Vaticana, l'elenco dei codici latini, fra i quali è designato, sotto il num. 3195, come scritto dalla mano del poeta, il testo del Canzoniere, indi- (1) CARDUCCI, Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti storici, morali e diversi. Saggio di un testo e commento nuovo ecc. , Livorno, 1876, pp. I-XI della Prefazione. (2) BORGOGNONI, Se Monsignor Bembo abbia mai avuto un codice autografo del Canzoniere del Petrarca. Lettera a T. L. Ravenna, 1877. (3) CIAN , Un decennio della vita di M. Pietro Bembo, Torino, 1885 ; specialmente a pp. 97, 98, anche in nota. IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 301 cato già sotto quel numero da parecchi critici e bibliografi italiani (1 ) . E il detto codice nella Biblioteca Vaticana non fu tenuto mai occulto ; chiunque ne avesse fatto richiesta , poteva, come oggidì, averlo in mano ed esaminarlo : il vero è questo soltanto, che nessuno da qualche tempo ne aveva parlato al pubblico ; onde parve che il pubblico ( quello, beninteso, assai ristretto, dei letterati e dei critici) lo avesse dimenticato. Il merito di aver novamente additato quel codice al pubblico si deve a due valorosi critici stranieri : Pietro De Nolhac, professore in Parigi alla Scuola degli alti studi, e Arturo Pakscher, libero insegnante nell'Università di Breslavia ; i quali, sui principi del 1886 , quasi contemporaneamente e, a quanto pare, senza che l'uno sapesse dell'altro, novamente riconobbero nel manoscritto Vaticano latino 3195 il codice originale del Canzoniere, e ne divulgarono la notizia. Era naturale quindi che sorgesse il desiderio di vederlo pubblicato nella sua integrità genuina. Se non che il De Nolhac, fatti degli studi speciali su esso e su l'altro codice petrarchesco, pure Vaticano latino 3197, scritto di mano di Pietro Bembo e contenente , non solo il Canzoniere , ma anche i Trionfi (2) , quanto al testo originale del Canzoniere concluse che la sua pubblicazione in realtà si era già fatta sin dal principio del secolo decimosesto. « Io credo » ( egli scriveva ) « di avere sta- << bilito l'identità del manoscritto adoperato dal Bembo presso << Aldo nel 1501, e acquistato da lui nel 1544, col Vaticano 3195. << La collazione di quest'ultimo con l'aldina corrobora la dimostra- (1) L'Inventarium Manuscriptorum Latinorum Bibliothecae Vaticanae fu compilato fin dai princípi del secolo decimosettimo. In esso (t. IV, p. 297) il codice originale del Canzoniere del Petrarca è designato con queste pa- role : « 3195. Francisci Petrarchae rerum vulgarium opera. - Voi ch'ascol- « tate in [prime parole della prima carta numerata] Ex pergameno c. s. << [cartae signatae] No 72. Antiq. [Antiquum] manu propria Auctoris ». - (2) Per evitare equivoci e confusioni sarebbe desiderabile che nella denominazione delle Poesie volgari del Petrarca si usasse precisione maggiore e costante uniformità. Poichè esse comprendono due parti , il Canzoniere e i Trionfi, a significare il tutto si deve adoperare sempre e solo la denominazione di Rime, e non già, come non pochi usano, Canzoniere. Giornale storico , XXI, fasc . 62-63 . 2020 302 G. MESTICA ངས་ ། << zione: essi presentano il medesimo testo con differenze insigni- < ficanti. L'origine della lezione della stampa aldina ormai non << darà più luogo a dubbio ingiurioso per i due grandi letterati << del rinascimento. Questa lezione [ per ciò che riguarda il Can- << zoniere] rappresentava già agli occhi dei migliori critici il << testo originale del Petrarca ; ormai si dovrà riconoscere inoltre << che essa è tolta di peso da un manoscritto esistente, che alla << fine del decimoquinto e del decimosesto secolo si teneva come << manoscritto autografo » (1). Fin dalla prima notizia del riconoscimento del testo originale contenente il Canzoniere, i professori Alessandro d'Ancona ed Ernesto Monaci, facendo relazione all'Accademia dei Lincei intorno alla Memoria del Pakscher, sullo stesso codice Vaticano 3195, a proposito del giudizio profferito dal De Nolhac circa l'attinenza di quel codice con la stampa aldina del 1501 scrivevano queste parole : « Dopo di ciò resta solamente da sapere << se e quanto l'originale petrarchesco differisca dal testo divol- << gato per opera del Bembo e del Manuzio. A ciò ha risposto << il sig. De Nolhac: il testo è lo stesso, le differenze sono insi- « gnificanti. Pertanto, se di queste differenze insignificanti sarà << pubblicata una nota a guisa di errata-corrige per l'edizione << aldina del 1501, avremo ottenuto quanto mai si potrebbe desi- << derare anche da coloro che professano la bibliologia pura » (2) . Ben detto, nel supposto che quel giudizio , al quale i due insigni critici italiani non erano tenuti in quella occasione di fare il riscontro su i codici, fosse veramente esatto. Lo stesso De Nolhac, indi a poco, nel suo pregevolissimo libro La Biblioteca di Fulvio Orsini, tornando su l'argomento medesimo, dopo aver notato che il codice Vaticano latino 3197, per ciò che riguarda il Canzoniere, reca un testo del tutto differente da quello del codice originale Vaticano latino 3195, raf- (1 ) De Nolhac, Le Canzoniere autographe de Pétrarque ecc. , Paris, 1886. (2) R. Accademia dei Lincei, vol. II , Serie 4. Rendiconti. Seduta del 20 giugno 1886. IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 303 fermava il precedente giudizio con queste parole : « Ormai non << sarebbe esatto continuare a dire che su questo suo mano- << scritto, ora Vaticano latino 3197, il Bembo ha fatta la sua <<< edizione del 1501 ; poichè , oltre alla testimonianza di Aldo, << abbiamo anche quella positiva di Lorenzo da Pavia, la quale ci << prova che nella detta edizione si seguì il codice originale » (1). Il Pakscher, sebbene cogliesse nel vero affermando, al contrario del De Nolhac, che il ms. del Bembo (Vat. 3197) avesse servito per l'edizione aldina 1501 , tuttavia, ritenendolo a torto copia del codice originale (Vat. 3195), teoricamente (poichè non ebbe agio di esaminare l'edizione suddetta) venne in sostanza alla medesima conclusione dello scrittore francese ( 2). Di questo argomento ha toccato, incidentalmente, il dr. Carlo Appel nel principio del suo importante lavoro critico su le 18 carte autografe costituenti il codice Vaticano latino 3196 da esso ripubblicate (3) . Avendo egli nel suo libro stampati a piè di pagina, di rincontro agli abbozzi, i rispettivi componimenti nella lezione che si ha dal cod. Vat. 3195, indi trasse argomento per affermare che all'edizione aldina del 1501, procurata da Pietro Bembo, servi di base il codice Vaticano 3195, come appunto aveva replicatamente asserito il De Nolhac ; e per conto suo aggiunse che il testo marsandiano del Canzoniere, ora comunemente accettato, corrisponde in generale, salvo variazioni sia pur numerose ma sempre lievi, a quello del codice originale; lasciando così in dubbio se egli ritenga più prossima al codice originale la lezione aldina del 1501 o la marsandiana del 1820. Se non che io, messomi già a studiare il codice Vaticano 3195 (4) col proposito di condurre su esso un' edizione (1) De Nolhac , La Bibliothèque de Fulvio Orsini, Paris, 1887, p. 308. (2) PAKSCHER, Aus einem Katalog des Fulvius Ursinus, in Zeits. f. Romanische Philologie, vol . X, 1886, Halle, Max Niemeyer, pp. 205, 233-235. (3) APPEL, Abdruck des Cod. Vat. Lat. 3196 ecc. , Halle, 1891 . (4) Dopo i Fac-similés de l'écriture de Pétrarque, dati dal sig. De Nolhac in Mélanges d'archéologie et d'histoire, VII• ann. , fasc. 1-2, mars 1887 , le prime poesie del Canzoniere pubblicate sul codice Vaticano 3195, sono quelle che io inserii, quando già m'ero messo a studiare quel codice per l'edizione critica, in un mio lavoruccio intitolato Il sonetto più giovanile del Petrarca 304 G. MESTICA critica del Canzoniere, fin dai primi raffronti ch'ebbi occasione di farne col ms. Vaticano 3197 e con la stampa aldina del 1501, venni a conclusioni diverse ; e ora , avanti di pubblicare l'edizione suddetta, credo opportuno esporle con le debite prove, valendomi anche, pel mio scopo, di documenti già noti . L'edizione delle Rime del Petrarca fu terminata da Aldo nel luglio del 1501 , secondo che è detto sul fine del volume nella sottoscrizione che riferiremo più innanzi, non però innanzi allo scorcio del mese. Fra i documenti rispettivi ad essa, sin qui conosciuti, primo in ordine di tempo è il privilegio della stampa del Petrarca per dieci anni, concesso dal Senato veneziano sotto la data del 26 giugno 1501. Questo privilegio fu domandato da Carlo Bembo, fratello di Pietro, appassionato cultore anch'egli degli studi letterari , il quale morì poi « nel fiore della sua gio- << vinezza » verso la fine di decembre del 1503, o in principio di gennaio del 1504 ( 1). Perchè quel privilegio non fu chiesto nè da Aldo Manuzio, che stampava il Petrarca, nè da Pietro Bembo, che ne curava l'edizione? Forse il primo, avendone già domandati altri per molte sue stampe, temette di apparir petulante o (Fanfulla della Domenica , Roma , 20 e 27 maggio 1888) , e quelle che il sig. Giuseppe Salvo Cozzo stampò, successivamente, in due scritti : 1º Il sonetto del Petrarca « La gola e ' l sonno et l' otiose piume » ( Cultura , an. VII, vol. IX , ni 15-16 , 15 agosto 1888) : 2º Dieci sonetti di Francesco Petrarca ecc. (Spicilegio Vaticano, fasc. 2, 1890); nei quali scritti egli annunziò la derivazione dell'edizione aldina 1501 dal codice Vaticano 3197 e il proposito suo di dimostrare « con argomenti irrefutabili : 1º che il co- << dice 3195 non servì affatto di base all'edizione aldina del 1501 ; 2º che il « Bembo, pur acquistandolo nel 1544 per mezzo di Girolamo Quirini, non però << l'ebbe in prestito quarantatre anni prima da un signore padovano ; 3° che << l'edizione aldina del 1501 fu invece fatta sul codice 3197 , di mano del << cardinal Bembo ». Cfr. questo Giornale, XII, 478. (1) Non nel decembre dell'anno 1504, come afferma il CIAN ( Un decennio della vita ecc . , p. 160) , perchè il Bembo in una sua lettera del 5 gen. 1504 a Lucrezia Borgia , duchessa di Ferrara , annunziandole la morte di Carlo suo fratello , scriveva che nel suo ritorno da Ferrara a Venezia lo aveva trovato già seppellito. L'ultima lettera di Pietro Bembo a Carlo suo fratello è da Ferrara, 3 settembre 1503 : brevissima, e nella chiusa dice così : « I miei studi vanno di bene in meglio : sopra i quali seguirò il tuo consiglio »>. IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 305 di non poter così facilmente ottenere anche questo, e forse il secondo non volle esporre il proprio nome, per evitare la possibile accusa di speculazione , sapendo di dover comparire nel fine del volume qual curatore di quella stampa ; il che, per vie più accreditarla , molto importava al Manuzio. Comunque sia, ecco qui il documento tratto dal Notatorio del Collegio, nell'Archivio generale di Venezia : « MDI, die XXVI junii. Li infra- << scripti Signori Consiglieri, intesa la dimanda del nobil huomo << Sier Carlo Bembo de Sier Bernardo, doctor et cavalier, quale << havendo con summa sua diligentia et cura trovato uno Pe- <« trarcha et uno Dante, scripti de mano propria de ipsi Pe- << trarcha et Dante desideraria , per essere correttissimi , quelli << far imprimere et stampare in questa città, hanno termenato et <<< termenano che, acciocchè della sua fatica et spesa altri non <<< vegni a coglier el fructo, che per anni X ne le terre di questo << dominio altri che dicto Sier Carlo Bembo non possi far stampar, << nè stampar dette opere, videlicit de Petrarcha et Dante, de la <<< sorte, lettera, forma et stampa et corretione saranno quelli « farà stampar el detto Sier Carlo, sotto pena de perder le stampe, <<< et libri et ducati 5 per libro, da esser dadi a l'accusator la « metà, l'altra metà a la Pietà » (1) . Dopo ottenuto, a nome di Carlo Bembo, il privilegio, se non forse prima, Aldo pose mano alla stampa del Petrarca ; e, per quanto conducesse il lavoro sollecitamente, la fama di questa edizione anche innanzi al suo compimento erasi divulgata ; onde Isabella Gonzaga marchesana di Mantova, donna coltissima nelle lettere e delle arti belle innamorata e fautrice, avutone sentore, scrisse a Lorenzo da Pavia, dimorante a Venezia , che procurasse a lei un esemplare in carta bona di quel Petrarca , del Virgilio e dell'Ovidio stampati nelle case di Aldo. Con lettera del 26 luglio 1501 le rispose Lorenzo, significandole che per allora (1) FERRAZZI , Manuale dantesco, vol . IV , p. 304 , in nota. Cfr. anche Documenti per servire alla storia della tipografia veneziana , raccolti e pubblicati da R. FULIN nell'Archivio veneto, an. XVI, Parte I, Venezia, 1882. 306 G. MESTICA non poteva mandarle altro che il Virgilio ; e soggiungeva : « Del « Petrarcha, ancora non è finito et a bono termine ; m'ano dito <« che fra X giorni sarà finito e no n'ano fato in carta bona se << non cerca a 15, li quali li avevano alogati se fosano C. E questo « è stato per calestria de carte bone, et con dificultade ano tro- <<< vate queste poche così in li Vergilii come in li Petrarcha ; sì <« che la Signoria vostra avrà uno de' dicti Petrarcha, e a me << promise de servirme, fora de queli 15, a foio per foio, a ciò << che la S. vostra abia el più belo, tanto più che è in compagnia << di dicto Maestro [Aldo Manuzio] m. Pero Bembo, el quale << è stato quelo à fato stampare dicti Petrarcha et è aficiona- << tissimo a la S. vostra. E se à auto el Petrarcha proprio de << man del Petrarcha coscrito de sua mano et òlo auto in mane « ancora io : et è de uno padovano che la stima asai. Sichè << l'ano stampato a letera per letera, com'è questo, con molta di- << ligencia » (1). Importa fermare l'attenzione su la notizia che raccogliamo dalle parole qui sopra citate ; che di quella edizione aldina del Petrarca si tiravano quindici esemplari in carta bona, cioè in pergamena o cartapecora, e quindici soltanto, per carestia di essa, carta bona ; il che della carta comune certamente non si sarebbe potuto dire. Dei detti esemplari ne ricorda uno il Crescimbeni come appartenuto già a Pietro Bembo, di cui conteneva, in fine del volume, alcuni versi italiani sul Petrarca (2) ; il quale esemplare venne poi in mano di Lord Spencer e quindi del duca di Cassano. Alcuni n'esistono tuttora in Italia e fuori (3) ; io ne ricorderò solamente due, che si trovano l'uno nella Biblioteca Palatina di Firenze , e l'altro nella Comunale di Pa- (1) BASCHET, Aldo Manuzio ; lettres et documents (1495-1515) , Venezia , Antonelli, 1867, p. 10. Ho seguita la lezione corretta su l'autografo dal CIAN (Un decennio ecc. , p. 95). (2) CRESCIMBENI, Dell'Istoria della volgar poesia, Venezia, 1730, vol . II , P. I, pp. 297, 298. (3) RENOUARD , Annales de l'imprimerie des Alde ecc. , 3° édit. , Paris , 1834, pp. 28, 29. IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 307 lermo. Il primo « non ha alcun corredo di miniature, nè d'ini- << ziali dorate e colorite, nè l'adorna alcun blasone di chi ne fu <<< possessore o di chi ne fece regalo, ma è però di tanta conser- « vazione e di tanta bellezza, rispetto all'ampiezza delle perga- << mene ed alla integrità del volume, che, oserei dire, pochi gli << potranno stare a confronto. La sua provenienza è dalla Libreria << Poggiali, scrupoloso collettore di libri rari ». Con queste ed altre parole lo descriveva nel 1840 Innocenzio Giampieri, bibliotecario della Palatina di Firenze, in una lettera a Cesare Airoldi di Palermo. Dell'esemplare palermitano parlò a lungo nell'anno stesso e anche prima, nel 1837, Lionardo Vigo ; e l'uno e l'altro, il Vigo e il Giampieri, fecero anche un po' di storia degli altri esemplari ( 1), senza però ricordare quello menzionato già dal Crescimbeni, e ignorando forse quanto sul proposito di quegli esemplari in pergamena aveva detto il Renouard, che però dell'esemplare palermitano non aveva alcuna notizia. Questo proviene da casa Strozzi, e probabilmente fu donato dal Bembo a Ercole Strozzi fuoruscito fiorentino , nella cui villa, denominata Recano, dimorava appunto nel 1501 , mentre sopravvegliava all'edizione aldina. È probabile altresì che lo portasse seco a Palermo quell'Orazio Strozzi, che là trasferì la sua dimora nel 1617 e morendo lasciò erede ivi stesso il fratello Giuseppe, col quale dipoi si estinse della nobile famiglia fiorentina il ramo trapiantato in Palermo. Certo è che nella prima metà del secolo decimonono il prezioso volumetto era posseduto dal letterato trapanese cav. Giuseppe Di Ferro, alla cui morte, avvenuta in Palermo nel 1836, il libro messo in vendita fu acquistato prima da Pietro Borghi, fratello del prof. Giuseppe Borghi, quindi dal duca di Serradifalco, e finalmente nel 1885 entrò nella Biblioteca Comunale di quella città per dono fattone ad essa da Giulia figlia del detto duca e moglie del marchese Vincenso Faldella di Torrearsa. Esso è di rilegatura moderna con le iniziali del duca di Serra- (1) Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia , Palermo , 1837, nº 4-5, genn. , pp. 19-20. Nel periodico stesso, 1840, nº 81, giugno, pp. 197-204 . 308 G. MESTICA difalco ; conservato a perfezione, come se fosse uscito ora dalla tipografia, e signorilmente miniato e dorato in servigio della casa Strozzi, il cui stemma fa parte dei preziosi ornamenti, inclusevi anche lettere iniziali . È identico per la lezione agli altri esemplari in carta comune ; ma nella sottoscrizione finale reca una differenza notevole per alcune parole aggiunte, che dovremo esaminare più innanzi, essendo, per l'argomento che trattiamo, assai concludenti. Basti qui accennare che in quella sottoscrizione, per la parte comune a tutti gli esemplari dell' edizione aldina del 1501, si attesta che quell'edizione fu fatta sull'autografo del poeta. Nonostante però siffatta dichiarazione, non mancarono, appena cominciato lo smercio del libro, censure all'opera dell'insigne tipografo. Ond'esso negli esemplari che ancora possedeva, aggiunse, in fine, sotto il titolo Aldo agli lettori, una difesa, di cui è opportuno riferir qualche tratto. « Io mi credea per certo ha- << vere a bastanza dato fede della correttione di questo libro, che «< io vi porgo, o lettori ; havendovi una volta detto [ nella sotto- << scrizione finale ] che egli è tolto dallo scritto di mano mede- << sima del Poeta havuto da M. Piero Bembo ; istimando che non << mi fusse gran fatto bisognevole alla vostra credenza meritare << in quello, che io vi promettea, altro che il vivo testimmonio << di tanto huomo. Hora io m'aveggo altrimenti essere avenuto << che io non pensava. Per ciò che sono alcuni (sì come io in- << tendo), che dicono non essere perciò così compiutamente cor- << retta questa forma che io v'ho data , come si dice ». Viene quindi a specificare alcune di quelle censure ; cioè che avesse usato [ nel frontespizio] < VOLGARI et non VULGARI, Canzoni più tosto che Canzone » : quanto poi al testo, nel verso 2 della sestina A qualunque animale alberga in terra « SE NON SE » per « SE << NON » ; nel verso 66 della Canzone Italia mia « DEL BAVARICO « inganno, che [secondo quei critici ] BARBARICO si deve dire >; e finalmente nel verso 14 della Canzone Mai non vo' più cantar « Chi non ha l'auro o ' L PERDE, dove la sana lettione [sempre, << secondo quei critici ] è Chi non ha l'auro ET BER DE : et così IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 309 i « in altri luoghi similmente : ma sopra tutto ne' Triomphi; ne' << quali dicono che io alcuni capitoli, che si leggono negli altri, << ho levati del mio, et l'ordine mutatone d'alquanti. In tutte le << quai cose affermano che io mi sono scostato del diritto camino << del vero ; mentre che io mi sono sforzato di ravicinarmivi più << che gli altri » . Rispondendo alle censure per ciò che riguarda i Trionfi, sostiene il fatto suo, « come che grandissima diversità << si ritruovi degli loro exemplari ; et in ogni luoco sia quest'o- << pera tenuta per non finita dalle più genti ». Quanto alle altre censure, fatta eccezione per le parole Volgari e Canzoni, che sono << fuori del testo », dopo varie considerazioni, difende la lezione della sua stampa riportandosi al codice originale con le seguenti parole : « Se alle volte cosa, che [ i miei critici ] quivi << leggono, nella loro conoscenza non cape , et essi pure ne vo- << gliono riprendere chi che sia ; riprendano il Petrarcha mede- < simo, se par loro di ben fare ; il quale di sua mano così ha <<< lasciato alle genti che doppo lui havevano a venire, in testo << diligentissimamente da esso scritto in buona carta , il quale << io appo il sopradettovi M. Piero Bembo ho veduto ; che altri <<< libri ha di man pure del nostro Poeta ; et dal quale questa << forma a lettra per lettra è levata in modo, che, con pace di << chi mi riprende, in essa non ci ha errori ». Ma non per questo cessarono le censure. Esse ricomparvero , più o meno apertamente, in parecchie delle edizioni posteriori fatte da altri tipografi, se non pari ad Aldo, anch'essi valenti, le quali, poniamo che fossero in parte mosse da malevolenza e da invidia, avevano pure qualche parte di vero, come da ciò che susseguentemente diremo si farà manifesto. Di non lieve importanza è a questo proposito l'asserzione di Alessandro Vellutello nel « Trattato de l'ordine de' Son. et Canz. del Pet. << mutato », premesso al suo Petrarca del 1525 ; dove, dopo avere ricordato che Aldo Romano nella sua edizione del 1501 affermò << haverla dal proprio originale et scritto di mano del Poeta ca- << vata, adducendo il testimonio dello eccellentissimo Messer Pietro << Bembo, dal quale dice averlo havuto » ; più oltre soggiunge : 310 G. MESTICA << Messer Pietro Bembo, col quale sopra di tal cosa ho alcuna << volta parlato, dice non dall'originale del Poeta (come Aldo vuole) <<< ma d'alcuni antichi testi, et specialmente i Son. et Canz. , da << uno il quale noi habbiamo veduto, et anchora hoggi è in Pa- << dova appresso Messer Danielle da Santa Sophia, havere questa << opera cavata ». È vero che il Vellutello, in quel proemio, probabilmente per giustificare il nuovo ordine arbitrario che egli dava ai componimenti del Canzoniere, si mise a sostenere un'opinione non vera, cioè che un testo originale di quello non esisteva, e che il Poeta aveva lasciato il suo Canzoniere « su di- << versi separati fogli et che poi l'ordine che parve di darli a « colui che fu il primo a raccoglierla [ l'opera] et metterla in- < sieme tutti gli altri habbiano seguitato ». Ma come questa sua asserzione è smentita dal testo originale che è là a far fede che l'ordine dei componimenti del Canzoniere fu stabilito dall'autore medesimo, così anche le sue parole scritte in opposizione ad Aldo, che affermava l'esistenza di un testo originale, possono essere sospette, dovendo egli pel detto suo intento abbattere l'asserzione contraria del sommo tipografo. Non per ciò si vuol negare ogni fede a quanto il Vellutello, in proposito del testo originale, narra aver detto a lui stesso il Bembo. È assai probabile che delle asserzioni del Bembo egli riferisse soltanto quella parte che più gli faceva comodo per dare credito alla sua edizione ; e se quel che riferì non è falso, essendo però monco, non reca intera la verità e la travisa. È vero difatti che il ms. , che servì alla stampa aldina del 1501 , fu esemplato dal Bembo sopra un codice buono certamente, ma che però non era nè il codice originale, nè uno identico a quello ; ma non è però credibile che il Bembo, dicendo questo al Vellutello, gli avesse taciuto di aver poi collazionato sul codice originale il ms. preparato per l'edizione aldina del 1501, il che risulta da quanto diremo più innanzi. E si potrà creder mai che il Bembo volesse dare una mentita ad Aldo e a sè stesso? poichè la sottoscrizione finale del volume, la quale afferma la derivazione della stampa dal codice autografo , dovette senza dubbio esser fatta coll' assenso del Bembo. La verità nella rela- IL « CANZONIERE » DEL PETRARCA 311 zione del Vellutello sostanzialmente tornerebbe, se egli avesse detto che quel codice di messer Daniele di Santa Sofia , contenente il solo Canzoniere e principalmente adoperato dal Bembo, era appunto quello che il Bembo stesso e Aldo Manuzio chiamavano autografo. Ma se il Vellutello fu inesatto, perchè il Bembo non se ne richiamò? L'edizione del Petrarca , curata dal Vellutello, fu fatta << in Vinegia per Giovanniantonio et Fratelli « da Sabbio del mese d'Agosto L'anno del Signore Mille cin- << quecento venticinque », quando il Bembo nel maggior fiore della sua gloria letteraria dimorava a Padova, passando il tempo fra gli studi nel suo magnifico palazzo e nella deliziosa villetta prossima alla città ; insomma, a breve distanza da Venezia, dove qualche volta pur si recava ( 1 ) . E chi potrebbe credere che il coltissimo letterato veneziano, così innamorato del Petrarca, così felice imitatore delle sue poesie volgari , non vedesse subito quella nuova edizione ? tanto più che il Vellutello ne aveva discorso con lui e in essa lo nominava. Si noti infine che in due successive ristampe (2) dell'edizione curata dal Vellutello, ambedue del 1528, restarono sempre quelle parole, che abbiamo riferite dall'ediz. prima. Che se nella quarta ristampa, fatta nel 1532, quelle parole non compariscono più, ciò avvenne naturalmente, perchè in quella il Vellutello soppresse tutto il « Trat- << tato » nel quale esse incidentalmente erano incluse, conservando solo il breve e succoso riassunto del Trattato medesimo , posto anche nell'edizione stessa del 1525 e nelle altre due susseguenti, sotto questo titolo : « Divisione de' so. et can. del Poe. in tre << parti », il quale poteva tener luogo di quello che a lui , ripensandoci meglio, dovette parere, com'è difatti, prolissamente in- (1) CIAN, Un decennio ecc . , p. 36, anche in nota, e pp. 122-123. (2) 11 MARSAND nella Biblioteca petrarchesca (Milano, 1826) segna tra la prima edizione del 1525 e quella del 1532 una sola edizione intermedia, ma certo ve ne furono due ; perchè il Vellutello stesso nel nuovo proemio a quest'ultima dice di averne già fatte, dopo la prima, due altre ; e due, l'una e l'altra del 1528, ne indica anche ATTILIO HORTIS nel Catalogo della Biblioteca petrarchesca Rossettiana ( Trieste, 1874). 312 G. MESTICA sulso. Se il Bembo si fosse, e sia pure in maniera amichevole, richiamato al Vellutello di quelle asserzioni che nell' edizione del 1525 a proposito dell'opera di lui nell'edizione aldina del 1501 gli aveva messe in bocca, è da credere che il commentatore, in ossequio a un tant'uomo, dittatore, da tutti riconosciuto, in materia di lettere, non avrebbe persistito a ripetere in due altre edizioni le non gradite parole. Ma perchè dunque il Bembo non se ne richiamò ? Io credo per questo principalmente, che nelle asserzioni del Vellutello un po' di vero c'era, e nelle dichiarazioni apposte all'edizione del 1501 , quanto all'identità della stampa col testo originale c'era un po' d' esagerazione ; chè egli sapeva benissimo di avere adoperato quel codice per la detta edizione non senza arbitrii , e che quel codice conteneva solo il Canzoniere e non i Trionfi ; onde non poteva piacergli di rimescolare la cosa. Di questo suo riserbo col Vellutello può esser conferma anche il fatto, che egli dell'edizione aldina del 1501 e dell'opera prestata in essa, per quanto risulta da' suoi scritti , se pure non me n'è sfuggito qualcuno, non fece mai più menzione. Un altro argomento fu addotto per sostenere che il codice originale nel 1501 non era conosciuto dal Bembo. Quando nel 1544 potè finalmente far suo il codice originale, egli nelle due lettere in cui ne tenne proposito al suo amico Girolamo Quirini, intermediario di tale acquisto, non accennò punto all'uso che per la detta edizione quarantatrè anni addietro ne aveva fatto. Di questo silenzio si valse già il Borgognoni come di argomento a sostegno della sua tesi, che il Bembo non avesse mai avuto in mano il testo originale del Canzoniere, nemmeno per l'edizione aldina del 1501 ; ma il Cian osservava poi di rincontro che il Bembo poteva averne parlato già all ' amico o scrittogliene in qualche lettera precedente (1) . E difatti la prima di quelle due lettere dice chiaramente nel suo principio che, a proposito del codice ricercato dal Bembo, tra esso e il Quirini v'era un carteggio già iniziato. Sarà bene riferire testualmente, non per questo ma per (1) CIAN, Un decennio ecc ., p. 98 in nota. IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 313 altro fine, ambedue le lettere su citate, che il Bembo nel 1544 scriveva da Roma al Quirini in Venezia, la prima del 23 agosto, la seconda del 20 settembre. Ecco la prima : « Il Petrarcha, che << veduto havete, per incominciare a scrivervi da questa parte, << dopo tanti di che io scritto non v'ho, potrebbe essere il vero << libro, che io cerco. Perciò che quello era coperto di cuoio << bianco ; et non havea titolo veruno che egli dimostrasse essere << stato del Petrarca. Vero è che ' l cuoio era rovescio ; et parea << molto vecchio, come ragionevolmente parer dovea, et era forse << della grandezza del foglio che mandato m'havete : se non che << a me parea che egli fosse men lungo di quel foglio . Ma in << ciò posso agevolmente ingannarmi. Havea quel libro quattro << brocche di rame ne' canti delle due tavole sopra il cuoio << per una, et una quinta nel mezzo del cuoio e della tavola , << schiette et ritondette et copolute, larghe nel fondo, quanto un << soldo : delle quali non mi ricordo se ne mancasse alcuna. Era << stato il libro per tanto tempo assai ben tenuto, et leggevasi << agevolmente. Questi sono gli inditij , che ve ne posso dare io. Ma << perché non habbiate a dubitare sopra esso, vi mando la Buco- << lica del medesimo Petrarcha, scritta di mano sua pure in carta << pecora, come era quello ; nella qual Bucolica egli si scrive nel << titolo et piu manifestamente nel fine del libretto . Quello non <<< havea se non i sonetti et le canzoni tutte. I triomphi non v'e- << rano. Potrete da questo libretto, comparandolo a quello, raccer- << tarvi se quello sie il vero. Quello non è scritto di così formata << et bella lettera in tutto , come questo è della sua Bucolica. Il <<< Petrarcha vero non havea postilla alcuna, come scrivete, in << tutto lui. Il che mi fa più credere che egli possa esser quello << che havete veduto ». Segue l'altra : « Ho avuto il Petrarca << quando meno lo credea havere, vedendo la cosa essersi ridotta << a Padova. Ma l'amorevole prudentia vostra ha potuto et sa- << puto più che altri a questa uolta. Et quelli zecchini sono stati << l'hamo, che ha tratto questo pescie fuori dell'acqua. Siane rin- << gratiata Vostra Magnificentia senza fine. Non vi potrei dire « quanto l'ho caro. Se l'amico mi desse hora cinquecento zec- 314 G. MESTICA << chini appresso a quelli, non gliele darei. È di mano dell'auttor << suo senza nessun dubbio » ( 1). Riserbandomi a tornare su queste due lettere più oltre, innanzi tutto devo qui ricordare che il codice originale del Canzoniere, acquistato dal Bembo nel 1544, è quello stesso che ora si conserva nella Biblioteca Vaticana sotto il numero 3195. Questo codice, come dimostrarono il Pakscher (2) e il De Nolhac (3), è scritto da due mani , cioè una parte dal Petrarca e un'altra parte, anche maggiore, da un copista. Sebbene anche questa parte possa dirsi autenticata dal Petrarca per la revisione che ne fece, della quale appariscono tuttora le tracce, nondimeno resta sempre vero che non è tutto autografo. Che se tale lo dichiararono e il Bembo nella citata lettera e, susseguentemente, Fulvio Orsini, e infine anche l'inventario della Biblioteca Vaticana compilato sui principi del seicento, bisogna considerare che in quei tempi , quando la paleografia come scienza ancora non esisteva, tali abbagli sui codici erano ben naturali, trattandosi specialmente di caratteri calligrafici, come quelli del codice suddetto, fra loro, somigliantissimi, da sembrare a prima vista di una sola mano. Intanto è certo che il codice 3195 è quello che la detta Biblioteca ebbe in dono da Fulvio Orsini, che l'Orsini aveva comperato dal figlio di Pietro Bembo , e che questi aveva primamente acquistato nel 1544. Vediamo ora se ci riesce d'identificarlo col codice adoperato dal Bembo stesso per l'edizione del 1501 , e da lui e da Aldo Manuzio qualificato parimente come autografo. A tal uopo è necessario, come è pur necessario a giudicare la veridicità delle asserzioni di ambedue circa la derivazione dell'edizione suddetta dal manoscritto autografo, un raffronto del codice Vaticano 3195 col ms. Vaticano 3197, che è tutto di pugno di Pietro Bembo. (1) BEMBO, Lettere, Volume secondo : stampate in Vinegia per gli figliuoli di Aldo nel Mese di Ottobre, MDL. (2) PAKSCHER, Aus einem Katalog ecc. , in Zeitschrift cit. (3) DE NOLHAC , Canzoniere autographe cit. IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 315 Questo ms. cartaceo, benchè rilegato in un solo volume, comprende due mss. distinti, ciascuno con numerazione propria. Li fece rilegare in un volume Fulvio Orsini, dopochè nel marzo 1582 ( 1) n'ebbe fatto l'acquisto, come del codice 3195 e di altri, dal figlio di Pietro Bembo; il quale Orsini nel recto della prima carta di sua mano scrisse : « Tutte le poesie del Petrarca e del << Dante : scritte in papiro di mano del Bembo in foglio ». E difatti il primo dei due mss. contiene il Canzoniere e i Trionfi del Petrarca, il secondo le Terze rime di Dante, cioè la Divina Commedia. Questo secondo, in calce al recto della prima carta e in calce al recto dell'ultima, porta la notizia che fu cominciato a copiare il 6 luglio 1501 e fu finito il 26 luglio 1502 : il primo non ha data ; il che indusse qualcuno ad attribuirgli erroneamente quella notata qui sopra , e a negare quindi che avesse potuto servire per l'edizione aldina fatta nell'anno precedente (2). Da qual codice traesse il Bembo la copia suddetta non si sa ; forse un giorno si potrà scoprire, se quel codice in Italia o fuori esiste tuttora. Il vero è che esso era un codice di buona lezione, non però l'ultima dell'autore rappresentata, come dimostreremo qui appresso, dal codice originale, ora Vaticano 3195 ; e che la copia eseguita dal Bembo fu collazionata con questo. Difatti il ms. bembiano pel Canzoniere (non però pei Trionfi) ha postille, quasi continue, su tutti i margini. Alcune di tali postille non sono che parole del testo, in esso male scritte o mal corrette o cancellate, ripetute per maggiore chiarezza, e talvolta anche quando paiono leggibili abbastanza. Tale diligenza, a primo aspetto eccessiva e meticolosa, facilmente si spiega, ove si consideri che il ms. doveva servire, come servì di fatti, per l'edizione aldina ; onde importava al Bembo che i compositori non trovassero difficoltà nell'intendere le parole. Le altre postille, senza paragone (1 ) DE NOLHAC, La Bibliothèque ecc. , p. 201 . (2) CIAN, Un decennio ecc . , pp. 89, 90, anche in nota. Ivi stesso egli riferisce che nelle Effemeridi letterarie di Roma, del 1820, t. I, p. 282 , si era già annunziato che l'edizione aldina del 1501 fu fatta sopra il codice Vaticano latino 3197. 316 G. MESTICA più numerose, sono varianti alla lezione del testo medesimo. Queste varianti, salvo una piccola parte, un decimo appena del totale, rappresentano, nella massima parte, la lezione del codice originale (ora vaticano 3195), e vanno distinte in due ordini diversi. Alcune per via di richiamo, segnato sulla parola in margine e ripetuto su la corrispondente parola del testo cancellata, sono quelle che il Bembo accettava dal codice originale, sostituendole alla lezione datagli dal suo esemplare : altre, precedute, salvo pochissime dimenticanze, da una P. (significante Petrarca) e cancellate ciascuna con una linea obbliqua a destra dal basso in alto, sono quelle che, sebbene costituiscano la lezione del codice originale riconosciuto dal Bembo stesso per autografo , egli tuttavia le rifiutava dando la preferenza alle corrispondenti lezioni del suo ms.; e queste ascendono a circa centosessanta. Ma non basta ; chè fra la lezione del ms. bembiano e il testo originale intercedono molte altre differenze, per varianti ch'egli non notò ai margini ; o perchè le reputasse di poco momento, o perchè gli sfuggissero; e questo io credo, considerando quanto il Bembo fosse accurato nel riferire fra le centosessanta suddette anche varianti di minima importanza e attinenti spesso alla sola grafia. Di tali omissioni, del resto, potrebbe soltanto maravigliarsi chi non ha mai provato con la esperienza propria quanto sia difficile in siffatti lavori ottener sempre, con tutta la buona volontà, la piena esattezza e precisione. Parecchie delle dette varianti, in fine, non rispondono al Vaticano 3195 ; onde è da credere che il Bembo le desumesse o dal codice sul quale esemplò il suo ms. , o da qualche altro, che parimente ebbe sotto gli occhi. Di queste ultime mi sbrigo subito con pochi esempi. Nel v. 2 del sonetto Quanto più m'avicino al giorno estremo il Bembo scrisse in margine e cancellò la notabile variante natura, mantenendo nel suo testo miseria, che è del Vat. 3195. Sul principio del sonetto Ma poi che ' l dolce riso umile e piano scrisse nel suo testo Ma poi, che è anche del V. 3195, quindi in margine Da poi, che hanno altri codici, e lo cancello. Nel v. 1 della canzone Gentil mia Donna i veggio IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 317 invece di mia Donna, che è pure del V. 3195, soggiunse in margine, e poi cancellò, Madonna. Nel v. 8 del sonetto Cesare poi che 'l traditor d'Egitto di rincontro a isfogar, che è pure del V. 3195, scrisse e cancellò la notevole variante Sol per celar. Nel v. 14 del sonetto S'amor non è, che dunque è quel ch' io sento? scrisse in margine e poi cancellò et ardo, notevole variante anche questa di ardendo, che è pure del V. 3195. Finalmente, nel v. 60 della sestina Mia benigna fortuna e 'l viver lieto segnò in margine e cancellò la variante tanto piango, tenendo nel suo testo canto et piango, che è anch'essa del codice originale. manLe differenze del ms. del Bembo dal codice Vaticano, non riportate da lui nei margini, sono d'ogni specie e in buon numero, e parecchie di gran momento. Mi fermo, per brevità, al primo sonetto, dove nei primi due versi che il codice originale ha così, Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono Di quei sospiri ond'io nudriva 'l core , il ms. bembiano , invece di nudriva 'l core, porta nudriva il core. All'orecchio finissimo del Petrarca quell'il pieno alla fine del secondo verso dopo l'i già posto alla fine del primo ( il suono, il core) doveva produrre una monotonia ingrata ; onde il poeta nel secondo verso, schiacciando la vocale, scrisse, come si legge nel codice originale, nudriva 'l core ; e così difatti si deve scrivere e pronunciare. Il Bembo, ancorchè fissasse per più volte l'occhio e l'attenzione su quella parola ( il core), poichè la riscrisse, per chiarirla meglio allo stampatore, anche in margine, tuttavia non si accorse della piccola, ma importantissima, lezione del codice originale ; altrimenti, quand'anche non avesse voluto accettarla, come non ne accettò tante altre, l'avrebbe, ad ogni modo, riferita in margine colla solita P. e cancellata. Nella collazione che fece il Bembo del suo ms. col testo originale, parecchie volte cancella la lezione che aveva registrata nel primo per accettare l'autentica del Petrarca. Seguendo il testo originale, per es., a chieggio sostituì cheggio (son. De l'empia Babilonia ond'è fuggila, v. 12) ; nuviletto a nuvoletto (son. In mezzo di duo amanti onesta altera, v. 12) ; spene a Giornale storico, XXI, fasc. 62-63. 21 318 G. MESTICA speme (son. Se ' l sasso ond'è più chiusa questa valle, v. 6) ; pensero a pensiero (canz. In quella parte dove Amor mi sprona, v. 100); bevve a beve (cioè bevè), bavarico a barbarico (canz. Italia mia, benchè ' l parlar sia indarno, vv. 48, 66) ; trecce a trezze (son. Fiamma dal cúl su le tue trecce piova, v. 1) ; orato ad aurato (son. Fera stella se ' l cielo à forza in noi, v. 14) : e queste altre ben più notevoli : sofferir a reverir (son. Amor che nel penser mio vive e regna, v. 5) ; si per tempo a innanzi tempo (son. S'Amor novo consiglio non n' apporta, v. 14) ; contando a cercando (son. Fresco, ombroso, fiorito e verde colle, v. 7) ; pietose a soavi (canz. Quel rosignuol che si soave piagne, v. 4). In tali casi, cioè quando trascrive in margine e accetta la lezione del codice originale, egli non la contrassegna mai con la P., come fa per quelle che rifiuta. Ben più spesso però volle il Bembo discostarsi dalla lezione del testo originale. A queste differenze risultanti da suo deliberato proposito, avendo egli avvisatamente rifiutato circa censessanta volte la lezione autentica del Petrarca, importa fare attenzione particolare ; tanto più che esse possono dar lume intorno alle norme da lui seguite in siffatto lavoro critico. Delle lezioni da lui non accettate (parlo di quelle che egli riferiva nei margini, premessavi la P., e poi cancellava) parecchie riguardano la grafia, altre le forme grammaticali e lessicali. Fra quelle concernenti la grafia, alcune non sono che scorsi di penna, pochi in verità, essendo il codice originale di scrittura generalmente correttissima : altre sono esitanze o incoerenze. Eccone esempi. Nel v. 5 del son. Se l'onorata fronde che prescrive, v. 11, il Vaticano 3195 ha propria, mentre la rima vuole propia ; nel son. Ne l'età sua più bella e più fiorita, v. 4, ha Et l'aura invece di È l'aura ; nel sonetto Io canterei d'amor si novamente (v.7) che invece di chi ; nel v. 42 della canz. Se ' l pensier che mi strugge, e nel v. 14 del son. Pace non trovo e non ò da far guerra, voi in cambio di vut, necessario, nell'uno e nell'altro luogo, alla rima. Nel v. 13 del son. S'i fussi stato fermo a la spelunca, nel v. 11 del son. Anima che diverse cose tante, e altrove, ha etterno IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 319 come altre volte eterno : nel v. 3 del son. Almo sol quella fronde ch'io sola amo, nel v. 90 della canzone I' vo pensando e nel penser m'assale, e altrove, addorno come altre volte adorno: nel v. 5 della sest. Chi è fermato di menar sua vita e altrove sarrebbe come altre volte sarebbe : nel v. 3 del son. Parrà forse ad alcun che ' n lodar quella, faccendo come altre volte facendo : nel v. 76 della canz. Una donna più bella assai che ' l sole ha Rupessi invece di Ruppesi. In questi luoghi, come in parecchi altri, il Bembo riferisce in margine la parola del codice originale, e a ragione la cancella, mantenendo nel suo ms. la forma regolare. Di altre differenze di grafia fra il ms. bembiano e il testo originale, alcune sono veramente estrinseche e figurative, che non importano varietà nella pronunzia ; altre invece influiscono in questa, e perciò, spesse volte, ancora nel ritmo. Della seconda maniera molte ne troviamo nel codice Vaticano, che senza offesa del ritmo non è lecito variare : per es. , avolto, oblio, e non avvolto, obblio. Vi troviamo pure vocali o levate o poste, che senza modificare parimente il ritmo non si possono nè rimettere dove erano tolte, nè toglierle dove erano messe. Parimente, dall'esame del codice stesso risulta che il Petrarca scrive variamente de o di (segnacaso) depinto o dipinto, vertù o virtù; seguendo l'uso popolare, che allora, come pure oggidì, ammetteva nella pronunzia l'una o l'altra forma indifferentemente, uso che noi dobbiamo rispettare sempre, e tanto più in questa poesia musicale, essendo probabile (e talvolta ce ne accorgiamo anche noi) che il poeta in questo o in quel caso volesse, fra due forme egualmente in uso, preferire l'una all'altra per causa del ritmo, giovandogli schivare o accettare una vocale piuttosto che un'altra. Di queste cure da lui usate al fine suddetto, abbiamo prove anche più chiare negli abbozzi autografi delle sue poesie, che ci conserva il codice Vaticano 3196. Con la stessa ragione si può spiegare spesso (dico spesso, non sempre) quella che pare incoerenza nel raddoppiamento o sdoppiamento di consonanti , e nella soppressione o no di certe vocali in principio o in fine di parola. Orbene, le va- 320 G. MESTICA riazioni che in questi casi fa tanto spesso il Bembo avvisatamente, sostituendo a quella del poeta un'altra grafia, sono sempre da biasimare. Fa male altresì ogni qualvolta, e gli avviene spessissimo, alla regolare grafia del Petrarca sostituisce la sua tutta individuale. Non finirei più , se volessi per ciascuna di queste varietà addurre esempi delle importune e anche capricciose mutazioni del copista letteratissimo ; il quale poi, correggendo e mutando, cadde talora in incoerenze e contradizioni non apparenti, come non di rado sono quelle del Petrarca, ma reali. È degno di nota tuttavia che le più frequenti di queste numerose variazioni sono causate dal suo vezzo di latinizzar la grafia ; il qual vezzo era nel Bembo tanto incarnato, ch'egli, non di rado , riportando in margine una variante del testo originale per altro fine , alcune volte la scrive, non come è nel testo, ma alla maniera sua latinesca. Così , per esempio , premette sempre a or e a tutte le voci del verbo avere la sua prediletta h, contro l'uso del codice originale ; e la premette costantemente in altre parole dove il testo ora l'ha ora no , nè dimentica di convertire cetera in cethera (son. Gli occhi di ch'io parlai si caldamente), e sempre allora in allhora. E v'è ancora di peggio : nel testo originale la congiunzione e è scritta con la solita et latina la maggior parte delle volte ; ma non di raro vi si riscontra il volgare e e talvolta anche ed. Il Bembo qui si scandalizza davvero ; segna su i margini distinte con la P. e cancella le abborrite e, ed, per mantenere la et del suo ms. e, son per dire, del suo cuore. Così nella canz. I' vo pensando e nel penser m'assale, al v. 127, dove il codice , qui autografo, reca Canzon qui sono, ed ò ' l cor via più freddo, e nel son. L'Avara Babilonia à colmo il sacco, al v. 3, dove il codice stesso reca Tanto che scoppia ed a' fatti suoi dei, il Bembo pose ambedue le volte in margine la lezione autentica (coll'h di suo) P. ed ho ' l, P. ed ha , e , cancellatala , mantiene et ho 'l , et ha del suo ms. , non ostante la noiosa ripetizione della t nel secondo esempio; e lo fa sempre, salvo una volta, nel v. 11 del son. Io canteret d'amor si novamente, dove egli, vinto IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 321 0 dalla ancor più sensibile ripetizione di quella consonante, accetta la e del testo originale. Per la stessa smania del latineggiare, se talvolta trova che il codice stesso, in conformità della pronunzia volgare, invece della t pone la z, egli ristabilisce la grafia latina, convertendo, per esempio , in topati e sati il topazi e sazi del sonetto Una candida cerva sopra l'erba. E, per contrario, più volte a parole, o per grafia o per flessione, ne' tempi suoi già antiquate e alle latineggianti del codice originale sostituisce la forma moderna. Cosi, p. es.: a fuor, cioè furono (ballata Lassare il velo o per sole o per ombra) fur; a condutta (canz. Qual più diversa e nova, v. 23) condotta ; a templo (son. Fontana di dolore, albergo d'ira, v. 2) tempio ; a fussi (son. S'i fussi stato fermo a la spelunca , v. 1) fossi ; a fraile (son. Si come eterna vita è veder Dio, v. 4) frale , e cento altre. Nel primo verso del son. I'ò pregato Amore e 'l ne riprego, il Bembo, dopo avere scritto in margine P. e 'l ne, lo cancella per mantenere il suo e nel. Venendo a differenze più gravi e sostanziali, ce ne passeremo con pochi esempi. Molte volte il Petrarca nel suo Canzoniere nomina Laura, ma sempre velatamente ; poichè dove è scritta quella parola , secondo il senso letterale deve o può leggersi l'aura ; salvo forse in due componimenti, scritti però dopo la morte della sua donna, quando il riserbo non era più così necessario. Si può giurare che il poeta sotto quelle variazioni voleva che il lettore intendesse il nome della sua donna ; ma l'equivoco c'era , mirabilmente ajutato altresì dalla scrittura medievale, perchè in essa l'articolo si teneva unito alla susseguente parola, non essendo in uso l'apostrofo, nè si adoperava l'iniziale maiuscola per distinguere i nomi propri : i quali aiuti, da potersi dire dantescamente schermi, essendo oggidì con la mutazione della grafia venuti a mancare, l'equivoco non può sempre ben sostenersi, e per farlo rivivere bisogna imaginare il nome scritto con la grafia antica. Or nel sonetto Dodici donne onestamente lasse il ms. del Bembo ha il v. 10 così, Et Laura mia con suoi santi alti schifi , dove il nome non può altro significare che 322 G. MESTICA la sua donna ; e poichè tutte le stampe hanno Laura mia , a ragione si cita quel luogo per dimostrare che il Petrarca, una volta almeno , ha nominata la sua donna, nelle rime scritte lei ancor viva , incontrastabilmente senza ambiguità e senza veli. Se non che il testo originale viene in buon punto a togliere questa illusione , portando non Laura mia, ma Laurea mea; e qui la scrittura è di mano del poeta stesso, il quale in quel nome non si poteva certo sbagliare ; Laurea, insomma, nella forma latina, come si legge nella lettera del 21 dec. 1336 a Giovanni Colonna, dove all'amico egli afferma reale, non finto, il suo amore e viva la donna in cui l'aveva posto (1); e come parimenti si legge nell'elogio di lei, che il poeta, appena saputane la morte, scrisse in principio di quel suo codice di Virgilio, che ora si conserva nella Biblioteca Ambrosiana di Milano : Laurea, virtutibus illustris ecc. In questi due luoghi la forma latina era naturale , perchè il Petrarca scriveva in latino ; nel son. è un po' forzata, ma egli , vedendo non potersi ivi sostener nemmeno per un momento il solito equivoco con l'aura, si rifugiò in quel latinismo che suscitava un altro equivoco a lui prediletto. E ciò prova anche meglio che il poeta volle sempre salvar l'apparenza, e mantenere verso la bella avignonese, moglie di Ugo de Sade, un doveroso riserbo, usando quel nome in modo che potesse, almeno in apparenza , significare o il venticello o l'alloro, cioè la gloria poetica, a cui egli ardentemente aspirava. Nel sonetto O passi sparsi o penser vaghi e pronti l'ultimo verso, secondo il ms. del Bembo, è così : Deh restate a veder qual è il mio male. Ma il testo originale ha ristate ; e a chi pensi la gran differenza che corre fra restare e ristare, significando atto di durevole permanenza il primo, atto momentaneo il secondo, non può cadere in mente che il Petrarca abbia usato quello dei due verbi che qui riesce del tutto improprio; come improprio sarebbe sostituire restare a ristar ne' versi di Dante (Purg. , C. XVIII) Noi siam di voglia a moverci si pieni | Che (1) PETRARCA, Lett. fam. , lib. II, lett. 9. IL « CANZONIERE » DEL PETRARCA 323 e RISTAR non potem ; però perdona : dove tuttavia alcuni codici e stampe hanno, impropriamente, restar ; e fortuna che la diversa flessione dei due verbi, nella seconda voce singolare dell'indicativo presente, non ha potuto far nascere tale scambio in quest'altro luogo : O dolce padre, volgiti e rimira Com'io rimango sol, se non RISTAI. Finalmente nei primi due versi del sonetto Il cantar novo e ' l pianger delli augelli In sul dì fanno RISENTIR le valli , donde è uscito quel risentir che si legge in tutte le stampe ? Non dalla penna del Petrarca sicuramente, ma da quella di Pietro Bembo, che avendolo segnato nel suo ms. , o dall'antigrafo o di proprio arbitrio, non vi sostituì la parola autentica del codice originale. E n'è seguito che su questo esempio nei vocabolari italiani, e prima in quello della Crusca, si è formata l'accezione di risentire, metaforicamente, nello strano senso di « risonare », soggiuntovi a rincalzo un altro verso del Petrarca Or conosco i miei danni, or mi risento (son. O giorno, o ora, o ultimo momento), dove questo verbo è usato in tutt'altro senso. Ma quel paragrafo, che a risentire attribuisce sull'autorità del Petrarca un tal senso, nei vocabolari italiani deve essere cancellato ; perchè ivi il Petrarca con la sua mano scrisse Il cantar novo e 'l pianger delli augelli In sul di fanno RETENTIR le valli. Il qual verbo è il retentir provenzale, vivente tuttora nella lingua francese col suo significato intransitivo di « risonare » (1), comune già nel trecento alle due lingue volgari provenzale e italiana, come tante altre parole, alcune delle quali nella nostra (1) « Retentir, v. n. Rendre, renvoyer un son éclatant ... Etym. Re ... << et l'ancien verbe tentir, qui vient, indirectement et par tinnitus , du lat. « tinnire; prov. retentir , retendir » (LITTRÉ , Dictionnaire de la langue française). 324 G. MESTICA sono cadute in disuso, altre no ( 1 ) . Nè adoperò solo il Petrarca quel verbo. Nel Supplimento ai Vocabolarj italiani ( a cui quindi fece tenore nel suo Dizionario della lingua italiana Niccolò Tommaseo) il Gherardini mise in mostra ritentire, traendolo dai due bellissimi versi, coi quali Matteo Boiardo dà principio ad un suo sonetto Ancor dentro del cor vago mi sona Il dolce ritentir di quella lira. Se a quell'insigne filologo fosse stata nota nei versi del Petrarca sopra citati la lezione vera, avrebbe egli , anche prima del ritentir, che il Boiardo usa a modo di sostantivo, segnato il retentir del sommo lirico trecentista. Nè si può, a scusa di Pietro Bembo, supporre ch'egli in questi luoghi non si fosse accorto della genuina lezione del testo. Tanto bene se ne accorse, che ciascuna di quelle tre lezioni riportò sul margine del proprio ms. , così : P. Laurea mea - P. ristate - P. retentir; e ciascuna di esse rifiutò cancellandola, al solito, con una linea traversa. Il vero è che tutti gli errori commessi dal Bembo in questo lavoro critico di raffronto procedono dalla sua convinzione che gli fosse lecito sostituire il proprio giudizio e il proprio gusto a quello dell'autore . Ed è vero altresì che segnando sui margini del suo ms. le lezioni che rifiutava, col premettervi la solita P. mostrò egli stesso di riconoscerle per autentiche, e non ebbe in animo d'ingannar chicchessia ; ma questa sua buona fede non menoma l'erroneità del criterio, al quale si attenne. Il raffronto che fece il Bembo del suo ms. (Vaticano 3197) col cod. originale (Vaticano 3195) è anteriore o posteriore al 1501 ? Prima il De Nolhac (2) e quindi anche il Salvo Cozzo ( 3) hanno (1) Esiste nella Biblioteca Barberiniana di Roma un elenco alfabetico delle Voci provenzali usate dal Petrarca , compilato da Angelo Colocci e trascritto da Federico Ubaldini (cod. XLV. 87, cartaceo, in foglio del sec. XVII, cc. 18-24) . Poichè in quell'elenco manca appunto retentire, è da credere che il Colocci nel fare il detto lavoro si attenesse alle stampe (più probabilmente all'Aldina del 1501, dalla quale presero l'erroneo risentir tutte le susseguenti) e non al pregevole codice petrarchesco (ora Vat. lat. 4787) da lui posseduto, che ha in questo luogo la lezione originaria. (2) DE NOLHAC, Le Canzoniere autographe ecc., p. 27 in nota. (3) Vedi più addietro n. 4, p. 303. — Sul punto di licenziare questo scritto - IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 325 asserito che è posteriore ; il che ammesso, bisogna andare a dopo l'acquisto che il Bembo fece del codice originale suddetto, cioè a dopo il settembre del 1544, potendosi arguire anche dalla lettera di lui in data 23 agosto di quell'anno che esso da gran tempo non aveva veduto più il cod. originale, ma soprattutto perchè non si capirebbe ch'egli dopo la stampa dell'edizione aldina 1501 , fosse andato a prestarsi quel codice pel detto raffronto. Allorchè poi lo fece suo definitivamente, cioè nel 1544, egli aveva ben settantaquattro anni, era cardinale di Santa Chiesa ; tra gli acciacchi dell'età e gli uffici che teneva, è credibile che avesse potuto attendere a siffatto lavoro minuzioso? E poi, a che pro? Non aveva da fare una nuova edizione del Petrarca , non aveva da correggere l'antica, su la quale anzi non volle tornare più mai ; e ciò è tanto vero che l'esemplare in pergamena, posseduto da lui , non aveva ai margini, secondo la testimonianza del Crescimbeni che lo esaminò, alcuna postilla . Ma, dato e non concesso che si fosse posto dopo il 1544 a quell'improba fatica, e se non su l'esemplare stampato, sul suo ms. , perchè avrebbe cancellato le lezioni del codice riferite ai margini e non concordanti con quelle del ms. stesso? Le differenze risultavano da sè, stando le une di rincontro alle altre, ed essendo premessa a quelle del codice originale la P. Ma il fatto delle cancellature si spiega perfettamente, ammesso che il Bembo riportasse quelle varianti sul suo ms. prima di consegnarlo al Manuzio come originale per l'edizione che doveva farsi nel qual caso la cancellazione delle lezioni dell' autografo (com ' era creduto allora) dal Bembo non accettate, era necessaria, affinchè il compositore tipografo non prendesse abbagli. E v'è di più ancora. In quel ms., oltre le varianti distinte con la P. e scartate, ve ne ha parecchie appartenenti esse pure al codice orialla stampa ho ricevuto l'opuscolo intitolato Il « Codice Vaticano 3195 » e l'Edizione Aldina del 1501, saggio di studj petrarcheschi di Giuseppe Salvo Cozzo scrittore della Vaticana (Roma, tip. Vaticana, 1893). Io sapeva già di tale pubblicazione, perchè l'egregio sig. Salvo Cozzo, prima di farla, cortesemente mi significò quel suo proposito ; ed egli sapeva della mia, perchè nella stessa occasione io gli dissi di avere già mandato a stampare sul medesimo argomento uno scritto, che è il presente. 326 G. MESTICA ginale, e scritte parimente ai margini senza quel contrassegno, e son quelle sostituite dal Bembo alle rispettive del ms. , le quali egli veniva cancellando. Ma le varianti non contrassegnate con la P. e accettate dal Bembo, non potrebbe egli averle tolte da un altro codice? Che ciò possa essere avvenuto, a me pare non solo difficile, ma impossibile, considerando che le varianti accettate sono segnate su pei margini a lato delle scartate, e considerando soprattutto che anch'esse, come le scartate, appartengono al codice originale. E poichè siffatte lezioni del testo originale sostituite a quelle del ms. comparvero poi nell'edizione aldina del 1501, con questa sola prova si dimostra inconfutabilmente, che il raffronto fra il codice originale del Canzoniere e il ms. del Bembo fu fatto da lui prima che questo fosse consegnato ad Aldo Manuzio per l'edizione suddetta. Da ciò scende legittimo del pari un altro corollario, ed è questo : che, essendo certo che le lezioni marginali del ms. del Bembo, dico quelle contrassegnate con la P. e cancellate, e quelle non contrassegnate ed accolte, appartengono tutte egualmente al codice originale da lui acquistato nel 1544, e del quale è già stabilita l'identificazione col Vaticano latino 3195, ne consegue che il codice del 1544 s'identifica altresì con quello che nel 1501 servi al Bembo per fare sul suo ms. i mentovati riscontri. Resta ad abbattere un'ultima obbiezione , già messa innanzi più volte. Il codice originale (Vat. 3195) in testa alla prima pagina ha la rubrica Francisci petrarche laureati poete Rerum vulgarium fragmenta; e il Bembo nella prima delle due succitate lettere all'amico Quirini, facendo a memoria la descrizione del codice che andava cercando , gli diceva , fra le altre cose, che quello << non havea titolo veruno che egli dimostrasse essere << stato del Petrarca ». Donde si vorrebbe inferire che il Bembo allora non conosceva il codice originale, che fu da lui poco dopo acquistato. Se non che, fermamente, io credo che queste parole non siano state intese a dovere ; perchè egli volle dire che al cod. desiderato mancava non già la rubrica, ossia il frontespizio, ma una dichiarazione esplicita e precisa, la quale facesse fede che IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 327 esso era stato scritto di mano del Petrarca. Ricordiamoci che il Bembo possedeva già fin da prima del 1501 due libretti autografi del Petrarca, esistenti ora nella Bibl. Vat. fra i mss. latini, sotto i numeri 3358 e 3359, e, tenendoli allora sotto gli occhi, in quella lettera ragionava del codice del Canzoniere a ragguaglio di essi. Nè il dir suo poteva riuscire oscuro al Quirini, poichè il Bembo con la lettera stessa mandava a lui , per meglio accertare con quello l'autenticità del codice desiderato, il primo dei due libretti, cioè il Bucolicum Carmen. Orbene , que' due preziosi codicetti nella sottoscrizione annunziano essere stati scritti dal Petrarca per l'appunto. E difatti la rubrica del primo dice così : Bucolicum carmen meum incipit : e dice così la sua sottoscrizione : Bucolicum carmen meum explicit. Quod ipse, qui ante annos dictaveram, scripsi manu propria apud Mediolanum anno huius etatis ullime 1357. La rubrica del secondo è questa: Francisci Petrarce laureati de sui ipsius et multorum ignorantia liber incipit: e questa è la sua sottoscrizione : Hunc libellum ante biennium dictatum et alibi scriptum a me ipso, scripsi hic iterum manu mea et perduxi ad exitum Arquade inter colles euganeos. 1370. Junii 25 vergente ad occasum die. Dalla sottoscrizione dei due libretti (e pel primo di essi, in parte, a causa di quel meum, anche dalla sua rubrica ) emerge chiarissimo che l'uno e l'altro erano stati scritti dal Petrarca medesimo, e perciò giustamente il Bembo li teneva per autografi, come sono pur giudicati oggidì. Ma nulla di ciò si raccoglie dalla rubrica del codice originale del Canzoniere ; e, quanto alla sottoscrizione, esso non l'ha affatto ; onde il Bembo aveva ragione di scrivere al Quirini in quel modo. Ma, dato e non concesso che con le succitate parole della lettera 23 agosto volesse il Bembo significare non altro che la rubrica, la quale veramente c'è, in una descrizione fatta a memoria e per più altri particolari esattissima, qual maraviglia che egli vecchio di settantaquattro anni avesse dimenticato che in testa ad un codice, non veduto più da diecine d'anni, v'era una riga contenente la rubrica ? E ad ogni modo la sanatoria di quella supposta dimenticanza si avrebbe nella se- 328 G. MESTICA conda lettera, dove il Bembo, appena pervenutogli il codice, ravvivandosene in lui la piena reminiscenza, scrive che proprio era quello : « È di mano dell'auttor suo senza nessun dubbio » : parole che perfettamente collimano con l'interpretazione da me data a quelle, riferite qui sopra, della lettera precedente. Si aggiunga, infine, che la minuta descrizione del ricercato codice originale del Canzoniere fatta nella lettera stessa dal Bembo , concorda in tutto, come osservò già il Pakscher ( 1), col codice Vaticano latino 3195, fatta eccezione della rilegatura , che fu rinnovata posteriormente. E poichè l'anteriore conoscenza del codice originale, dimostrata ad evidenza in quella lettera, non si può non rapportare che al tempo in cui il Bembo raffrontò con esso, come abbiamo anche per altra via dimostrato , il suo ms. , qui si trae un nuovo argomento per provare l'identificazione del codice originale del 1544 con quello adoperato nel 1501 per tale collazione. da Finalmente a me pare che ne facciano riprova anche le tre lezioni citate dal Manuzio nel suo avviso Agli Lettori; cioè : 1º se non se, 2º bavarico, 3° chi non à l'auro o 'l perde ; le quali Aldo, contro quelle volute stortamente dai suoi critici , a buon diritto sostiene affermando di averle vedute egli stesso nel testo autografo del poeta « appo M. Piero Bembo ». E tutte e tre difatti il codice Vaticano 3195 le ha per l'appunto. Quanto a bavarico poi, v'è di più ancora ; che il Bembo nel suo ms. aveva segnato barbarico ( la lezione, cioè , voluta da quei censori) , e poi, cancellatolo, sostitui ad esso in margine bavarico, che perciò è fra le lezioni del Vaticano 3195 accettate dal Bembo mercè di quella collazione, e passate quindi nell'edizione aldina del 1501 . E ora torniamo a questa, per definire, con argomenti più sicuri e precisi che non si è fatto sinora , l'altra questione che avevamo messa innanzi. Quali attinenze ha l'edizione aldina del 1501 , per ciò che riguarda il Canzoniere, col codice originale di (1) PAKSCHER , Aus einem Katalog ecc., in Zeitschrift cit. , p. 211, 212. IL « CANZONIERE » DEL PETRARCA 329 esso e con quello del Bembo ? La relazione è provata ad evidenza dai raffronti che ho fatto sin qui tra i due mss.: basta che nella detta collazione a Ms. del Bembo si sostituisca Edizione aldina 1501 ; perchè questa, eccetto i suoi errori materiali segnati per la maggior parte nell'errata- corrige, che Aldo aggiunse in fine del volume, è riproduzione fedelissima di quel ms. Io già l'ho accennato che quel raffronto non è punto completo ; ma oso aggiungere che a provare la derivazione dell' edizione aldina dal ms. del Bembo e non dal cod. originale , nelle lezioni che ho riferite c'è anche di troppo. E tuttavia non posso tenermi dal soggiungerne alcune poche altre veramente caratteristiche. Nella sestina A qualunque animale alberga in terra, al v. 24, invece di Lo mio fermo desir, che è del Vaticano 3195, il ms. bembiano ha Lo mio fermo destin. Nel v. 23 della canzone Giovene donna sotto un verde lauro il ms. bembiano ha Onde procede lagrimosa pioggia, e nel v. 10 del sonetto Amor co' la man destra il lato manco ha Casta bellezza in abito gentile ; dove pioggia e gentile, invece di riva e celeste necessari alla rima, dovettero isfuggire al Bembo per distrazione : e parimente nel madrigale Or vedi, Roma, che giovanetta donna, egli omise, per inavvertenza, la trascrizione del v. 7 Vèr me spietata e ' n contr'a te superba. Orbene anche in questi luoghi l'edizione aldina si conforma pienamente al ms. bembiano. È possibile mai che quel ms. e quell'edizione s'incontrino sempre casualmente in tante lezioni differenti da quelle del cod. originale e anche in errori materiali, talvolta si strani ? Questa identità del ms. bembiano e dell'edizione 1501 apparisce, dopo breve esame, così manifesta, che poco o niun merito vi è a scoprirla ; ond' io temo fortemente che al valoroso critico De Nolhac sia sfuggita solo per aver fatto appena di volo il raffronto, e per cieca fiducia nella sottoscrizione finale dell'edizione suddetta. È indubitato pertanto che il ms. del Bembo, come già asseri un critico anonimo, fin dal 1820 (1), servi per l'edizione aldina del 1501. (1) Vedi, più addietro, n. 2, p. 315. 330 G. MESTICA Dunque Aldo Manuzio nella sottoscrizione posta in fine all'edizione suddetta non disse il vero ? È opportuno metterla qui sotto gli occhi : Impresso in Vinegia nelle case d'Aldo Romano nel anno MDI del mese di Luglio et tolto con sommissima diligenza dallo scritto di mano medesima del Poeta havuto da M. Piero Bembo. Con la concessione della Illustrissima signoria nostra, che per X anni nessuno possa stampare il Petrarcha sotto le pene, che in lei si contengono. E giova altresì rammentare che nell'avviso Agli lettori Aldo chiama quell'autografo << testo diligentissimamente da esso [ Petrarcha] scritto in << buona charta, il quale io appo il sopradettovi M. Piero Bembo << ho veduto ». Questa replicata dichiarazione è conforme a quella di Carlo Bembo nell'istanza fatta per ottenere il privilegio della stampa ; ma in quell'istanza era pure asserito che anche il volume delle Terze Rime di Dante si doveva comporre su l'autografo del poeta. Falsa la seconda asserzione, si potrebbe dire falsa per ciò anche la prima. Il testo che servi all ' edizione aldina 1502 della Commedia fu il ms. del Bembo esemplato sul codice da lui posseduto e ora Vat. lat. 3199, quello appunto che il Boccaccio nel 1359 aveva mandato in dono al Petrarca. In quel codice, e proprio nella prima carta, v'è l'epistola metrica latina di dedica, indirizzata dal Boccaccio stesso all'amico. Come va dunque che Pietro Bembo, conoscendo quel ms. per lunga pratica, poichè lo aveva in famiglia, lo credette testo autografo della Commedia ? non potendosi ammettere che il giovine Carlo nella sua domanda del privilegio della stampa lo qualificasse per autografo senza l'intesa e il consenso del fratello maggiore e letteratissimo. Bisogna ricordare che a quei tempi, e anzi per quei secoli fino ai nostri giorni, si è creduto che quel codice (il quale probabilmente è uno dei cento trascritti nell' officina di Francesco di ser Nardo da Barberino) fosse di mano del Boccaccio, e perciò è naturale che il Bembo gli attribuisse grandissima autorità ; e così può in qualche modo spiegarsi la qualificazione datagli, sia pure con esagerazione, nell'istanza suddetta. Ma il vero è che nella sottoscrizione finale dell'edizione aldina IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 331 1502 delle Terze Rime di Dante non vi è nulla a conferma. Essa infatti dice semplicemente così : Venetiis In Aedib. Aldi Accuratissime. Men. Aug. M.D.II. E più sotto : Cautum est nequis hunc impune imprimat librum nobis invitis. È chiaro dunque fino all' evidenza che, non ostante l'identica asserzione di Carlo Bembo per i due mss. , all'edizione del Petrarca, ma non a quella del Dante, vollero il Bembo e il Manuzio attribuita la derivazione dall'autografo rispettivo. Ma dunque essi furono bugiardi per l'edizione del 1501 , sinceri per quella dell'anno seguente ? Sinceri per questa senza alcun dubbio ; ma prima di qualificarli bugiardi per l'altra bisogna pensarci, pur mantenendo fermo che l'edizione aldina del 1501 sia riproduzione del ms. del Bembo e non del codice originale. Per noi ora non è più dubbio che il Bembo tenne il codice originale sotto gli occhi e se ne valse (a modo suo, come abbiamo veduto) a correggere il ms. preparato per l'edizione suddetta. Aldo Manuzio, come pure Lorenzo da Pavia, aveva veduto quell'originale in mano del Bembo, e non ignorava certo l'uso che ne aveva fatto, e, quanto alle correzioni recate nella lezione di quel codice, può esser benissimo che il Bembo medesimo gli avesse detto che consistevano (e per la maggior parte delle contrasegnate con la P. è verissimo) in modificazioni di grafia ; Aldo inoltre poteva essersene accertato coi propri occhi guardando nei margini del ms. che gli serviva per la stampa. Quindi egli aveva qualche ragione di credere riproduzione del codice originale l'edizione del 1501. Nè la sua asserzione si può dire bugiarda rispetto ai Trionfi ; perchè di essi il poeta lasciò, se non una lezione definitiva, gli autografi, che tutti o quasi tutti, si conservavano al tempo dell'edizione aldina, e il Bembo stesso ne possedeva alcuni, che in parte si conservano tuttora nel Vaticano 3196, contenente abbozzi frammentari autografi del poeta. E bisogna anche ricordare le eccezioni che, a proposito dell'autenticità dei Trionfi, fa nell'avviso Agli lettori lo stesso Aldo con le parole che abbiamo riferite più addietro. Quindi ciò che si asserisce nella sottoscrizione finale dell'edizione suddetta, si pel Canzoniere come per i Trionfi, se non 332 G. MESTICA ha pienezza di verità, ne ha però un buon fondamento; e Aldo Manuzio, quand'anche abbia scientemente esagerato la cosa, non può essere imputato di menzogna. Ma degnissima di nota è su questo argomento la delicatezza di Pietro Bembo. Egli della troppo recisa asserzione del suo amico non dovette essere contento, e perciò negli esemplari in carta bona la volle temperata, aggiungendo alla sottoscrizione finale delle edizioni comuni le parole che io tolgo da quello che si conserva nella Comunale di Palermo, e che certamente furono stampate anche negli altri, perchè il Crescimbeni nel 1700 le vide nell'esemplare appartenuto già al Bembo stesso. In quella sottoscrizione dunque dopo « havuto da M. Piero Bembo » si legge et dallui, dove bisogno è stato, riveduto et racconosciuto. Ho detto che il Bembo dovette farle aggiungere negli esemplari in pergamena dopo veduta la sottoscrizione stampata negli esemplari in carta comune; ma potrebbe anche darsi che la sottoscrizione così integralmente fosse stata tra il Bembo e Aldo concordata prima, e che questi, mantenendola nelle edizioni riserbate a quello, per non menomare il credito della stampa la sopprimesse nelle altre. Comunque sia, ciò che importa nella questione speciale non è il modo, ma la cosa ; e la cosa è onorevolissima al gran letterato e patrizio veneziano. Se non che siffatte parole, riservate ai quindici esemplari in pergamena, che signi ficano esse ? perchè veramente, a primo tratto, non vengono alla mente ben chiare. Orbene, premesso che esse non possono riferirsi al libro stampato, ma all'autografo, dànno, secondo me, questo senso che il Bembo riguardò quell'autografo, e ogni volta che gli parve necessario lo corresse. Ciò risulta dal contesto, perchè l'inciso, dove bisogno è stato, importa assolutamente che il riveduto abbia qui il significato di « corretto » come nella nostra lingua, e in eguali casi , lo ha tuttora. La parola poi presa in tal senso risponde pienamente al fatto ; poichè il Bembo, come abbiamo veduto e come apparisce dal suo ms. , non accettò tutte quante le lezioni di quello. Il racconosciuto poi, a cui del pari va riferito l'inciso, penso che sia rafforzativo del participio pre- IL CANZONIERE » DEL PETRARCA 333 cedente, e ne determini meglio il senso recando la notizia che della lezione portata dal Codice originale il Bembo si era accertato coi propri occhi, e, salvo le correzioni fattevi, l'aveva sempre accolta. Pietro Bembo dunque con quella clausola temperò la troppo recisa asserzione di Aldo circa l'identità dell'edizione 1501 col codice originale, e, tenuto conto de' criteri da esso in buona fede adoperati nella collazione, dobbiamo dire che affermò il vero. Possiamo dunque concludere : 1° Che l'edizione aldina del 1501 fu fatta non sul Vat. 3195, ma sul Vat. 3197, dovuto alla penna di Pietro Bembo ; 2° Che questo ms. ha dal codice originale svariate e notevoli differenze di lezione; 3° Che il Bembo, prima di consegnarlo al Manuzio per la stampa, lo collazionò col detto codice originale ; 4° Che perciò il codice originale servi, pel Canzoniere , sia pure incompiutamente, e con variazioni arbitrarie di Pietro Bembo, all' edizione aldina del 1501 ; 5° Che questa, rispetto al Canzoniere, si allontana dal codice originale quanto il manoscritto che fu adoperato per essa. In relazione ad essa le edizioni aldine susseguenti del 1514, del 1521 , del 1533 e del 1546, portarono bensì, specialmente quella del 1514, giuste correzioni di errori materiali ; ma, sempre più ammodernando in alcune parti la lezione e la grafia delle Rime, tolsero a queste il colorito natio ; senza dire che la divisione del Canzoniere da esse fatta in due parti, l'una in vita e l'altra in morte di Madonna Laura, non solo non è nel codice originale, ma contraddice, come in altro luogo dimostreremo, all'espressa volontà del poeta, e diede pure occasione a' suoi smembramenti posteriori, cominciati nel 1525 dal Vellutello e consumati nel 1820 da Antonio Marsand. Inoltre è merito singolare dell'edizione aldina del 1501 l'interpunzione introdotta per la prima volta nelle Rime del Petrarca. Che se quella interpunzione nelle sue particolarità non è sempre accettabile, rispetto ai tempi fu nell'arte di scrivere e di stampare un grande progresso, del quale non al vecchio Aldo, come altri affermò, è dovuta la lode, ma a Pietro Bembo,. perchè riprodotta puntualmente dal suo ms.: resta pel sommo tipografo la lode dell ' esecuzione accurata , se non perfetta , e di aver fatto di quel PeGiornale storico, XXI, fasc. 62-68. 22 334 G. MESTICA 8 trarca il primo libro italiano impresso co' suoi bellissimi caratteri italici. Quanto alle più antiche edizioni del Petrarca, non eccettuata la padovana del 1472, la quale veramente fu condotta sul medesimo codice originale, ma con numerose inesattezze ed errori, l'aldina del 1501 di gran lunga le supera tutte. Che se questa, divenuta poi modello alle susseguenti edizioni delle Rime del Petrarca, ha perpetuate in queste le arbitrarie variazioni al testo autentico, complessivamente è restata ad esso sempre più vicina di tutte le altre. Onde con ragione per trecentoventi anni ebbe titolo di volgata fino all'edizione marsandiana, che glie lo tolse a gran torto; perchè in questa il Canzoniere, assai spesso per la grafia, non di rado per la lezione, ma soprattutto per lo sconvolgimento dell'ordine, dal codice originale è ben più lontano. GIOVANNI MESTICA. + ed al VARIETÀ ni 30 IL LUOGO DI NASCITA DI MADONNA LAURA E LA TOPOGRAFIA DEL CANZONIERE PETRARCHESCO Dove nacque la donna resa immortale dal Petrarca ? -Vecchia questione; come tante altre che da secoli si agitano sulla vita del fortunatissimo tra i poeti d'ogni nazione e d'ogni tempo : vecchia, ma non vana, nẻ accademica. Poiché la conoscenza del luogo in cui Madonna Laura vide la luce è di gran rilievo (vedremo) per determinare in modo esatto, dove si svolga il soave idillio campestre che abbella ed anima tanta parte del Canzoniere; determinazione che, a sua volta , giova alla retta intelligenza di più luoghi oscuri o controversi delle rime del Petrarca, e accresce il godimento estetico di chi riguardi serenamente certe delicate pitture dovute a quellà mano maestra. D'altra parte, appunto perché la patria di Laura e la scena degli amori petrarcheschi sono intimamente congiunte, la ricerca di quella non può né deve scompagnarsi da una escursione, non inamena, pe' luoghi ové « arse ed alse » il poeta . E a questa invitiamo ora il lettore. Ci sarà guida Messer Francesco stesso ; al quale verremo stringendo i panni addosso per modo, da ottenerne indizî che ci pongano in grado di scegliere, fra le risposte che si posson dare alla domanda suddetta, quella che offra, secondo noi, maggiori probabilità di cogliere nel segno. E sarà - ci piace preavvisarne chi, paziente e cortese, vorrà seguirci — risposta nuova agli studiosi del maggior lirico del trecento. 336 F. FLAMINI I. Chi non ricorda il celebre sonetto del Petrarca, che comincia: << Quel ch'infinita provvidenza ed arte? » Iddio , scrive il poeta, venendo in terra, tolse dalla rete Giovanni e Piero, e di sé, nascendo, a Roma non fe' grazia, a Giudea sí : tanto sovr'ogni stato umiltate esaltar sempre gli piacque! Ed or di picciol borgo un Sol n'ha dato, tal che Natura e 'l luogo si ringrazia (1), onde sí bella donna al mondo nacque. Come ognun vede, questi versi sono scritti apposta per metter bene in luce l'umiltà del luogo che ha dato a Laura i natali. E col medesimo intento Messer Francesco nel Trionfo della Morte (II, 163 e segg. ) si fa dire da Laura: In tutte l'altre cose assai beata, in una sola a me stessa dispiacqui : che in troppo umil terren mi trovai nata. Che grave ostacolo, siffatte esplicite affermazioni, per coloro che voglion Laura nata proprio entro il cerchio delle mura dell'antica sede papale ! Se ne avvidero, già in antico, gli Avignonesi stessi desiderosi di conservare alla loro città codesto vanto: né c'è qui bisogno di rammentare, che l'impostura solenne di Maurizio de Sève fu ideata forse appunto per contentarli ; leggendosi nel sonettuzzo pseudopetrarchesco rinvenuto, al dir di costui, nel preteso sepolcro di Laura, ch'ella « in borgo de Avignone Nacque << e mori ». Curioso è osservare, piuttosto , come nẻ anche tutti coloro che prestarono fede alla scoperta e alla genuinità del sonetto s'inducessero a tener per risolta la contesa in favore d'Avignone; di tanto peso pareva la testimonianza ben altramente sicura de' citati versi del Petrarca ! « Laura scrivea mons. Lo- < dovico Beccatelli fu di sangue nobile, nata però fuor d'Avi- << gnone, in un luogo che il Petrarca picciol borgo chiama ; di - - (1) Il luogo ne ringrazia legge un antico manoscritto indicato dal SORIO (Riv. Ginnasiale, fasc. I , 1855 ; p. 15 dell' estratto). . VARIETÀ 337 << che anco fanno testimonio quelle rime , quali ch'elle si siano, << che furon trovate, già 25 anni, nella sepoltura di Madonna Laura << in S. Francesco d'Avignone : donde potemo pensare, che fosse << qualche picciol luogo non lontano d'Avignone ». Non dubitò, invece, di ravvisare nel picciol borgo o Avignone stessa o un sobborgo d'Avignone ( quello de' Frati Minori) il benemerito autore dei Mémoires pour la vie de Pétrarque. Il quale pel suo assunto d'identificare la Laura del poeta con Laura Noves De Sade credette, a torto , di capitale importanza il far nascere la prima in Avignone ; come se della seconda si sapesse il luogo preciso in cui vagi bambina, e non fosser due quistioni ben distinte quella della patria e quella del soggiorno stabile di Laura. Ma che il dimostrare prettamente avignonese la donna amata dal Petrarca non sia punto necessario per poter fare buon viso all'opinione dell'abate De Sade, bene intese Francesco D'Ovidio ; il quale, riassumendo, e da par suo ragionando, e confortando di nuovi, gli argomenti addotti a sostegno di tale sentenza sia dal vecchio erudito francese , sia dal nostro Zefirino Re nel saggio sui Biografi del Petrarca (1), è riuscito ad una confutazione, a parer nostro, vittoriosa del Woodhouselee e degli altri oppositori. Egli ha voluto, per dire il vero, rompere una lancia anche in favore della interpretazione del picciol borgo data dal De Sade, e ciò ha fatto con maestria di schermitore esperto ; non senza per altro confessare, che « non ostante tutte le considerazioni << fatte per attenuare la stranezza di cotale iperbole , essa resta << pur sempre un po' dura ad inghiottire » (2). Durissima ! Poiché l'idea madre, nell'ordine logico e psicologico, è contenuta senza dubbio nell'ultima terzina del sonetto ; il poeta, colpito dall'umiltà del luogo ov'è sorto il suo Sole - un picciol borgo - ne ha cercata e ritrovata la causa nel fatto (da lui espresso qui in forma d'epifonema conchiudente un'esemplificazione) , che Iddio suole esaltar gli umili : « tanto sovr'ogni stato umiltate esaltar sempre << gli piacque ». - Esaltar gli umili ? Ma allora come può trattarsi qui d'Avignone ? dirà ognuno che ricordi i tanti passi del canzoniere e delle epistole, in cui il Petrarca inveisce contro la nuova Babilonia, splendida per malnate ricchezze, e le profeta la rovina: (1) Fermo, Ciferri, 1859, pp. 50 e segg. (2) Madonna Laura, nella Nuova Antol. , vol . XVI , serie 3ª (p. 14 dell'estratto). 338 F. FLAMINI Gl'idoli tuoi saranno in terra sparsi, e le torri superbe, al ciel nemiche. - Picciol borgo? - Avignone ha tuttora, come a tempo della signoria papale, un aspetto monastico ad un tempo e guerresco. << De cette époque scrive Eliseo Reclus - datent les principaux << monuments de la cité. Les trente-neuf tours de la vieille mu- << raille d'enceinte, les nombreux clochers, isolés ou en groupes, « que l'on aperçoit pardessus les créneaux, les bourguets ou pe- << tites tours, que les bourgeois avaient élevées par centaines aux <<< temps de leur liberté , et dont plusieurs se voient encore au <<< milieu des maisons, la masse énorme du palais des papes, qui << se dresse sur le rocher des Doms , semblent une vision du << moyen âge ». E quale aspetto doveva presentare questa città quando era la sede del papato, cioè « il centro religioso, e può dirsi <<< anche politico , dell'occidente , dove conveniva tanta gente da << ogni parte della terra, e suonavano tante lingue, e s'accumu- <<< lavano tante ricchezze, e da cui partivano parole che rivolge- « vano il mondo ! » (1) . Per quanto intensi , l'odio e il disprezzo del Petrarca verso l'usurpatrice della santa sedia non potevano fargli avere le traveggole : e diciamo cosí, perché in verità egli non aveva interesse o ragione di trasformare deliberatamente codesta città in un'umile borgata, per farla poi, come umile, esaltare da Dio : da Dio ch'egli anzi tante volte le invoca contro, punitore e vendicatore . Codesta bugia , meschina e sciocca , sarebbe tornata ad onore della città ch'egli aveva tanto a noia ! Ma picciol borgo sarebbe stata Avignone pel Petrarca - secondo il De Sade << in confronto delle grandi città d'Italia ». Passi l'iperbole ; spiegabile , alla meglio , col modo di pensare e d'esprimersi del poeta. Il guaio è, che nel sonetto l'idea di codesto confronto non si trova né espressa , né sottintesa , né implicita in alcun modo. Picciol borgo si contrappone a Sole; nulla piú : il contrapposto fra Roma e la Giudea nell'esempio parallelo della nascita di Cristo scaturisce unicamente dalla necessità di mettere in rilievo il concetto di umiltà, che invero nel nome della sede del popolo eletto e della stirpe di Davide non era naturalmente inchiuso di per sẻ, come nella frase (tanto tormentata e discussa, eppure cosi chiara) con cui è accennata la patria di Laura. Né vale il soggiungere, che, se non nel sonetto, il con- - (1) ZUMBINI, Valchiusa, nella Rassegna settiman. del 1º sem. 1879, p. 202. VARIETÀ 339 fronto trovasi in quel passo de' Trionfi, di cui sopra abbiamo riferita una terzina. Rileggiamolo , infatti , fedelmente parafrasato in prosa, tutto intiero : « Abbastanza beata (dice Laura al poeta) << in tutte l'altre cose , in una sola dispiacqui a me stessa : che << mi trovai nata in un terreno troppo umile. Veramente, mi << dispiace anche di non esser nata almeno più presso alla « tua Fiorenza ; ma devo in ogni modo chiamare abbastanza bello << un paese in cui ho avuta la ventura di piacerti ; poiché, se non << t'avessi conosciuto, non sarei ora in tanta rinomanza » ( 1). È chiaro, che qui il concetto del primo periodo è al tutto indipendente da quello del secondo. Ciò che duole a Laura è soltanto l'umiltà del luogo natio ; quanto alla sua poca bellezza, di fronte ai paesi dell'Italia più prossimi alla patria del poeta de' quali avrebbe avuto caro perciò di venir al mondo lentieri se ne dà pace, pensando che forse, se quivi fosse nata, non avrebbe avuto modo d'innamorare il suo Petrarca. - in uno -, VONẻ Avignone, dunque , ci par lecito conchiudere , né un sobborgo d'Avignone, può esser l'umil terra — umile di per sé stessa, e non a paragone d'altre —, che ha dato i natali a madonna Laura. Non può essere un sobborgo, anche perché ( lasciando stare lo sforzo che occorre a chi voglia torcere a tale significazione la frase cosí esplicita del sonetto) , esso dovrebbe in ogni caso trovarsi sur una collina, per quello che il poeta stesso ci fa sapere altrove, come diremo, del luogo ov'è nata la sua donna. E Avignone giace tutta in piano, anche ora del pari che in antico ; se togli il quartiere che contiene il palazzo apostolico, il palazzo dell'arcivescovo e la chiesa metropolitana, cioè appunto quanto v'ha di più splendido e superbo nella città che fu stanza temporanea dei papi . II. Ma se Laura , « candida rosa nata in dure spine » ( Parte I, son. 188 ) , non vide la luce ad Avignone, vi dimorava ella stabilmente? Stabilmente, s'intende, senza punto escludere per ciò, che non potesse villeggiare, buona parte dell'anno, ne' dintorni. Sí, senza dubbio, risponderemo anche noi col D'Ovidio. (1) Ma assai fu bel paese ond'io ti piacqui ; ché potea il cor, del qual sol io mi fido, volgersi altrove , a te essendo ignota , ond'io fora men chiara e di men grido. 340 F. FLAMINI Che Laura passasse tutta la vita in un luogo di campagna presso Valchiusa , da molti fu detto e ripetuto , ma nessuno piú crede oggimai. In un sonetto composto tre anni dopo la morte della donna amata, nel 1351, il Petrarca contrappone cosí chiaramente alle scaturigini della Sorga il luogo ove la cara estinta soleva far soggiorno, da non lasciar luogo a incertezze : Mira il gran sasso donde Sorga nasce, e vedra'vi un che, sol tra l'erbe e l'acque, di tua memoria e di dolor si pasce. Ove giace ' l tuo albergo, e dove nacque il nostro amor, vo' ch'abbandoni e lasce, per non veder ne' tuoi quel ch'a te spiacque (1). L'ultimo verso di queste terzine forse si connette, certamente ci richiama, a un altro sonetto composto più anni avanti, quando madonna Laura era ancor viva, nel quale è in fondo il medesimo contrapposto, e che ci dà la chiave per iscoprire dove e quale fosse « l'albergo » di Laura. Eccolo : Cercato ho sempre solitaria vita (le rive il sanno e le campagne e i boschi) per fuggir quest'ingegni sordi e loschi, che la strada del ciel hanno smarrita : e se mia voglia in ciò fosse compita, fuor del dolce aere de' paesi toschi , ancor m'avria tra' suoi be' colli foschi Sorga, ch'a pianger e cantar m'aita. Ma mia fortuna, a me sempre nemica, mi risospinge al loco ov'io mi sdegno veder nel fango il bel tesoro mio: alla man ond'io scrivo è fatta amica a questa volta, e non è forse indegno; Amor sel vide, e sal Madonna ed io ! Lascio questi ultimi versi ; chẻ il senso lor m'è duro, né discuterlo gioverebbe al nostro assunto. Il resto si capisce. - Per fuggire la mala compagnia , tra cui ora la fortuna lo risospinge e tra cui tanto gli duole di veder Laura , messer Francesco ha sempre cercato la solitudine campestre. Se gli fosse concesso, sarebbe ancora in Valchiusa , poiché non può in Toscana. E (1) È il sonetto XXXVII della seconda parte. - VARIETÀ 341 te non è difficile, né anche, indovinare qual sia il luogo ov'egli si trova cosí a malincuore, tra « ingegni sordi e loschi » che hanno smarrita la via del cielo, e dove giace « nel fango » il suo bel tesoro. Mille passi delle opere latine del Petrarca, in ispecie delle epistolae sine titulo, qui possono servirci di chiosa e d'illustrazione: ne' quali il grande poeta dipinge coi più foschi colori la corruttela non pure della corte papale, ma e d'Avignone - « ob- << scoenissima sentina vitiorum omnium », infestata dagli avversarî di Dio (<< omnis vicus his vermibus scatet ! ») , presso i cui cittadini << foedos ac lubricos » non c'è nessuna pietà , nessuna carità, nessuna fede , « nulla Dei reverentia , nullus timor, << nihil sancti, nihil iusti, nihil aequi, nihil denique vel humani ». Che più ? Alle quartine del sonetto non si potrebbe desiderare miglior dilucidazione di queste altre, scritte in Valchiusa, lungi da Laura e dal cardinal Colonna, le due sole persone che il Petrarca dolevasi di non aver quivi con sẻ: (« Dell'empia Babilonia ond' è fuggita ogni vergogna, ond' ogni bene è fôri, albergo di dolor, madre d'errori, son fuggit' io per allungar la vita. Qui mi sto solo, e, come Amor m'invita, or rime e versi, or colgo erbette e fiori , seco parlando, ed a' tempi migliori sempre pensando: e questo sol m'aita. In Avignone , dunque , il domicilio di Laura. Che peraltro ella non vi soggiornasse tutto l'anno, è ugualmente provato e indubitabile. Non c'è sonetto, o canzone, o sestina, o madrigale del Canzoniere petrarchesco, in cui sia dato immaginare attorno alla persona gentile e alla chioma bionda della bellissima fra le gentildonne di Provenza altro sfondo o contorno , che l'azzurro del cielo, il verde dei prati e delle selve , lo specchio delle acque. Se è da credere a ciò che il poeta stesso lasciò scritto in quella nota del celebre codice di Virgilio conservato in Ambrosiana , della cui autenticità ormai non è più lecito neppur dubitare, il suo innamoramento ebbe luogo in Avignone, nella chiesa di Santa Chiara. Impossibile ! griderebbero, tornando a vivere , i paladini d'una Laura campagnola. Sentite dov'è seguito : - Nova angeletta sovra l'ale accorta scese dal cielo in su la fresca riva, 342 F. FLAMINI là ond' io passava sol per mio destino. Poi che senza compagna e senza scorta mi vide, un laccio, che di seta ordiva, tese fra l'erba ond' è verde il cammino. Allor fui preso, e non mi spiacque poi, sí dolce lume uscia dagli occhi suoi. Rispondiamo. Questo madrigaletto ha certamente il suo valore : prova che il Petrarca, nel quale era cosí vivo e profondo il sentimento della natura, alla cui fantasia Laura morta appariva ora in forma di ninfa scaturita fuor del più chiaro fondo della Sorga, ora di donna vagante per diporto sulla fresca erba e sui fiori (1), ben può aver trasportata fantasticamente, alcuna volta, la scena dell'amor suo dalle chiese, dalle vie strette e tortuose, dai mefitici chiassuoli avignonesi nel puro aere delle campagne circostanti. Ma alcuna volta, s'intende, non già abitualmente. Volere scorgere una continuata menzogna, o finzione che dir si voglia, in questo canzoniere, tutto pieno di « fior, frondi, erbe, ombre, << antri, onde, aure soavi » sempre in proposito di Laura o dell'amore per lei nutrito tanti anni dal poeta , sarebbe non meno assurdo che far di questa diva una signora di campagna , nata vissuta e morta all'ombra del campanile della sua parrocchia. E né anche è lecito supporre , che la bella donna, anziché villeggiare negli ameni dintorni della sua città, si contentasse d'andare a diporto fuori delle mura. Lasciando stare l'inverosimiglianza di passeggiate cosí faticose e frequenti, come sarebbe giuocoforza immaginare, volendole metter d'accordo con la topografia del Canzoniere, in questo moltissimi passi alludono chiaramente ad un soggiorno campestre di madonna Laura. Qualche esempio: Mira quel colle, o stanco mio cor vago; ivi lasciammo ier lei , ch'alcun tempo ebbe qualche cura di noi e le ne ' ncrebbe ecc. (2). Qual miracolo è quel, quando fra l'erba quasi un fior siede, ovver quand'ella preme col suo candido seno un verde cespo ! Qual dolcezza è nella stagione acerba vederla ir sola coi pensier suoi insieme, tessendo un cerchio all'oro terso e crespo ! (3). (1) Son. XIII della seconda parte. (2) Parte I, son. 184. (3) Parte I, son. 109. VARIETÀ 343 Solo al mondo paese almo, felice, verdi rive, fiorite, ombrose piagge, voi possedete, ed io piango 'l mio bene (1). Sul primo di questi passi non son dubbî di sorta. Laura è restata, e resta, su quel colle ond'egli ha dovuto allontanarsi : trovasi adunque in campagna. Vero è, che altri recentemente ha pensato all'altura addossata ad Avignone : ma questa era una rupe scoscesa (il rocher des Doms) , che oltre ai monumenti già ricordati conteneva soltanto « quelques rues voisines » ( 2) , laddove il Petrarca parla d'un colle « fresco , ombroso , fiorito e << verde », di cui Laura calpesta l'erba (3) . Il secondo passo, ancorché non ci offra una prova esplicita di quanto c'importa in questo momento dimostrare , pure , rappresentandoci Laura tra erbe e fiori, sola e in atteggiamenti diversi, n'è indizio tutt'altro che spregevole. Il terzo , in fine , taglia addirittura il nodo alla quistione. Mentre il poeta piange la lontananza del suo bene, posseggono questo « verdi rive, fiorite ombrose piaggie ». Ma quali saranno queste piaggie e queste rive , e il colle su cui talvolta dimora, e gli altri bei colli d'intorno, ombrosa chiostra ov'ella << i dolci passi onestamente move? ». « Allorquando il Petrarca, qualche anno dopo la morte della sua Laura, rivide i luoghi ch'erano stati spettatori de' suoi ardori. e de' suoi tormenti, gli uscirono dalla penna , tra più altri, questi versi: Sento L'AURA mia antica, e i dolci colli veggio apparir onde ' l bel lume nacque che tenne gli occhi miei, mentr'al Ciel piacque, bramosi e lieti, or li tien tristi e molli . O caduche speranze ! o pensier folli ! vedove l'erbe e torbide son l'acque e vôto e freddo ' l nido in ch'ella giacque , nel quale io vivo e morto giacer volli. Sorvoliamo, pel momento, sull'accenno al luogo di nascita della donna amata dal poeta, e fermiamoci sulla seconda quartina. Non c'è davvero bisogno dei richiami de' commentatori , perché il (1) Parte I , son. 171. (2) EXPILLY , Dictionn. géogr. de la France , Amsterdam , 1764 , vol . I ; G. M. SUAREZ, Descriptiuncula Avenionis ecc. , Lione, 1676, p. 12. (3) Vedi il sonetto successivo . 344 F. FLAMINI pensiero corra , leggendolo , alle chiare fresche e dolci acque ! Un richiamo, vero e proprio, è già l'ultimo verso. Ricordate? S'egl'è pur mio destino (e il Cielo in ciò s'adopra), ch'Amor questi occhi lagrimando chiuda, qualche grazia il meschino corpo fra voi ricopra ecc. I dolci colli adunque, e di conseguenza anche il colle dove Laura 'soleva villeggiare, saranno da ricercare non lontano dalle acque famose; e a che fiume queste appartengano , ha già ben determinato, ragionando a fil di logica, il D'Ovidio. Poiché il Rodano è tutt'altro che limpido, e della Durenza il Petrarca stesso si è presa la briga di farci sapere che è torbida , il puro fume, nelle cui acque chiare e fresche la donna da lui amata solea bagnar gli occhi e il viso ( 1) — fiume, si badi, non ruscello —, ha da essere, senza alcun dubbio, la Sorga. Nitens Sorga, scrive infatti il poeta, contrapponendola alla Druentia pallens (2). Ora la Sorga, che, dopo aver confuse le sue acque con quelle dell'Ouvèze, sbocca nel Rodano un par di leghe al Nord d'Avignone, giunta nel suo medio corso circa all'altezza di questa città, procede per alquanti chilometri prossima e parallela al tratto piú settentrionale d'una catena di colline alte da cento a dugento metri, la quale, cominciando sopra Saint-Saturnin ( 3) , si stende e prolunga a mezzodi fino ad accostarsi, presso Caumont e BonPas, alla Durenza. Chi salga la pendice orientale di questi poggi, verso il centro della catena, si trova alle spalle, dalla parte di destra, la Sorga, a sinistra e di fianco la Durenza, di faccia, a qualche miglio, Avignone, dietro, più lontana, Valchiusa. E senza troppo affaticarsi può scendere, come piú gli aggrada, in riva all'una o all'altra delle due riviere. Ecco l'ombrosa chiostra di bei colli, dove Laura villeggia e va a diporto, dove il poeta finge d'aver la visione profetica della morte di lei : (1) Vedi il sonetto CXI della parte prima. (2) Cfr. D'Ovidio, Questioni di geografia petrarchesca ; estr. dal vol. XXIII degli Atti dell'Accad. Napolitana di scienze morali e politiche, pp. 14-17. (3) Quivi appunto, fra Saint-Saturnin e Morières, oggidí l'attraversa , mediante un traforo lungo 1 chilometro, la strada ferrata da Aix ad Avignone. VARIETÀ 345 Una candida cerva sopra l'erba verde m'apparve, con duo corna d'oro, fra due riviere (1), all'ombra d'un alloro, levando ' l sole, alla stagione acerba. Fra questi colli e la Sorga si stende la piaggia che ascolta le < dolci parole » e conserva « i vestigî del bel piede » (Parte I, son. 111 ) ; poiché la bella donna usava « gir fra le piaggie « e il fiume, E talor farsi un seggio Fresco, fiorito e verde ». Ně agli amori del Petrarca è estranea la Durenza , che costeggia dall'opposta parte questi colli. Virentissima olim làurus mea vi repentinae tempestatis exaruit, quae una mihi non Sorgiam modo sed Druentiam Ticino fecerat cariorem. Cosi leggiamo nella terza epistola del libro ottavo delle Familiares : ed è un passo importantissimo per la topografia del Canzoniere; poiché dimostra, che il Petrarca aveva occasione di veder Laura non pure sulle rive della Sorga, ma altresí su quelle della Durenza. Se ne ha piena ed esplicita conferma in una terzina, la penultima, del Trionfo della Divinità : A riva un fiume che nasce in Gebenna Amor mi dié per lei sí lunga guerra, che la memoria ancor il core accenna. Nella quale il D'Ovidio ha messo in sodo, col suo solito acume, trattarsi non già del Rodano , come s'è creduto , ma della Durenza, che nasce dal Monginevra (latinamente Gebenna ) (2). E poiché, se il Petrarca in questi passi avesse voluto designare metonimicamente Avignone, avrebbe certo accennato al fiume reale sulla cui riva essa giace , e non all'affluente che scorre e sbocca in esso fiume alquanti chilometri più a Sud, si può con- (1) Cioè, secondo la piú comune accezione del vocabolo, tra due fiumi di qualche conto, quali sono appunto la Sorga e la Durenza ; non già tra i diversi rami d'uno stesso fiume, come ad esempio quelli della Sorga, a cui si potrebbe anche pensare. (2) Quest. di geogr. petr. , pp. 12-14 ; Postilla alle questioni , p. 9 del- l'estratto. Gebenna è nome che nell'evo medio si trova dato anche a Ginevra, bagnata dal Rodano; ma quando mai s'è sentito dire, che i fiumi nascano dalle città , e nascano dopo aver già percorso un lungo tratto? Al Petrarca, che ab alto frondentis colle Gebennae deve aver vedute piú volte co' proprî occhi le sorgenti della Durenza, sarà sembrato d' usare una perifrasi tale da non dar luogo ad ambiguità di sorta. 346 F. FLAMINI chiudere, che il temporaneo soggiorno campestre di Laura dovett'essere sui colli fra la Sorga e la Durenza; vale a dire sulla destra della Durenza, poiché la Sorga è poco più d'un ruscello. III. Adunque Laura, nata in una piccola ed umile borgata, da Avignone, sua stanza , recavasi nella bella stagione a villeggiare sopra un colle non lontano dalla città, posto fra i due principali affluenti del Rodano che attraversano il dipartimento di Valchiusa. Or non si affaccia qui subito , spontaneo , alla mente il sospetto, che la borgata sia sul colle , che il luogo di nascita coincida col luogo di diporto, che insomma la diva del Petrarca non isdegnasse d'onorare della sua presenza , quando lasciava temporaneamente la consueta dimora, quell'umile terreno , su cui aveva aperti alla luce del giorno gli occhi del cui splendore dovea giungere un raggio alla più lontana posterità ? Per noi il sospetto è omai certezza : ecco le prove. Dopo i recenti studî sulla cronologia e sull'ordinamento del Canzoniere, è noto che il Petrarca usava raggruppare insieme << le rime che si riferiscono a uno stesso avvenimento, a una << stessa impressione, a uno stesso stato d'animo » (1). Tali i due sonetti << Sento l'aura mia antica e i dolci colli » e « È questo << il nido in che la mia fenice » ; ambedue scritti allorquando nel giugno del 1351, dopo la morte di Laura, il Petrarca rivisitò, con ineffabile angoscia, i luoghi dove soleva un tempo ammirarla. Noi li conosciamo ormai, questi luoghi ; né v'ha alcun dubbio che « i dolci colli », di cui parla il primo di questi sonetti, non siano gli stessi ora mentovati, tra la Durenza e la Sorga. Or su questi colli è nata Laura : Sento l'aura mia antica, e i dolci colli veggo apparir onde ' l bel lume nacque ecc. e sono gli stessi a cui allude quel famoso sonetto tanto maltrat tato dal Tassoni : A piè dei colli ove la bella vesta prese delle terrene membra pria la donna, che colui ch'a te ne ' nvia spesso dal sonno lagrimando desta ecc.; (1) Giorn. , XX, 121. VARIETÀ 347 gli stessi su cui Laura soleva andare a diporto, secondo quel che leggiamo in un altro : « Vedi quant'arte dora e 'mperla e'nnostra ». Ma qui si parla di colli, e noi d'un solo colle avremmo bisogno. Ce lo additerà il sonetto nato a un parto con quello che ci ha dato in mano il bandolo della matassa : È questo il nido in che la mia fenice mise l'aurate e le purpuree penne, che sotto le sue ali il mio cor tenne, e parole e sospiri anco ne elice ? O del dolce mio mal prima radice, ov'è 'l bel viso onde quel lume venne, che vivo e lieto, ardendo, mi mantenne? Sola eri in terra; or se' nel ciel felice. E m'hai lasciato qui misero e solo ; tal che pien di duol sempre al loco torno, che per te consecrato onoro e colo , veggendo a' colli oscura notte intorno , onde prendesti al ciel l'ultimo volo, e dove gli occhi tuoi solean far giorno. Il nido dove ha messe le penne la fenice cara al poeta (occorre spiegare tale metafora ?) è tutt'uno manifestamente col loco per lei consecrato. Nel quale trovasi , di passaggio, il Petrarca nel momento che scrive, e non già in Valchiusa ' o in Avignone : vi si << trova solo », perché la sua fenice è volata per sempre in cielo'; << misero », perché ogni volta che quivi ritorna l'empie di duolo la vista dei colli circostanti, non più rischiarati dal dolce lume di lei che v'andava a diporto. Or eccolo questo sacro loco : Fresco, ombroso, fiorito e verde colle , ov'or pensando ed or cantando siede, e fa qui de' celesti spirti fede (1) quella ch'a tutto il mondo fama tolle ; il mio cor, che per lei lasciar mi volle, e fe' gran senno, e più se mai non riede, va or contando ove da quel bel piede segnata è l'erba e da quest' occhi molle. (1) E fe' , legge qui taluno , ad esempio il D'Ovidio ; ma è piú prudente seguir la volgata , per quanto ci dolga di rinunziare a una testimonianza cosí esplicita dell'identità del colle e del nido, da aggiungere a quelle che stiamo adducendo e addurremo in séguito. 348 F. FLAMINI Seco si stringe, e dice a ciascun passo: deh! fosse or qui quel miser pur un poco, ch'è già di pianger e di viver lasso! Ella sel ride : e non è pari il gioco; tu paradiso, i' senza core un sasso, o sacro avventuroso e dolce loco. È adunque per l'appunto il colle ove Laura soleva temporaneamente soggiornare, come accenna anche il secondo verso, e come già mostrammo. Poiché il sonetto che comincia: « Mira << quel colle, o stanco mio cor vago, Ivi lasciammo ier lei », e va innanzi a questo, fu indubbiamente composto nella medesima occasione. In ambedue il poeta parla del proprio cuore : nel primo senza accorgersi ch'è già con Laura, a cui l'esorta a ritornare, nel secondo, come ora s'è veduto, rappresentandolo errante pel colle ov'essa << siede ». Questo colle è proprio il nido di lei. Conchiudendo, Madonna Laura è nata sopra un poggio , in mezzo ad altri poggi disposti obliquamente fra la Durenza e la Sorga, a qualche miglio da Avignone, ove stabilmente dimorava, e su questo colle soleva recarsi a villeggiare. Tutto ciò ( vogliamo dirlo subito) rischiara mirabilmente la topografia del Canzoniere, e in più d'un luogo risolve i dubbî degli interpreti . È noto, che nel 1337 il Petrarca, noiato della rumorosa e corrotta città papale, cercò un quieto rifugio in Valchiusa, << sog- << giorno campestre, scrive il Gaspary, ricco di tutti gl'incanti << della natura, dove le rupi, addossandosi strettamente, circon- << dano la sorgente cristallina della Sorga ; soggiorno che gli di- <<< venne carissimo, che cantò tante volte ne' suoi versi, descrisse <<< nelle sue lettere, a cui sempre ritornò di nuovo, per dimorarvi << lungamente e studiare e fantasticare e poetare ». In questa << valle chiusa d'ogni intorno » egli trovava « refrigerio de' so- << spiri », presso il « bel rivo » il « corrente e chiaro gorgo », più gradito a lui di tutti i fiumi dell'universo , perché nel suo << viaggio » passava non lungi da Laura, ed anzi alcuna volta bagnavale il bel viso e gli occhi (1). « Ivi non donne, ma fon- << tane e sassi » ; sennonché l'intimo impulso ond'era stimolato a cercare quel che avrebbe dovuto fuggire (2) lo induceva talora a inerpicarsi sugli alti ed aspri colli circostanti, non escluso << il gran sasso donde Sorga nasce » , sotto il quale soggior- (1) Parte I, sonetti 80, 98, 111 , 172. (2) Parte I, sonetto 117. VARIETÀ 349 nava (1 ), per mirare di lassú « il dolce piano Ove nacque colei » ch'era oggetto del suo amore : piano, s'intende, rispetto all'aspra roccia della cascata della Sorga (2) ; sulla quale, perché un tempo << quinci vedea ' l suo bene » ( cioè la dimora del suo bene) Amore « per usanza » lo menerà ancora dopo la morte di Laura (3) . Volendo raggiungere la sommità di questo sasso, gli toccava salire, dando « a' piè lassi affanno », un' erta ben faticosa (4) ; come ci assicura quel sonetto ingarbugliato, anzi (sia pur detto) meschino, che comincia : Se 'l sasso ond' è più chiusa questa valle, di che ' l suo proprio nome si deriva, tenesse volto, per natura schiva, a Roma il viso ed a Babel le spalle, i miei sospiri piú benigno calle avrien per gire ove lor speme è viva ; astrusi versi, che il D'Ovidio ha rettamente spiegati, col suo solito acume (5) . E alle fatiche durate per ciò forse allude, in modo più generico, anche un altro sonetto (secondo i chiosatori puramente allegorico), nel quale il poeta dice ad Amore : Ben vegg' io di lontano il dolce lume ove per aspre vie mi sproni e giri ; ma non ho, come te, da volar piume (6). Qui il lume della torre d'Ero , tirato in ballo dagli interpreti, non ha proprio che fare. Ma qual è il paese che gli occhi del poeta cercano di lassú avidamente? Quello ove Laura era nata e villeggiava, o la città sua abituale dimora ? L'uno l'altro , talvolta : ossia « quelle « parti », quei « be' luoghi » (oltre « l'alpe » che ne impedisce la vista a chi sia in Valchiusa), « là dove ' l ciel è più sereno << e lieto », dove « l'erba più verde e l'aria è più serena », prossimi alla Sorga, ma non lontani dal Rodano, a cui il poeta accenna indeterminatamente nel sonetto ora citato, Se ' l sasso ecc. , (1) Parte II, sonetti 35, 20, 37 ; parte I, canz. 14 in fine. (2) Cfr. D'OVIDIO, Quest. di geogr. petr. , p. 20. (3) Parte II, sonetto 33. (4) Su quest'erta, vedi anche ZUMBINI, Valchiusa, p. 204. (5) Quest. , pp. 36-37. (6) Parte I, sonetto 112. Giornale storico, XXI, fasc . 62-63. 28 350 F. FLAMINI in fine alla canzone Di pensier in pensier, di monte in monte, nell'apostrofe al Rodano Rapido fiume, che d'alpestre vena, nel sonetto scritto dopo il viaggio dell'Ardenna (I, 125). Altre volte invece è soltanto il luogo nativo unito al temporaneo soggiorno; come in questo sonetto, pure composto sulle alture di Valchiusa e maltrattato o frainteso dai commentatori : Almo sol, quella fronde ch' io sol amo, tu prima amasti : or sola al bel soggiorno verdeggia, e senza par poi che l'adorno suo male e nostro vide in prima Adamo. Stiamo a mirarla; i' pur ti prego e chiamo , o sole; e tu pur fuggi, e fai d'intorno ombrare i poggi, e te ne porti il giorno, e fuggendo mi toi quel ch'ï' piú bramo. L'ombra che cade da quell'umil colle , ove favilla il mio soave foco , ove ' l gran lauro fu picciola verga, crescendo mentr' io parlo, agli occhi tolle la dolce vista del beato loco, ove ' l mio cor colla mia donna alberga. Dopo aver data una buona interpretazione di questi versi, il D'Ovidio soggiunge : « Mi resta solo un po' di dubbio , se l'ove << del decimo e dell'undecimo si riferisca a colle o sia comple- << mento di cade ». Si riferisce a colle, rispondiamo senza esitare noi che ormai siam certi esser nata Laura non ai piedi, ma sul pendio d'una collina, e che, d'altra parte, non sapremmo intendere altramente, senza annebbiarlo ed arruffarlo , questo passo che ci par limpido e piano. Né perciò vorremo qui ammettere un'affatto inutile tautologia, spiegando, con tutti i commentatori che abbiamo in questo momento sott'occhio : « l'ombra che cade << da quel colle sul quale sfavilla (cioè vive, dimora) ed è nata « Laura , sottrae allo sguardo il luogo dove alberga ». Favilla può essere in questo caso non verbo, ma sostantivo, e può trattarsi d'una semplicissima e comunissima costruzione a chiasmo: << Ove il mio soave foco (1) fu favilla, ove il gran lauro fu piccola << verga » ; metafore che entrambe significano : dov'è nata la mia Laura, o, se più piace, dove la mia Laura fu piccina. Interpretando cosí, tutto è ovvio. Di sulle aspre alture di Valchiusa, (1) L' « alma mia fiamma oltra le belle bella » del son. XXI in morte. VARIETÀ 351 il poeta, guardando verso occidente, vede sparire a poco a poco, tra le ombre che, al tramontar del sole, dalla vetta dell'umil colle ov'è nata Laura e degli altri circostanti scendon giù per la falda, facendosi via via più dense (1), l'abitazione di lei . E il suo cuore (ei l'ha detto anche altrove, come vedemmo) è là su quel colle. Per ultimo, anche un altro tormentatissimo sonetto riceve lume dalle nostre conclusioni. Comincia : « Qui dove mezzo son, Sen- << nuccio mio », ed eccone le terzine : Tosto che, giunto all'amorosa reggia, vidi onde nacque Laura dolce e pura, ch'acqueta l'aere e mette i tuoni in bando, Amor nell'alma, ov' ella signoreggia, accese il fuoco e spense la paura: che farei dunque gli occhi suoi guardando? Sia che il poeta abbia spedito questo sonetto all'amico in Avignone, com'è opinione dei più, sia che glie l'abbia mandato in Italia dove Sennuccio sarebbe rimasto, come inchina a credere il D'Ovidio (2), nulla ci vieta d'immaginarlo scritto in Valchiusa. In tal caso è chiaro il significato di questi versi. L'amorosa reggia, « un'espressione (scrive il dotto professore napolitano) che < all'ingrosso si capisce, ma che i chiosatori duran fatica a spic- << ciolare in parole più concrete », non può non richiamare alla memoria, s'io non m'inganno, il « qui regna Amore » della canzone Chiare, fresche; e già si è detto, che in questa la scena è prossima al luogo << onde nacque Laura ». Sarà dunque da far buon viso alla vecchia opinione del Filelfo. Il poeta vuol dire, che nel tornarsene a Valchiusa ha avuta occasione di rivedere, cammin facendo, il luogo nativo di Laura, ma non Laura stessa. E veramente, di sulla strada che mena da Avignone alla sorgente della Sorga si vedono tutte le colline di cui fino a qui abbiamo parlato. (1) Per riscontro, s'abbia in mente il virgiliano Maioresque cadunt altis de montibus umbrae. (2) Nella citata Postilla alle Quest. di geogr. petrarchesca. 352 F. FLAMINI IV. Ed ora alle induzioni ermeneutiche cerchiamo il suffragio di storiche testimonianze. Quattro nomi di borgate ci mettono dinanzi i biografi del Petrarca e di Laura, le quali tutte aspirano all'onore di aver dato i natali alla famosissima donna : Gravesons, Cabrières, Galas e Thor. C'è da scegliere! A Gravesons aveva possessioni quel Giovanni de Sade che, per quanto raccontava due secoli dopo un suo discendente, Gabriele, sarebbe stato il padre di Laura. Ma già il Vellutello ha confutata vittoriosamente tale opinione ; e questa cittaduzza, situata fra la riva sinistra della Durenza e il Rodano, non può aver che fare menomamente col luogo ov'è nata la diva del Petrarca. Quanto a Cabrières, villaggio prossimo a Valchiusa e lontano dalla Sorga e dalla Durenza, esso fu tratto in campo cervelloticamente, secondo i suoi ben noti preconcetti , dal Vellutello. E il medesimo si può dire di Galas in Valchiusa, dove piacque al Costaing, seguito dal Betti e dal Veratti, di far nascere Madonna Laura, identificandola, senza una ragione al mondo, con certa Laura dei Baux Adhemar di Cavaillon. Senza ragione ? Ma io m'inganno. L'undecima delle egloghe petrarchesche s'intitola Galatea, e Galatea vuol dire Ichiedetene al Betti dea di Galas! Resta Thor. Luigi Peruzzi, che, se non ai tempi del poeta (come senza prove fu asserito) , certo non molto più tardi, compose certi Ricordi sulla vita di Messer Francesco Petrarca e di Madonna Laura ( 1), afferma che il picciol borgo mentovato nel Canzoniere chiamavasi in antico Borghetto ; « il qual borgo al << presente è cinto e chiuso di muragli , sendo buon castello, e << non più Borghetto, ma Toro si chiama » (pag. 18). Lasciando stare la poca verosimiglianza, che sia mai esistito in Provenza un Bourguet o Bourget, di cui non si ha traccia veruna (2), chi vorrà fidarsi troppo di questa sconnessa e meschina biografietta aneddotica, che fa nascere il Petrarca da Parenzo anziché da Petracco, che non s'accorge avere il poeta stesso chiamata Laureta la sua donna, che fantastica dipinta « davanti la gran porta << della chiesa cattedrale di Vignione » l'immagine di lei << ritratta - -- (1) Pubblicati nella Scelta di curiosità letterarie, dispensa LXIX. (2) Apud Thorum, non già apud Burgum, o Burgulum, o Taurum, si legge in un'epistola del Petrarca (Fam. , III , 21 ), scritta durante la vita di Laura. VARIETÀ 353 a e << in carte » ( 1 ) da Simone Memmi, che fa dare a Laura il famoso bacio, onde il Petrarca senti tanta invidia « per l'atto dolce «< e strano » (2), non da un re ma da una regina, e per l'appunto << sul cammino vicino al Borghetto », andando « da Val- << chiusa a Vignione », fa fare al Petrarca quel bagno involontario in un rio che l'erba asconde » , cui il poeta stesso ci assicura d'aver fatto invece sulla riva sinistra del mar tirreno, e per vedere non già Laura (come assicura il buon Peruzzi) , ma un lauro? E poi, né anche Thor corrisponde alle designazioni del Canzoniere. La patria di Laura ha da esser sopra un colle, tra la Sorga e la Durenza ; laddove quel romantico villaggio « è << come un'isoletta formata da varî rami della Sorga, situata a « piè d'un colle chiamato Touzon » . Cosí il Bruce-Whyte, che l'ha visitato (3) ; e il colle, si badi, è propriamente a due chilometri dal paese. Fortunatamente, se delle candidature fin qui messe in campo nessuna ha diritto di raccogliere i nostri suffragi , ve n'ha una nuova, alla quale li concederemo, invece, con molta e ben fondata speranza di far buona elezione. Ci giunge da un bravo quattrocentista italiano, che molti anni prima del Vellutello ha fatto, come qualsiasi de' nostri odierni eruditi, il suo pellegrinaggio petrarchesco. Nel 1483, scovato da un convento della Calabria, sbarcava in Francia S. Francesco da Paola. Era al suo fianco, e con lui traversò la Francia fino a Tours, un gentiluomo napolitano della più alta nobiltà, Francesco Galeota, signore del Serpico, incaricato da re Ferdinando d'Aragona d'accompagnare il Santo fino al cospetto di Luigi XI, il quale, sentendosi mancare lentamente la vita, avea riposta ogni speranza nelle arti taumaturgiche di quel servo di Dio. Il Galeota non era soltanto uno dei più cospicui personaggi della corte di Napoli ; era altresí un valentuomo innamorato degli studî geniali, un verseggiatore facile e fecondo. Che bella occasione per lui, di visitare i luoghi consacrati dagli amori del suo » Petrarca ! Poiché , s'intende, anch'egli petrarcheggiava, e qua e là nel canzoniere da noi fatto conoscere altra volta agli studiosi (4) gli piacque incastonar più gemme tolte al (1) Parte I, sonetto 49. (2) Parte I, sonetto 181. (3) Cfr. la dispensa ora cit. della Scelta, p. 22. (4) In questo Giorn., XX, 1 sgg. 354 F. FLAMINI capace scrigno del cantore di Laura. Si recò, dunque, ad Avignone, volle visitare la chiesa di S. Chiara, designatagli come luogo dell'innamoramento del Petrarca dalla nola del Virgilio appartenuto al gran poeta e forse anche dalla tradizione, e là, sotto le arcate del tempio doppiamente sacro per lui, gli usci dalla penna un sonetto ; questo : Dov'è Laura soave, et in qual luoco di questo sacro tempio s'assise, quand' ella intenta suo' begli occhi affise per far d'un ghiaccio un sí mirabil fuoco? Dov'è colui ch' ardendo, amando in gioco, tant'anni in pena visse, e chi conquise tant'amor e tant'arte, e sí divise sono di là fra lor molto né poco ? Dove son gli occhi vaghi e i bei crin d'oro ? Dove 'l bel viso e ' l parlar alto e umile, le man eburnee e l'altre membra dive ? Dov'è Francesco e ' l suo leggiadro stile, e gl'amorosi versi, e 'l suo bel loro ? Morte l'ha spento, e la lor fama vive (1) . Né gli bastò. Anche il sepolcro di Laura volle vedere, prima di lasciar Avignone : Avignon viddi ancora, donde Laura s'onora ben scolpita , bella se fosse in vita. Accennandosi qui ad un'effigie marmorea, ch'è ragionevole immaginare posta sulla tomba della celebre gentildonna, se ne può inferire, che già nella seconda metà del secolo decimoquinto additavasi ai forestieri in Avignone un sepolcro , non saprei dire quanto autentico, di Laura, e che questo sepolcro il Galeota poté vedere e venerare. E non c'è davvero ragione di tener per poco diligente o per male informato questo zelantissimo ammiratore del Petrarca; il quale non stette già contento a visitare codesti luoghi d'Avignone, ma fu altresi sulla Sorga, e « scorse con una barca << Il nido e 'l fiume Là donde [ il Petrarca] ebbe in costume << Andar cantando », cioè la Durenza di cui il Petrarca stesso, (1) Cod. Estense X. B. 13, c. 16 a. - Loro, cioè ' lauro ,; il ms. ha loco. VARIETÀ 355 vedemmo, ci fa sapere che sulle sue rive Amore « gli diẻ si « lunga guerra ». Anche il nido osservate. E, di fatto, un altro sonetto ha composto Messer Francesco Galeota « passando per <<< Comonto dove nacque madonna Laura »; eccone le quartine : Vignion, Comonto là dov' ella nacque, Rodano e Sorga ancor vid' io passando, e dove scrisse, e dove arse cantando il mio maestro quanto a Laura piacque. La stanca voce del mio cor non tacque quando que' luoghi visitai, pensando (ché nostra vita è misera sperando) al mondo cieco, che da poi mi spiacque (1) . Non è chi non veda l'importanza di questi versi. È egli possibile, che un valentuomo come il Galeota, si cavasse di testa il nome di Comont per puro capriccio? Manifestamente, affermando in modo esplicito che Laura nacque in codesta borgata , egli accoglieva tradizioni locali d'un certo valore, abbastanza diffuse e ben fondate. Questo rimatore napolitano è il primo che abbia istituita una ricerca diligente e sistematica per sapere qualche cosa di più esatto non solo sulla topografia degli amori petrarcheschi, ma anche sul conto della donna salita , grazie al suo glorificatore, in tanta fama. Sappiamo ch'egli riusci perfino a procurarsene un ritratto (non importa se autentico o no) , per farlo avere ad una delle più colte dame del suo paese, la famosa Costanza d'Avalos contessa dell'Acerra, riveditrice de' suoi versi, alla quale, nell'inviarglielo, scriveva : Ecco qui Laura, tal qual era viva : le chiome d'or, la forma del bel viso , dove Francesco riguardando affiso, tant'anni pianse, e per lui fatta è diva ecc. (2). Adunque, la testimonianza del Galeota già di per se stessa è tale da doverne far molto conto. Or che diremo noi, se Caumont risponderà perfettamente a tutte le designazioni, che siamo venuti (1) Cod. cit., c. 16 b. (2) Sull'intricata faccenda de' ritratti di Laura, vedi, oltre al FRACASSETTI, gli opuscoli di ANT. MENEGHELLI (Sul presunto ritr. di L. , Padova , tip. della Minerva, 1822) e di ZEFIRINO RE (I ritr. di L., Fermo, Ciferri, 1857). 356 F. FLAMINI mettendo in luce, del Canzoniere petrarchesco, circa il luogo di nascita di Madonna Laura? Sentiamo che ci dice di questa terricciuola l'Expilly nelle tre fitte colonne del suo Dictionnaire géographique historique et politique des Gaules et de la France, che le dedica : « CAUMONT, bourg, dans le Comté Venaissin, diocèse de Cavaillon, judi- << cature de l'Isle. On y compte 296 feux et 1272 personnes. « Cette paroisse est située sur le penchant d'une colline, <<< dans une contrée agréable et fertile en grains, en vins, en << huiles, en mûriers et en fruits, à quelque distance de la << rive droite de la Durance, à 2 1.0 . N. O. de Cavaillon, 2 < O. S. O. de l'Isle, 4 S. O. de Carpentras, et 2 S. E. d'Avignon. << Le bourg..... est entouré de murailles ..... On croit communément << dans le pays, que le nom de Caumont vient de ce qu'une << bonne partie du terroir de ce bourg est située sur << la montagne des Cavares, Cavarum Mons, laquelle, à << ce qu'on prétend, s'étendait depuis Bon-Pas jusqu'à Saint- << Saturnin. Dans les anciens titres Caumont est appelé Castrum << de Cavo Monte, et ensuite de Cavis Montibus..... Le terroir << de Caumont est presque tout cultivé..... La montagne est cou- << verte d'oliviers..... On y voit des collines couvertes de bois « taillis, où le gibier est très-abondant, ecc. ». E basta : ne abbiamo qui assai per poter congetturare, con molta probabilità d'apporci al vero , che il sacro avventuroso loco sia proprio Caumont, come con tanta certezza assevera il nostro quattrocentista ; Caumont, piccolo borgo, situato in un paese fertile ed ameno, a due leghe da Avignone , sul pendio d'una collina e tra altre colline che son appunto quelle dove Laura, per quanto abbiamo dimostrato, solea villeggiare , a qualche distanza dalla Durenza, e però non tanto lontano dalla Sorga, che Laura non potesse recarvisi a diporto scendendo per l'amena piaggia, poi che preferiva le acque limpide di questo fiumicello alle torbide di quella riviera. Sui colli di Caumont, popolati di case e d'oltveti, non mancano neppure le « ombrose selve » a cui il Petrarca accenna ( 1 ) descrivendo il campestre soggiorno di Laura. Per ultimo, è da osservare, che questa nostra ipotesi sul luogo di nascita di madonna Laura aggiunge nuovi indizî ai molti che rendono verosimile l'opinione dell'abate De Sade, accettata anche (1) Nel son. CXI della prima parte. VARIETÀ 357 oggidi dai più , esser ella stata la figlia d'Audiberto De Noves, moglie a Ugo De Sade (1). Poiché Noves, dove il padre di Laura << jouoit (cosí l'eruditissimo abate) un rôle considérable, quoiqu'il << n'en fut pas seigneur », e aveva la maggior parte de' suoi beni, se non può essere in alcun modo il picciol borgo famoso, perché trovasi sulla sinistra della Durenza e in pianura , ha peraltro quasi dirimpetto, sull'altra sponda del fiume, le alture di Caumont, alle quali era in antico congiunta da un ponte e nel secolo passato da una chiatta , essendo questo passo << extrêmement << fréquenté, parce qu'il est sur la grande route de Lyon à Mar- << seille » (2) ; e può darsi , che su queste alture fossero altri possedimenti d'Audiberto stesso o di sua moglie , la quale non sappiamo a che famiglia appartenesse. Anche il supposto marito di Laura, Ugo De Sade, come appare dal suo testamento, vi ebbe dei terreni e un podere (3). E poiché altri e maggiori ne possedeva nelle vicinanze della Sorga ( a Saint-Saturnin e, specialmente, a Thor) , in tutto il tratto fra Caumont e questo fiume madonna Laura potea dirsi , in certo modo, in casa propria. Di qui le sue frequenti e lunghe ed amene passeggiate per quei colli e per quella piaggia. FRANCESCO FLAMINI. (1) Sulla quale vedi l'articolo citato del D'OVIDIO nella Nuova Antologia. (2) EXPILLY, Dictionnaire, alla voce Noves ,. 6 (3) « Prata ... in territorio de Calvis montibus, ... boves et alia animalia, « blada, vina, vasa vinaria, etc. » (DE SADE, Mémoires, III , 73) . Non compaiono nel sommario d'un suo libro di ragioni del 1349 ; ma il libro può esser parziale, il sommario incompiuto o fatto per sommi capi. DI GIOVANNI MUZZARELLI E D'UNA SUA OPERETTA INEDITA A volte, anche i maggiori poeti hanno un bello sfiatarsi a far risonare la tromba della fama ; i posteri o non porgono ascolto a questi araldi gloriosi di piccole glorie o dimenticano facilmente i lodati. Questo è proprio il caso del poeta mantovano di cui mi accingo a dir qualche cosa. Nel C. XLII (st . 87) dell' Orlando furioso, Rinaldo , condotto da un ignoto cavaliere in un magnifico palazzo , tra lo splendore dei marmi, delle colonne e degli archi, in mezzo alle statue d'illustri principesse estensi e gonzaghesche che fanno corona alla meravigliosa fontana , ne scorge una su cui sta scritto il nome di Leonora Gonzaga, la futura moglie di Francesco Maria della Rovere , duca d'Urbino. I due simulacri inferiori sui quali essa poggia i piedi e che sono in atto di celebrarne le lodi, cioè le statue dei due futuri lodatori di lei, recano i nomi di Baldassar Castiglione e di Giovanni Muzzarelli : Uno elegante Castiglione, e un culto Muzio Arelio dell'altra eran sostegni. E il poeta soggiunge : Di questi nomi era il bel marmo sculto, Ignoti allora, or si famosi e degni. Ciò affermava il buono messer Lodovico, così indulgente anche con gli amici ; ma i posteri gli diedero ragione solo pel primo dei due nomi , per quello dell'autore del Cortegiano ; non così pel secondo , che fini travolto nell'onde di Lete. A questo fra i VARIETÀ 359 molti illustri dimenticati del Parnaso italiano del Cinquecento porgiamo un po' la mano, non certo per riporlo sugli altari o per placare l'ombra dell'Ariosto, ma per considerare alcuna delle ragioni e alcuno dei titoli letterarî che indussero il grande poeta a concedere così magnifica lode all'amico. Anzitutto una questioncina pregiudiziale : Perchè il Muzzarelli è dall'autore del Furioso posto, insieme col Castiglione, come sostegno della statua di Leonora ? Fra le rime a stampa del Muzzarelli, da me potute vedere, non riuscii a trovarne alcuna indirizzata alla degna figliuola della marchesa Isabella o contenente le lodi di lei. Purtuttavia converrebbe ammetterne l'esistenza fra i componimenti di lui ancora inediti e sconosciuti, perchè è difficile supporre che l'Ariosto non fosse bene informato a tale riguardo ; ammenochè, per una svista o un lieve arbitrio forse spiegabile anche con le ragioni dell'arte, il poeta non abbia scambiato in parte Leonora con la duchessa Elisabetta , la cui statua egli le colloca proprio lì accanto. La dedicatoria dell'operetta di cui sono per dare notizia, mi farebbe inclinare verso questa congettura, mi farebbe credere che l'Ariosto in questo non andasse troppo pel sottile. Certo, non fu troppo esatto facendo lodatore di Leonora il Castiglione, che invece ( almeno a quanto sappiamo oggidi) celebrò con maggior fervore la duchessa Elisabetta, alla quale il poeta pone invece come sostegni il Sadoleto ed il Bembo. Della vita del Muzzarelli ( o, secondo il battesimo accademico, Muzio Arelio) assai scarse notizie si avevano sino ad ora ; nè purtroppo le fonti dalle quali avremmo dovuto attenderci nuova luce, corrisposero, neppure in minima parte, alle nostre speranze . Strano, ma vero : quest'uomo che l'Ariosto giudicava uno dei più celebrati cortigiani e lodatori di Leonora Gonzaga, duchessa d'Urbino, e che alla duchessa Elisabetta indirizzò, come ora vedremo, una sua operetta giovanile, non lasciò alcuna traccia di so nei ricchi carteggi di quell'Archivio Gonzaga, che ha fornito tesori di belle notizie ai miei cari Luzio e Renier pel loro desiderato lavoro sui Gonzaga ed Urbino. E forse più strano ancora : questo poeta che servi alcuni anni, a Gazzuolo , Lodovico Gonzaga, vescovo di Mantova, non apparisce mai menzionato, a quanto sembra (1), nei preziosi copialettere del vescovo suo signore. Assai (1) Dico così , perchè non mi fu dato di fare io stesso le debite ricerche 360 V. CIAN poco ne dicono i suoi contemporanei e le storie letterarie, compresa quella del Tiraboschi , che le vecchie testimonianze tutte raccolse con la sua consueta diligenza (1) . E ben poco aggiunse per la parte biografica un noto erudito mantovano, il co. D'Arco, nel suo lavoro esistente manoscritto nell'Archivio Gonzaga, sulle famiglie illustri mantovane (2) ; mentre le due paginette che il Bergamaschi consacrò recentemente nella sua Storia di Gazolo (3) al « grande, sebbene infelice » Muzzarelli , come alla << più bella gloria del suo comune », non sono altro che una cattiva e talora spropositata ripetizione di cose già note (4). E cose non nuove ad eccezione di alcune tratte, in gran parte, dall'opera del D'Arco, dovrò riassumere anch'io ora, come necessaria introduzione biografica alla notizia letteraria che fornirà principale materia a queste pagine. L'anno preciso in cui il Muzzarelli nacque a Gazzuolo ci è impossibile determinare per insufficienza di dati ; ma non andremo troppo lungi dal vero assegnando la nascita del nostro poeta circa al 1490, se nel 1512 il Bembo, parlando di lui, lo diceva « ma- << gnae spei adolescens ». E si badi che sotto la penna degli umanisti di allora, il Bembo compreso, l'adolescens acquistava, come pei classici latini , il valore perfino di giovane fra i venti e i trent'anni e anche più, com'ebbi ad osservare riguardo al Longolio in questo Giornale medesimo (5). Quali studî facesse il Muzzarelli e dove, ci è anche ignoto ; ma è probabile che, dotato com'era d'ingegno vivace e aperto al culto delle lettere e del bello poetico, acquistasse ben presto in Mantova quel grado di coltura umanistica che era allora comune, in Parma, e perchè furono limitate e non sono ancora compiute quelle che volle intraprendere per me l'egregio prof. A. Restori , con una cortesia di cui lo ringrazio. (1) Storia ecc., t. VII, P. IV, lib. III , cap. IV, § XVIII. (2) Tomo V, pp. 183 sg. Debbo qui ringraziare vivamente l'egr. cav. Stefano Davari, che con la sua consueta sollecitudine volle completare gli appunti da me presi altre volte dall'opera del D'Arco e fare nell'Archivio da lui diretto altre ricerche, che purtroppo non diedero alcun risultato. (3) Casalmaggiore, 1883, cap. IX sui Personaggi illustri di Gazzuolo. (4) Basti dire che il Bergamaschi fa nascere il Muzzarelli « al principio << del sec. XVI » e accenna a « varie opere » sue << che rimasero inedite , << ma che si trovano raccolte dal Ruscelli ecc . » ! (5) Vol. XIX, p. 154, n. 2, e 386, n. 3. Cfr. anche MANCINI, Alcune lettere di L. Valla, in questo stesso Giornale, XXI, 6. . VARIETÀ 361 e ben presto mostrasse attitudine e aspirazione a cose maggiori. Ciò appunto spiegherebbe com' egli , gazzolese , entrasse , ancor giovane, ai servizî di quell'intelligente mecenate che era il vescovo Lodovico Gonzaga, che allora soggiornava, com'è noto, a Gazzuolo (1). Alla morte del suo signore , nel 1511 , egli passò sotto i principi di Sabbioneta, ma forse per non avervi trovato l'accoglienza che aveva sperato , lasciò anche i nuovi signori, desideroso di vedere quella Roma che era come un gran lume al quale vola. vano i letterati , specialmente i giovani, da tutte le parti d'Italia , e spesso , a guisa di farfalle, per bruciarvisi l'ali . « Avendo ot- << tenuto da Isabella Gonzaga Duchessa d'Urbino una commenda- <<< tizia per Leone X, passò in quella città » . Questo scrive il D'Arco, confondendo evidentemente l'Isabella con l'Elisabetta ; nè dice donde traesse la notizia, sebbene è probabile che la fonte ne sia quel libro di Marco Faroldi (Notizie inedite di Sabbioneta) ch'egli cita in principio del suo articolo biografico. In ogni modo ci riuscirà facile spiegare il fatto della commendatizia procurata dalla duchessa d'Urbino al giovane poeta, pensando che questi già prima, cioè durante il suo soggiorno in Gazzuolo, dovette dedicare l'operetta, di cui sarà fatta parola, alla duchessa medesima, che, sorella com'era del vescovo Lodovico, egli aveva forse conosciuta ormai di persona, in modo da cattivarsene la protezione e da valersene poi nella sua andata a Roma. Anzi è tutt'altro che ardito supporre che il Muzzarelli, in questo suo viaggio, facesse una sosta alla corte d'Urbino e vi conoscesse, fra gli altri , quel Bembo, che nel 1512 ci apparisce affettuoso, sollecito protettore e lodatore di lui. E siccome quella lettera del poeta veneziano, nella quale si parla delle visite giornaliere che il Muzzarelli gli faceva in Roma, ha la data del primo gennaio 1512 , dobbiamo assegnare l'arrivo di questo nuovo romeo nell'eterna città agli ultimi mesi del 1511. Più fortunato che non il povero Ariosto, probabilmente perchè più giovane e più docile corteggiatore delle vanità letterate e cardinalizie , e men noto e meno pericoloso cultor delle Muse , il Muzzarelli fu dal pontefice mediceo accolto nella sua privata Accademia e donato d'un'annua pensione. Questo scrive il Valeriano e ripete il D'Arco e questo possiamo credere senza fatica. (1) Cfr. in questo Giornale, XIII, pp. 305 sgg. , l'articolo di U. Rossi, Commedie classiche in Gazzuolo nel 1501-1507. 362 V. CIAN Dobbiamo invece credere che nel marzo del 1515 Leone X conferisse al poeta mantovano, suo famigliare « familiari suo >, il governo della Rocca di Mondaino in Romagna - o, per essere più esatti ed ossequenti alle ipocrisie del formulario cancelleresco d'allora, confermasse l'elezione fatta in persona del Muzzarelli dai Priori e dalla Comunità di quella terra. Il breve relativo in data del 30 marzo di quell'anno, che esiste ancora e fu registrato recentemente nei Regesta Leonis X ( 1 ) , reca la firma di Pietro Bembo, il quale ben sapeva, per propria esperienza , come non bastassero ai letterati i versi, le lodi e le promesse platoniche. Pure al Muzzarelli avrebbe giovato non abbandonare il suo idillio cortigianesco dell'Aule Vaticane e dei giardini del Quirinale: meno avventurato questa volta dell'Ariosto, che dai tumulti e dai fieri travagli della Garfagnana, potrà poscia ritornare alla sua tranquilla casetta , per fortuna sua e dell'arte nostra. Dopo due mesi dacchè si trovava a Mondaino, egli fu ucciso fuggiasco, a quanto pare, pel duro governo che faceva di quei popoli ; e i popoli, specialmente di Romagna, non sono come i versi. Il Valeriano (che scambia il castello di Mondaino con quello di Mondolfo) dice che il corpo del poeta fu scoperto, annegato, insieme con la mula, in un vallone o pozzo assai profondo ; e un altro contemporaneo, il Berni, che doveva finire , egli stesso, malamente, fra gli esempi di poeti periti di morte violenta, annovera anche quello del nostro, con un'ironia che a noi oggi può spiacere: << Il << Muzzarello, per li suoi buon portamenti, fu buttato in un pozzo <<< insieme con la sua mula e il garzone ; nè mai più si videro ! » (2). Curioso a notarsi : il Bembo, il quale mostrava di amare e proteggere tanto il Muzzarelli, e che viveva trepidante per lui, gli aveva predetta una fine consimile , e lo dichiarava in una lettera che scriveva all'amico Bibbiena un mese dopo che il governatore- poeta era sparito e duravano ancora infruttuose le ricerche ! La lettera ha la data del 3 aprile 1516 e il passo che c'importa, suona così: << Monsignor mio, sapete bene, ch'io temo grandemente, che <<< 'l nostro povero Muzarello sia stato morto da quelli di Mon- (1) Fasc. 7-8, Brisgoviae, 1891, p. 60, nº 14793. Il breve, che incomincia : << Cum dilecti filii ecc. », è così riassunto dall'editore dei Regesta : « Johanni << Musio Arellio familiari suo, quem Priores et communitas terrae Mondaini << in ipsorum capitaneum elegerunt, electionem huiusmodi confirmat ». (2) Dialogo contra i poeti , nelle Rime , poesie latine ecc., ed. VIRGILI, Firenze, 1885, p. 248. VARIETÀ 363 I << daino ; perciocchè da un mese in qua esso non si trova in luogo <<< alcuno ; solo si sa che si parti di quella maledetta rocca te- << mendo di quelli uomini , e fu nascosamente. Non mancò già << ch'io non gli predicessi questo, che Dio voglia non gli sia av- << venuto. O infelice giovane! non lo avessi io mai conosciuto se << tanto e si raro ingegno si dovea spegnere così tosto, ed in tal « modo! » ( 1 ). Il rimpianto è cordiale, la lode sincera ; e la lode del Bembo, che già quattro anni prima aveva annunziato questa nuova promessa del Parnaso italiano (2), unita a quella del Valeriano (3) , del Giraldi ( 4) e del Molza (5) , ci mostra come la (1) Lettere, ed. Classici, vol. I, lib. II , pp. 42-3. Si noti che in un sonetto, che forse è di poco anteriore al 1515, il Muzzarelli esprimeva quel desiderio della solitudine , quell' aspirazione alla pace contemplativa e quasi ascetica che non è infrequente trovare negli uomini stessi del Rinascimento, in mezzo alla vita e ai romori di Roma. E non mi pare improbabile che nella chiusa di questo sonetto il poeta , amareggiato , disgustato del mondo da cui vorrebbe « rubarsi » per « rendersi a se stesso » , alludesse a quella severità , a quell'amore della giustizia che dovevano essere la causa della sua morte : « Poi che quel solo e non altro mi noce , Che di giustizia mi ha fatto e << del vero Più che non s'usa il mio destin amico » (Delle rime di diversi nobilissimi autori ecc., In Venetia, al segno del Pozzo, 1550, c. 188 v) . (2) Il Bembo così scriveva ad Ottaviano Fregoso parlando del Muzzarelli : << Magnae spei adolescens, ut scis, aut etiam majoris, quam quod scire possis. << Magis enim magisque sese in dies comparat , cum ad mores optimos , et << ad omnem virtutem, tum ad poetices studia, ad quae natus praecipue vi- « detur » (Epist. famil. , lib. V, ep. 7) . È innegabile che il Muzzarelli aveva saputo lusingare mirabilmente la vanità del poeta veneziano, sia indirizzandogli poesie laudatorie, come la canzone « Mentre che voi nei vaghi ampi « soggiorni » , sia prendendolo a modello del suo poetare , come altri, ed egli stesso altre volte , facevano del Petrarca. Valga ad esempio il sonetto << Tutto 'l sostegno, Amor, che d'un bel volto », che è servile imitazione di quello del Bembo, che com.: « Mostrommi entro allo spazio d'un bel volto ». Vedremo anche come il Muzzarelli imitasse gli Asolani. (3) Nel De literatorum infelicitate, lib. I , cit. anche dal TIRABOSCHI, Op. cit., loc. cit. (4) Il Giraldi, dopo accennato a varie opere poetiche latine del Muzzarelli, soggiunge: « Quae de illo mirabilem apud doctos spem concitant » (De poetis nostr. temp. , in Gyraldi Lilii Greg. Opera, ed. Basilea, 1580, t. II , p. 395). (5) Vedasi il son .: « Alma, che già ne la tua verde etade » fra le Poesie volg. e lat. del Molza, ed. SERASSI, Bergamo, 1747, vol . I, p. 59. Un'altra prova della stima che si continuò ad avere del Muzzarelli , almeno come poeta latino , l'abbiamo nel fatto che otto anni dopo la sua morte , Blosio 364 V. CIAN voce dell'Ariosto fosse tutt'altro che solitaria, e ci conferma quanta aspettazione di sè avesse destato il povero poeta mantovano anche fra i migliori suoi contemporanei. Non è mia intenzione di ammannire qui ai lettori una bibliografia delle opere edite e inedite, in volgare e in latino, in prosa ed in verso, del Muzzarelli, e neppure di registrare le sue poesie volgari che si trovano disseminate in raccolte a stampa e manoscritte (1). Oggi mi limito a dar notizia d'una sua operettta giovanile, che finora non era conosciuta che pel cenno brevissimo e quindi assai vago che ce ne lasciò il Tiraboschi. Lo storico modenese, cosi oculato e curante dei più minuti particolari anche in un lavoro di tanta mole come il suo, avvertiva esistere all'Estense di Modena un'altra opera inedita del Muzzarelli, « in lingua ita- << liana, e scritta a foggia dell'Arcadia del Sannazaro, parte in prosa, parte in versi, in lode della sua donna, ch'ei si protesta << di non voler nominare. Ei dice di averla scritta ne' più giova- << nili suoi anni, mentr'era al servizio di Lodovico Gonzaga eletto << Vescovo di Mantova, morto nel 1511 , ed essa è da lui dedicata « alla Dia Helisabeth Gonzaga da Feltro Duchessa d'Urbino ». Il codice estense è oggi segnato VIII. E. 12 ; è cartaceo, in folio (cm. 31 X 21 ) , del principio del sec. XVI e consta di carte 63 solo recentemente numerate , delle quali le tre ultime bianche. Palladio inseriva alcuni distici di lui nella famosa Coryciana ( in fine : Impressum Romae apud Ludovicum Vicentinum Et Lantitium Perusinum, 1524, c. Gij v). (1) E tanto più volentieri rinunzio a far questo , dacchè del Muzzarelli petrarchista intende occuparsi un mio valente scolaro, il sig. Giuseppe Prato. Qui dirò che il D'Arco ricorda , fra le opere inedite del poeta mantovano , un poema latino in lode del defunto Lodovico Gonzaga, vescovo di Mantova, poema che, trascritto dall' originale , fu da Andrea Cavalli unito alle sue Memorie inedite di Sabbioneta. Il D'Arco dà notizia d'una Canzone di M. Giovanni Mozzarello sopra il pianto della S. M. Camilla in morte del vescovo di Mantova suo barba ; e soggiunge : « Di questa canzone ci è << grato poter darne copia, come fu trascritta dall'ill. Jacopo Morelli, notando << che l'ortografia si è lasciata come si trova in lettera diretta il 24 agosto << 1782 a Leopoldo Camillo Volta, che noi possediamo ». La copia del Morelli dovette esser tratta dal codice ora Marciano It. 203 della cl. IX , che a c. 105r reca appunto questo componimento ; il quale apparisce anche nel cod. Magliabechiano II. I. 60 (cfr. BARTOLI, I mss. ital. ecc. , I , 31) . Come saggio del poetare giovanile fra petrarchesco e secentistico del Muzzarelli , riproduco questa canzone in APPENDICE. VARIETÀ 365 È un bel manoscritto, di lettera grande e chiarissima e ben conservata ; in calce alla prima carta reca, a colori, lo stemma della duchessa d'Urbino, cui l'opera è dedicata, con le parole riferite già dal Tiraboschi. Il che deve far credere che questo sia appunto l'esemplare di presentazione, scritto di mano dell'autore stesso, dacchè la scrittura ha tutti i caratteri di una grafia personale e le poche e piccole correzioni sono della mano medesima. La rilegatura originale è scomparsa , ma un catalogo dell' Estense, compilato verso il mezzo del secolo scorso (1756) dal padre Zaccaria , ci informa che quella rilegatura era << in tegmine char- << taceo corio ducto affabre sculpto » (1). Mancandomi l'agio di valermi di questo codice che, dopo esser passato per tante mani gentili alla corte Urbinate, andò a finire, chissà attraverso a quali vicende, negli scaffali dell' Estense, debbo accontentarmi d'uno più modesto ch'ebbi la ventura di trovare alla Marciana, dove entrava nel 1843 pel legato di Girolamo Contarini (It. cl. XI, 157) . Il cod. Marciano consta di 39 carte, anticamente numerate, ed è scritto d'una sola mano, certo della prima metà del Cinquecento (2). (1) Debbo qui ringraziare il dr. Carlo Frati, che, dietro richiesta cortese dell'egr. cav. Carta, mi comunicava gentilmente la descrizione di questo codice. Il quale, nel recto dell'ultimo foglio, reca i seguenti capoversi che furono incominciati a trascrivere : Sonetti. Mentre i superbi tetti a parte a parte. O desir di quest'occhi almo mio sole. Dhe perchè a star qua giù non venne. Per fuggir la mia morte alma mia speme. Capitulo. Dhe non scemara mai tanto martire. Canzone a papa leone. Terreno gioue. Il primo, il secondo e il terzo sonetto e la canzone si trovano, col nome del Muzzarelli , nella citata raccolta giolitina del 1564 ( Il primo volume delle rime ecc., pp. 262, 272, 280) . Il sonetto quarto è nella raccolta citata di Venezia, 1550, a c. 82 v ; il capitolo ignoro se sia a stampa o no. (2) Trattandosi d'un semplice riassunto che io faccio dell'operetta del Muzzarelli, riassunto inteso solo a dar notizia della contenenza sua, non ho creduto necessario far collazionare i passi da me qui riferiti secondo il codice marciano, con quelli corrispondenti del codice estense, anche là dove il confronto poteva essere consigliato da qualche incertezza di lezione. fiornale storico , XXI, fasc. 62-63. 24 366 V. CIAN Come l'Estense , esso non ha titolo di sorta , ma incomincia senz'altro con la lettera dedicatoria alla duchessa Elisabetta. Naturalmente, il Muzzarelli sale fin da principio sui trampoli dello stile cortigianesco allora di moda, così : « Commune et utile usanza, « ( egli prende a dire) , Exma Signora mia, è fra gli uomini saggi, << di sempre antivedere le cose future , o dannose, o vituperose << ch'elle debbiano essere, et da quelle a tutta lor possa sforzarse << di declinare o provedergli d'ottimo riparo. Ne la qual cosa << io medesimamente constretto sono di quelli imitar, se non vo- << glio sotto intrare al futuro incarico di vergogna, ch'imminente << mi veggio per causa di questa mia giovenil fatica. Ne la quale << molte vigilate notti ho consumato. Essa, come ch'ella sia, poi << che l'ebbi imposto l'ultima mano, ho più volte giudicata degna << di vivere , se non per altro, almeno per la lode , ch'ella con- << tiene d' una donna senza dubbio divina et immortale , de la <<< quale onesto Amor m'ha fatto sempiterno mancipio ». La cresciuta audacia e le minacciose disposizioni dei maldicenti e invidiosi l'hanno trattenuto finora dal darla in luce ; il che si è indotto a fare dedicando il libretto a così alta signora e in tal modo ponendolo sotto la sua valida protezione. Più oltre egli soggiunge : << Cognoscerà similmente V. S. in queste mie vigilie ad imita- « tione di Virgilio molte travi debili esser poste a sostegno de <<< l'opera fin che le colonne ferme e stabile fiano condutte ». L'operetta incomincia con la seguente descrizione di Gazzuolo: << Gazuolo non d'antiche mura circondato, ma dal divo Lodovico << Gonzaga novamente fondato , da gli abitatori suoi illustrato, è << un Castello ne l'extremità d'i campi Cremonesi , un lato del << quale Olio, fiume dividente quelli da i Mantoani, bagna con << l'onde sue non impetuose ; poi trascorso non mille passi, con le << torbid' acque del profondo Po le sue poche mescola. Abitan << questo al presente le die Isabella e Antonia sorelle di Balzo (1 ) ; (1) Isabella del Balzo, tanto lodata e ammirata anche dal Castiglione (Cortegiano , lib. III , cap. XXXVI) , figlia di Pirro, principe di Altamura , fu moglie di Federico d'Aragona , che, nipote di re Ferdinando II, alla morte dello zio (1496), gli succedette nel trono. Il Notar Giacomo però ( Cronica di Napoli, ed. Napoli, 1845, p. 152) c'informa che essa era stata data prima in moglie a don Francesco, figlio del re don Fernando, « quale non havendo << consumato el matrimonio con la predicta Isabella, quella contraxe el ma- < trimonio con lo signore don Federico per la morte successa del signor VARIETÀ 367 << quella d'Aragona, e regina di Sicilia, questa da Gonzaga Mar- << chionissa ; dui divi Ludovici da Gonzaga ( 1) , ammendui de Mar- << chesi di Mantua ; ma il primo eletto mantoano , l'altro conte << di Rotingo e fondator del luoco, e il reverendissimo Pirro suo << fratello con tre loro sorelle illustri : le quali , nè di beltà ce- « dono a Venere, nè di sapienza a Pallade, nè di costumi e ver- << tudi a qual dea si voglia, nè similmente di grazia alle stesse « Grazie..... » (2). Questa la scena dove avvenne il fatto che il Muzzarelli, spettatore ed attore, si accinge a narrare. « Mentre io <<< in tal loco al servizio del già narrato divo Lodovico eletto di- << moro , da gli Cortegiani che senza numero ivi sono fra le molte << altre preclarissime cose da loro excellentemente fatte, questa è <<< ch'i' medesimo vidi e odetti di sempiterna memoria dignissima, << don Francesco » . È noto com' essa , insieme col fedel Sannazaro, accompagnasse l'infelice marito in Francia ; ma i genealogisti e biografi di lei , compreso il CAPUTO , Descendenza della Real Casa d'Aragona nel Regno di Napoli ecc. (s. n. tip. , ma in Napoli , 1667 , p. 64) , non accennano al soggiorno suo in Gazzuolo presso la sorella Antonia , soggiorno che precedette quello di Ferrara, nella quale città essa morì l'anno 1533. Di Antonia del Balzo, che fu moglie a Gianfrancesco conte di Rodigo (latinamente Ro- · tingo) , signore di Sabbioneta e di Bozzolo ecc. , morto fino dal 1496 , parla l'AFFò , Delle zecche e monete di tutti i principi di Casa Gonzaga che fuori di Mantova signoreggiarono ecc . , Bologna, 1782, pp. 68, 122-3 n. , che descrive una medaglia coniata in onore di lei , con la leggenda: Diva Antonia Bautia de Gonz.(aga) Mar.(chionissa) . Ne parla anche il BERGAMASCHI, Op. cit., pp. 75-85, che accenna alle molte lettere autografe di lei, esistenti nell'Archivio Gonzaga e nelle quali essa usava sottoscriversi : « Antonia de < Baucio de Gonzaga Marchionissa Rotingisque Comitissa » . Ma più a lungo e con copia di nuove notizie tratteranno di Antonia, il Luzio e il Renier. (1) Del primo di questi « dui divi Lodovici » , che fu vescovo eletto di Mantova e protettor singolare del Muzzarelli, s'è già fatto parola ; il secondo, che apparisce nell' Affò e nel Bergamaschi come primogenito di Antonia, aveva perciò ereditato il titolo paterno di conte di Rotingo ; morì nel 1540. II LITTA però (Famiglia Gonzaga, tav. XIV) lo fa terzogenito dei maschi. (2) Pirro, terzogenito di Antonia, morì nel 1529. Delle tre sue sorelle, le tre Grazie di Gazzuolo, delle quali parla qui il Muzzarelli, non credo facile determinare il nome. Infatti, secondo il LITTA (Famiglia Gonzaga, tav. XIV), Antonia del Balzo ebbe sette figlie : Antonia , nata gemmella di Gianfrancesco, ma morta monaca nel 1502 ; Eleonora, nata gemmella di Pirro ; Barbara , Dorotea , Susanna, nata gemmella con Camilla , e Giovanna. Non avendo dati cronologici sufficienti , non mi è possibile neppur congetturare a quali di queste ultime sei sorelle alluda lo scrittore. 368 V. CIAN << e raccontar mi piace, accioch'il tempo, degli eccellenti fatti ini- « mico, in oblio non la ponga , e la futura etade (se forse me- << ritarano queste mie rozze parole di tanto viver) la conosca e « admiri..... ». Ma, prima, l'autore sente il dovere di rivolgere un'invocazione alla sua donna, come a sua unica musa ; poscia dà principio al suo racconto. « Aveva l'anno, già cresciuto in etade , spogliatasi la fanciul- <<< lezza e vestitisi i più ferventi giorni de la sua giovenezza, ed << era Febo gito ad abitar col forte leone, prima vittoria del ge- « neroso Alcide, mostrava il cielo la caccia d'Arione avendo già << nascosa la rapatrice del garzon trojano, e i giovevoli frutti de la << Santa Cerere cominciavano a patir l'acerbe percosse degli uo- « meni, quando io e per fuggir ocio, e per far salubre exercicio, << allora ch'il sole stando nel più alto loco del cielo, il nostro emi- << spero scalda con più cocenti raggi, sopra la riva d'Olio andando <<< invitato da l'ombra de'lenti salci , e dal pensiero de la mia << donna alienato, mi lasciai a i piedi trasportar incontra l'onde << circa mezzo miglio. Allora il suon de un liuto a le mie orec- << chie pervenuto , tutto in me mi riscosse e l'anima dal dolce << pensiero disviò. Perch'io ad odirlo fatto attento , stimai che << presso fusse, e dietro al suono a giudicio de l'orecchie i passi << movendo, giunsi in un bellissimo prato vestito di minutissime <<< erbe miste con varii giocondi fiori tutto pieno di frondosi ar- <<< bori, ch'il luoco dal Febeo raggio diffendevano: faceva il loco << con duo lati riva ad Olio ; il quale più ch'in ciascun altro lim- << pido e chiaro l'erbe di quello radendo, gratiosissimo mormorio << formava sovra la riva d'esso. Sotto fresch'ombre sedeva colui << ch'il suo liuto accordante m'aveva tratto col suono del mio << lungo pensiero da un altro consimile instromento accompa- << gnato. Era il nome di questo Filotimio , de l'altro Epenofilo, << amendui de' Cortegian nostri et amendui amici miei. Quegli << subito che mi videro a seco sedere m'invitarono, lo cui invito << poi che da me fu posto in effetto , Filotimio disse: veramente << tu non potevi venir più a tempo, di te ci è nato non poco bi- << sogno, perch'essendo, come noi, acceso dal vincitor degli uomeni << e dei con dolce foco, ottimo giudice de le nostre amorose que- ◄stioni, ti ci averà mandato la fortuna ». L'amorosa questione riguardava una contesa sorta fra i due innamorati, ognuno dei quali dava la palma della bellezza alla sua donna. L'autore, che conosceva l'amante di Filotimio, eletto giu- VARIETÀ 369 28 量 R 官 dice fra i due contendenti, riesce a comprendere anche chi fosse la donna amata da Epenofilo, che era « ancora novo in corte, << chè di poco gli era venuto a stare » ; e si accorge « lei esser <<< quella la quale lui stesso di soavi fiamme ardeva e Filotimio << aveva dolcemente stretto ne i suoi legami » . << Per la qual cosa avendo nota la sofficienzia de l'un e di << l'altro in ogni scienzia, e massimamente nel componer rime », si senti contento , benchè gli rincrescesse alquanto che « altri << ardesse de la sua dolce fiamma »>. Egli adunque, accettando l'ufficio di giudice, invita i due innamorati a celebrare le lodi della loro donna, « e qual più lodi e << maggiori ne dirà, esso ottenga la palma » . Filotimio tenta di schermirsene , dichiarando l'incapacità sua e degli altri uomini a trattar degnamente così alto soggetto ; purtuttavia qualche lode non manca di fare, sebbene preferisca ricorrere al suo liuto, già accordato, e su questo cantare una sua « canzonetta , ne la << quale vedrete (egli avverte) quante volte ho tentato questa im- << presa, nè mai mi è bastato l'animo di la cominciare. Così ditto << avendo, et imbracciato il liuto, movendo con dotta mano le re- <<< sonanti corde, cantò » una canzonetta che incomincia : Un pensier, ch'il mio cor tutto possede. Parimente Epenofilo intuona una canzone che comincia : Sovente con Amor l'alma si dole e che ha l'identica struttura metrica e un egual numero di strofe e quindi di versi . Ma questo primo esperimento non fa che ispirare e accendere maggiormente i due giovani innamorati, i quali si accingono a continuare nella loro gara poetica alternandosi l'un l'altro nel cantare le bellezze della lor donna. Perciò il Muzzarelli prosegue con l'inserire a brevi intervalli , fra un passo e l'altro della sua prosa, una lunga e monotona serie di canzoni o canzonette, delle quali mi limiterò a fare l'enumerazione, dandone il principio insieme col nome del personaggio, da cui ognuna di esse è cantata : Filotimio. Come potev' idio (c . 8 v). Epenofilo. O s'io potessi, amanti (c. 9 v). Filotimio. Qualor con queste luci. Epenofilo. Amor, beat' Amore. L'autore , rapito da quei canti , si sentiva acceso anch'egli di 370 V. CIAN divino furore e innalzato ad un grado sovrumano, tanto che egli dichiara : << Io avevo letto la palinodia del Fedro platonico , la << qual benchè da prima mi paresse mirabile , non dimeno nè « così vera , nè di tanta meraviglia mi parve giamai come fece << allor che Filotimio cantò le sue canzoni : le quali mi mostra- << rono veramente chiaro et aperto l'effetto e le parole di quella «< e mi sollevarono tanto col pensiero, ch'io trapassai il cielo e << vidi ciò che più volte m'era parso di vedere ne ' l celeste volto << della da noi parimente amata e onorata donna ». Ma Filotimio vuole procedere nell'impresa assunta, con più ordine, e perciò prende a ritrarre una ad una le bellezze della sua donna, così : << Da ' l capo pigliarò principio, dal quale gli aurei crini da esso << nascenti e procedenti in molta longhezza cadenti per le spalle <« e ondeggianti sopral collo da maestra mano in vago ordine << raccolti con tanta grazia scendono con quanta nelle Grazie << stesse , nè altro potrebbe più . Eglino tanto ben' ammaestrati << sono e con si debito e conveniente modo procedono legati con << nodo d'oro a l'oro nel color cedente, che niuno ardisce d'uscir << del comandato ordine se non alquanti ; i quali ad arte lasciati << in libertade con dolci nodi pendenti baciano più volte la divina << faccia, colla quale dolcemente scherzando empieno qualunque << riguardante di tanta maravigliosa allegrezza, che non si pò ben <<< imaginar che cosa ben si conface a tanta lor bellezza . Che cosa << pò ben aguagliarsi a la tanta vaghezza, che si potrà comparar << alla leggiadria di quelli ? nulla veramente..... ». E in lode delle chiome raccolte in bell'ordine Filotimio intona la canzonetta seguente: Amor, chi vide mai sì belle chiome? Ma l'innamorato poeta non è contento. Ottenuta da Epenofilo licenza di proseguire, egli esalta la bellezza delle chiome disciolte della sua donna : « Quantunque infinita sia la grazia e la beltade delle vaghe << chiome della amata mia donna allor ch'ella ammaestrata in <<< bello ordine le ritiene , non meno vaghezza e ornamento in << sè conservano quando libere e sciolte senza legge dolcemente << a l'aura sono sparse ed ora si dolcemente co i venti scherzano, << ora con tanta grazia ondeggiano per le divine spalle e per il << celeste collo di quella, che veramente non ponno d'alcuno senza <<< grandissimo stupor esser mirate..... ». VARIETÀ 371 台灣资省 E ripigliando « l'interlassato instrumento » , Filotimio recitò una sestina, di cui riferirò la prima stanza : Si come Febo allor che con più forza scalda la terra, e con più chiara luce sparge per tutto i suoi lucenti rai, sì che fa rallegrar l'aere e il cielo, così sparge i suoi crin l'almo mio sole che porgon luce assai più dolce e chiara. Alla sua volta Epenofilo si accinge ad accennare alle bellezze della sua donna ; ad accennare soltanto, perchè al giudice suo, che la conosce, una sola parola basterà per isvelargli « una in- << finita moltitudine delle sue bellezze a l'ombreggiar de le quali « trapassarò (egli dice) , incominciando dalle veramente più che << divine chiome le quali del splendor di splendidissima fiamma << d'oro scendono da l'aurea testa ondeggiando sopra le candide << spalle che con finissimo avorio lé nevi vincente le raccogliano << e parte di sè sotto quelle nascondono. Lega si mirabil lavoro << una rete di fin'oro tanto a quelle nel color cedente, ch'exempio << alcun non basta a ben dimostrarlo. Con quanta grazia , con quant' ammaestramento , con quanta leggiadria stann' elle nel << comandato ordine e temeno d'uscirne ! Con che piacevoli nodi <« imitano l'onde di pelago poco turbato , onde le ho più volte giudicate somiglianti a un mare d'aurea luce, il qual a press'i <<< begli occhi di lei lascia fuor di sè trascorrere duo fiumicelli, << che scherzando se ne vanno per le rose e ligustri del suo bel << volto. Dentro a sì felice pelago dimora amore che con dolce << barca conduce mille cuori e mille spoglie de i dei..... ». Anch'egli, l'ardente innamorato, intuona una canzone, che incomincia: Qual maraviglia è quella, amor beato. In una stanza di questa canzone vediamo versificato in tal modo un passo prosastico che s'è riferito più sopra : Candidissimo avorio netto e terso, al dolce mar di quella luce viva a cui Febo s'avviva, fa degno suolo excelso e grato fondo e d'ogni intorn' a l'onde amena riva , riva che mai non ha color diverso dal lito indic' al perso, 1 T 372 V. CIAN percossa non con moto furibondo, ma con scherzo piacevol e giocondo de l'acque che non han fortuna mai. Dui ruscelletti fuor lasciati ad arte appresso quella parte ove più scalda il sol cinto de' rai, sen van scherzando con l'onde amorose fra le campagne di ligustri e rose. E con le solite esagerazioni e squisitezze secentistiche e reminiscenze petrarchesche, Epenofilo prosegue : Il ciel gioioso e di letizia pieno ride presente a questo novo mostro, onor del secol nostro, e per gran meraviglia il cors' allenta. Consperso di ridente luce d'ostro l'aere più de l'usato assai sereno si mostra tutt' ameno pien di foco amoroso a gara tenta, pregando pur Amor che gli consenta basciar così mirabile lavoro. Perchè quell'aer a cui toccarlo lice divien più che felice e si tramuta in vaga luce d'oro, onde sdegnando il suo proprio elemento, ratto s'invold in ciel lieto e contento. Dopo un breve intermezzo lirico in prosa sullo splendore delle chiome disciolte della sua donna, anche Epenofilo, sull'esempio del rivale, intuona una sestina : Si come nel seren di pura notte. Ma, appena egli ha finito, Filotimio , senza perdere tempo , così riprende il suo dire : « Sorge, giudice mio, sopr'il bel volto della << mia unica donna un vago colle non troppo extendentese in <<< fuore col giogo piano carco sempre d'eterna neve , cui confi- << nano quelle divine chiome di ch'io ve ho già ragionato. E << quello con dolce nodo cingono collegate con ebano , il quale << nella stremità della sua più bassa parte gli fa celeste ed amo- << rosa siepe per metade diviso da condecente candido spazio << posto fra esso ardito con due archegiate linee non excedenti << la misura della sottigliezza e lunghezza convenienti star sopra VARIETÀ 373 << dui ardentissimi soli . Scende di sì ameno colle una leggiadretta << costa ad esso nel color non dissimile : la qual , intorniata da <<< candidi ligustri e mattutine rose non superbamente elevata, << non umilmente depressa , ma con tanta convenienzia ordinata << che niente più, occupa con la lunghezza sua solamente tanto << spazio del seren volto nel suo descendere, quanto il candido << giogo sopra lei nell'ascendere. Bastimi, giudice, con sì poche << parole aver designato un mondo di bellezza ch'i' mi sforzarò <<< col canto ampliar molto e, se non bene , almeno com'io potrò, << colorir questo disegno. E poi ch'ebbe così detto , cominciò ed <<< andò modulando sin al fine la seguente canzone », della quale trascrivo qui la prima stanza : Un bel colle amoroso coverto sempre di gelata neve col giogo netto, pian' e spazioso alto quant'esser deve un sì divin lavoro, cinto d'eban e d'oro concess' al mio bel sol meritamente, sì colmo d'onestade e di tanta divina maiestade sorge si dolcemente sopra la luce del suo chiaro viso, che mostra quasi tutto il paradiso. E la gara continua. Epenofilo celebra prima in prosa e poi in una canzone (<« Un vago eccelso piano ») la fronte , poi il naso della sua donna « l'odorante naso », che ardisce « d'inalzarsi infra << dui lucentissimi soli e per dritto cammino pigliando sempre << debito accrescimento fra le rose e gigli tanto che posseda con << la sua lunghezza nè più nè meno che la terza parte di sì bel « volto »; infine il mento. Dopo un breve intervallo , durante il quale è rimasto come trasognato, l'innamorato giovane intuona due canzoni , la prima che incomincia : • Chi mi darà giamai, la seconda, « l'altra sua sorella » : Se pur debb'io seguire. Ambedue sono consacrate a cantare le bellezze degli occhi della 374 V. CIAN donna divina, come le tre seguenti, nella prima delle quali (« Hor << mente innamorata » ) Epenofilo si propone di seguire un <<< ordinato disordine », simile alla seconda, che incomincia : O mente, or prendi ardire. Ma più « maraviglioso diletto » egli porse agli ascoltanti con la terza canzone, che comincia : Occhi chiari, leggiadri, occhi beati , ogni stanza della quale principia con un'invocazione agli occhi. Filotimio, pur confessandosi superato « di parole » dall'avversario, confida nella conoscenza che il giudice ha della sua donna , la quale soltanto può meritare « le finte lode » dall'altro attribuite alla sua. Nondimeno in una breve « canzonetta » d'una sola stanza egli descrive le bellezze « de le vermiglie gote » ( « Chi brama << di gustar cogli occhi amanti | Un mondo di dolcezza ... »). Lo stesso si affretta a fare Epenofilo con una canzonetta consimile, che incomincia : Miste con gigli candide vermiglie. L'altro, trepidante sempre più per la valentia dell'avversario, prosegue cantando « la divina bocca del suo sole », in una canzone che incomincia : Fresche leggiadre rose. Dal canto suo Epenofilo , che sempre più imbaldanzisce e si tiene << sicurissimo della vittoria », invita l'avversario a cedergli il campo, concedendogli di porre ad effetto la sua minaccia, cioè di palesare il nome della sua donna, « ch'io la mia tacerò (egli << soggiunge) e questo silenzio mi donarà la palma de la question « nostra. Già senza ch'io il dica per se stesso si mostrarà il nome « de la signora mia, perchè ben è cieco chi non vede il sole ». Ma poichè scorge l'altro rimanere ostinato e in atto beffardo, celebra anch'egli con una canzone (« Ristretti in picciol loco, | divine << rose, coralli e giacinto , | rubin, porpora ed ostro» ) le lodi della << divina bocca ». Intanto l'autore, nel suo ufficio di giudice, godeva d'ineffabile gioia udendo esaltare colei che egli stesso amava ed onorava, e non minor piacere provava per le loro « questio- VARIETÀ 375 << nevol tenzoni insieme con l'errore , nel quale conosceva l'un « e l'altro esser avvolto ». Epenofilo prosegue a descrivere i « dui << piccioli rotondetti bucolini », che si vedono « quantunque volte << Madonna ride », in una stanza che principia : Chi vol veder quel che non pò natura. Filotimio, dopo rivolte alcune proteste ed accuse all'avversario, passa a descrivere il collo « candidissimo » della sua donna (« Un << divin glorioso ») , seguìto in ciò, senza indugio, dall'altro ( « Terso << celeste netto ») . Quindi celebra « le ricchezze dil celeste petto > in una canzone che comincia : Candidissim' avorio almo e divino, e nella quale non mancano dei tratti di calda sensualità : In sì bell'opra (nel petto) con poco rilevo surgon dui pomi eguali per bellezza immortali nati in più bel giardin che di levante , da stancar mille lingue e far fermar ancor mill'Attalante. L'un da l'altro distingue la propria strata lattea de lo cielo che copre un crudo ingiurioso velo. Ben manifestan sua beltà celata a chi mira a mal grado dil vel, benchè di rado , i sospir di madonna, i risi e il canto ch'il ciel adorna e molce. Allor si vede ben soave tanto e sì vago e si dolce il tremolar de l'un e l'altro pomo, che non potrebbe non lodargli Momo. E Amore se ne sta tutto lieto « alla guardia di tante alte ric- << chezze » ed « ebrio di quel piacer ch'ivi si sente | infra i bei << pomi siede ». Nè Epenofilo vuol mostrarsi da meno dell'avversario nel cantare il petto e i « duo colli, duo fonti di latte » della sua donna (< Entro un pian di finissim ' alabastro ») . Dopo il petto , la mano ; alle cui bellezze Filotimio consacra una canzonetta che comincia : « O vaga man , de le più belle << cose | Celest'almo disegno » ; ed Epenofilo, un'altra che principia : 376 V. CIAN Quella man che fa 'l ciel stupir sovente. Dopo di che si celebrano in due canzoni i mirabili e benefici effetti morali che i due amanti hanno ritratto dalle divine bellezze della lor donna. La prima di esse comincia : la seconda : La donna, ch'al cammin del ciel mi scorge; La donna ch'il mio cor negli occhi porta. Filotimio, dopo osservato che il suo avversario si mostra seguace di quel secondo amore che Platone diceva « nato di Vener << terrestre », preponendo « le bellezze della sua donna a quelle << del cielo », recita, certi versi già da lui composti nel principio « del suo amore » per mostrare che anch ' egli sarebbe capace di fare come Epenofilo. E i versi, che riferirò per intero, sono i seguenti : Amanti, ' l vo' pur dir, ch'ogn'uom m'intenda, poi segua ciò che vole. Già non temo, ch'alcun me ne riprenda, se non chi non ha visto il mio bel sole. lo ' l dico dunque ormai senza paura perchè la veritade, non udita più vera in altra etade, mi sforza ed assicura a tutto il mondo spor queste parole : o che la donna mia l'ha nel bel viso, o ver ch'altrove non è paradiso. Ma intanto il sole era tramontato e la notte cominciava « a ve- <<< stir il cielo de spessi lumi » e i due stavano aspettando la sentenza del giudice, quando, indotto da Filotimio, che pronuncia il nome della sua donna, Epenofilo , arrossendo , cede la palma a lui. « Se la tua donna ( egli dice) pò se stessa di bellezza avan- << zare, il che non potendo, giudico, ch'ella sia d'amendue egual- << mente. Questo non intendeva egli fin ch'i non gli dechiarai il << tutto, mostrandogli che l'amata sua non poteva se non vincere << avendo il giudice e i litiganti tutti in suo favore. De la qual << cosa contenti sopra modo, s'avviamo di compagnia verso Ga- < zuolo ». Prima di deporre la penna (veramente, prima di dar pace al calamo!), il Muzzarelli, congedandosi, con una lettera, dal lettore, si giustifica del non aver mai nominato la donna in lode della quale VARIETÀ 377 ha scritto il suo libretto. Ha preferito serbare il silenzio per non farle ingiuria con si poche e mal composte lode » - << oltra << che, avendo dato notizia del loco , ov'è la sua divina stanza, « m'è parso (egli soggiunge) assai sofficiente indicio mostrar il « suo nome a ciascuno pratico di Gazuolo ; di ch'è pratica quasi << tutta Italia o per conversazione per fama da la sua beltade << poco men che tutta procedente , ne 'l quale ritrovare , la bel- « lezza di lei , ch'è infinita e sanza paragone, non lascia errar <<< alcuno. Sia felice , o mio lettore , e non aspettar d'udir ne le << mie rime si divin nome inserto, fin ch'i non sappia secondo ' l << merito di quello divinamente proferirlo ». Come si può vedere anche da questo riassunto e dai saggi, più abbondanti forse che l'operetta del Muzzarelli non meritasse, non si apponeva al vero il Tiraboschi seguito naturalmente da quanti accennarono al poeta gazzolese dicendola fatta << a << foggia » dell'Arcadia del Sannazaro. - - Ma forse lo storico modenese intendeva di dire soltanto che essa era foggiata sull'opera dello scrittore napoletano , per ciò che riguarda la forma , cioè la mescolanza di versi e di prose. Tuttavia, se con questo egli voleva ammettere una derivazione diretta , sia anche puramente formale , credo non si possa neppure in tal caso acconsentire con lui . Certo, l'Arcadia , appena vide la luce, anzi prima d'esser data alle stampe, fu accolta con grande favore e studiata e imitata. Ma non minore fortuna, proprio in quegli anni, ebbero gli Asolani del Bembo, che, meditati e composti in parte sin dalla fine del sec. XV, quindi indipendenti dal romanzo sannazariano, non tardarono a diventare come il codice della galanteria amorosa, gradito ai letterati nuovi come alle dame eleganti delle corti principesche , ai gaudenti monsignori della corte romana come alle cortigiane , le insidiose regine del gusto e della noda. E tanto più lieta accoglienza dovette avere il libretto del poeta veneziano, dacchè esso non offriva, come l'Arcadia, una rappresentazione artificiata e stentata d'un mondo pastorale che le persone colte e di gusto preferivano forse vedere specchiato in tutta la sua antica e più ideale purezza nelle fonti classiche, ormai note abbastanza. Esso invece riproduceva, idealizzata , in quella maniera che allora era tanto gradita, la vita raffinata ma reale della miglior società di quel tempo , in quel suo caratteristico temperamento di sensualità che si agi- 378 V. CIAN tava e fermentava nel fondo, e di idealità platoniche, svolazzanti carezzevoli all'intorno : idealità di cui s'era fatto apostolo Marsilio Ficino e che servivano a dare quel colore, quella vernice, quella certa acuta fragranza che i gusti nuovi richiedevano. Orbene: basta una rapida occhiata per vedere che l'operetta giovanile del Muzzarelli ha somiglianze assai maggiori con gli Asolani , che non con l'Arcadia. E lasciamo pure la forma di essa, cioè quella mescolanza di versi e di prose, di cui il Bembo, come il Sannazaro, ritrasse l'esempio dai modelli del Trecento, sovratutto dall'Ameto boccaccesco. Osserviamo solo che anche nel modo di riattaccare i versi alla prosa, di motivare, a dir così, quelle canzoni che rampollano frequenti dal periodo boccaccevolmente manierato e fiorito, il Muzzarelli s'avvicina assai più all'opera dello scrittor veneziano, che non a quella del napoletano. Ciò avveniva e doveva avvenire per la maggiore affinità della materia, della finzione, che si connetteva più strettamente con la vita reale, signorile e cortigianesca di quei tempi . Negli Asolani i tre giovani gentiluomini venuti da Venezia si raccolgono nel giardino di «< Ma- << donna la Reina di Cipri » a ragionare d'amore insieme con tre leggiadre donzelle ; nell'operetta del Muzzarelli l'autore medesimo interviene, giudice invocato, « nelle amorose questioni » insorte fra due cortigiani suoi amici, seduti sulle rive dell'Olio, non lungi da Gazzuolo. E come il Bembo dedicava il suo libro a Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, con una lettera che veramente non era apparsa in tutti gli esemplari dell' edizione principe aldina, così il cortigiano di Gazzuolo poneva la sua operetta sotto la protezione della duchessa d'Urbino. Nè dovremo stupirci d'altra parte, che la contenenza e l'intonazione delle due dedicatorie sieno tanto diverse fra loro. Alla descrizione che messer Pietro premette del castello di Asolo, corrisponde evidentemente quella che il Muzzarelli ci porge della sua nativa Gazzuolo. Sebbene si tratti di concetti e rappresentazioni comuni, e in gran parte tradizionali, di derivazione boccaccesca , purtuttavia giova anche notare, io credo, che nel descrivere il bellissimo prato dov'egli ebbe a trovarsi dapprima, il Muzzarelli mostra d'essersi ricordato d'una descrizione consimile che il Bembo, nel principio degli Asolani, ci fa del prato scelto dalla compagnia per gli amorosi ragionamenti (1). (1) Nel Bembo abbiamo la minutissima erba, nel Muzzarelli le minutis- VARIETÀ 379 Anche il Muzzarelli tratta, come il Bembo, ma in una forma più concreta e speciale, entro confini più ristretti, di « amorose << questioni » ; anch'egli nasconde i due interlocutori, suoi amici, sotto nomi finti, foggiati alla greca, seguendo in ciò piuttosto l'esempio del Boccaccio. Il tema svolto dal giovane letterato gazzolese, cioè la sfida e la gara di due innamorati nel celebrare le bellezze della loro donna, è, nelle sue linee più generali, abbastanza comune nella poesia popolare e popolaresca , così antica come moderna. Ma della forma tutta speciale che esso qui assume non saprei trovare veri e sufficienti riscontri nella poesia bucolica d'arte, grecolatina e italiana. Virgilio, al quale, quasi a modello preso a imitare, il Muzzarelli accenna in modo non chiaro nella lettera dedicatoria, Virgilio non ci offre che un esempio troppo dissimile nella ecloga V, dove i due pastori Mopso e Menalca fanno a gara nel cantare le lodi dell'estinto Dafni. E solo incidentale è in altre ecloghe il vanto delle bellezze dell ' amata , come nella III delle ecloghe virgiliane, che è di carattere veramente amebeo, e dove fra Menalca e Dameta entra giudice Palemone. Ben diverso è il caso nell'operetta del Muzzarelli, come s'è potuto vedere dal riassunto che ne ho offerto ai lettori ; e ben diversa, sostanzialmente diversa, e in sè stessa e in rapporto con l'ambiente e i personaggi, la condizione del giudice di questa gara, che è l'autore medesimo. Nelle lunghe minute descrizioni della bellezza femminile, così prosastiche come poetiche , il Muzzarelli , pur dando prova di scarsa originalità, pur seguendo in gran parte quella tradizionale rappresentazione del tipo estetico femminile, alla quale il Renier consacrò un pregevole e succoso , per quanto tendenzioso volumetto (1) , mostra a volte un certo spirito di osservazione dal vero. Se sarebbe agevole venire raccogliendo imitazioni o riscontri sime erbe; il difesi dal sole del primo corrisponde ai « dal Febeo raggio < diffendevano » del secondo. Negli Asolani vediamo « un rivo non molto << grande di chiare e fresche acque », che zampillando da una fonte bellis sima e incanalato si affretta « a correre mormorando » ; nell ' operetta del Muzzarelli abbiamo l'Olio, il quale « più ch'in ciascun altro (loco) limpido e chiaro, l'erbe di « quello radendo, graziosissimo mormorio formava sovra la riva d'esso » ecc. (1) Il tipo estetico della donna nel medio evo, Ancona, 1885. Cfr. lo studio del TORRACA, Donne reali e donne ideali, nelle Discussioni e ricerche letterarie, Livorno, 1888, pp. 289-347. 380 V. CIAN di sulle opere boccaccesche , specialmente dall'Ameto, e più ancora di sugli Asolani (1) , è anche facile dimostrare che in certi casi il Muzzarelli attingeva non dalle pagine di vecchi o recenti scrittori, ma dall'osservazione e dall'esperienza diretta ; toglieva linee e colori dalle bellezze femminili vive e fiorenti alla corte di Gazzuolo e di Mantova, specialmente tra le figlie di Antonia del Balzo, alcune delle quali furono celebrate per la loro beltà. Peccato però che egli non sospetti neppure il segreto per cui Raffaello, da lui forse conosciuto in Roma, riusciva a dar forma e vita immortale a quella certa sua idea, quasi essenza del bello femminile, ch'egli sapeva trarre dalle figure di donna ; peccato che rimanga troppo distante anche dall'arte del Molza, pur suo lodatore, e del Firenzuola ; peccato che troppo spesso nel disegnar quelle linee la mano gli tremi, e nello stendere quei colori, ei li stemperi e diluisca sino al fastidio. Forse, almeno per la vanità naturale e per la dolcezza che è sempre nella lode, la donna così celebrata dal Muzzarelli, chiunque essa fosse (2), non recava di questo suo ritratto un giu- (1) Negli Asolani (ed. Classici , p. 158) abbiamo le chiome « più simili << ad oro che ad altro »; nel Muzzarelli « gli aurei crini » . Il Bembo (ibid.) ci descrive , forse per reminiscenza boccaccesca , le « ciocchette di capelli << dolcemente ondeggianti per le gote » , che danno l'effetto di « un nuovo « miracolo di pura ambra palpitante in fresca falda di neve »; il Muzzarelli ci rappresenta « le divine chiome che ondeggiano per le divine spalle » e << scendono da l'aurea testa ondeggiando sopra le candide spalle che con << finissimo avorio le nevi vincente , le raccoglion » . Alle espressioni degli Asolani: « lungo il soave giogo della testa ...» e « le ciglia d' ebano », corrispondono nell' operetta del Muzzarelli : « un vago colle non troppo ex- << tendentese in fuore col giogo piano carco sempre d'eterna neve » e le sopracciglie « d'ebano » ; nell' uno e nell' altro scrittore compaiono i « dolci << pomi » e i « dui pomi eguali »; i quali, nel Bembo « resistenti al morbido << drappo, sogliono bene spesso della lor forma dar fede, mal grado dell'u- << sanza, che li nasconde »; e nel Muzzarelli « manifestano della sua beltà «< celata | A chi mira a a mal grado dil vel ... » ecc. (2) Confesso che in tanta deficienza d'indizî concreti non oserei tentare neppure una congettura intorno alla donna celebrata dal Muzzarelli. Il quale , giunto alla fine della sua operetta, congedandosi dal lettore , dichiara di non aver voluto palesare il nome di lei, anche perchè essa era tanto famosa in quasi tutta l'Italia per la sua bellezza, che bastava, come aveva fatto, menzionare il luogo dove splendeva, per riconoscerla. Ma pur troppo a noi oggi questa riesce impresa quasi disperata, e tutt'al più possiamo supporre che si tratti d'un'alta gentildonna, probabilmente d'una delle giovani principesse del ramo Gonzaghesco dominante a Gazzuolo. Tra le figlie di Antonia del Balzo VARIETÀ 381 dizio tanto severo. Che se il giovane poeta, probabilmente perchè sconsigliato dai più autorevoli amici letterati e perchè aspirante a cose maggiori, lasciò inedita questa sua operetta, dobbiamo pur riconoscere a sua lode - lode scarsa davvero che le stampe del primo Cinquecento ci hanno tramandato ben più deplorevoli saggi di scritture cortigianesche. - - Anche nella metrica il Muzzarelli mostra assai maggiori somiglianze col Bembo, che non col Sannazaro e con altri. Infatti i componimenti poetici ond'egli ha infiorato la sua operetta, non ci offrono alcun esempio di quei ternarî sdruccioli, o mezzi piani e mezzi sdruccioli, e di quei polimetri che sono le forme prevalenti e caratteristiche dell'Arcadia . Sono canzonette (per adoperare la vecchia denominazione nel significato adottato dal Bembo e dal Muzzarelli) e canzoni in tutto conformi a quelle che ricorrono negli Asolani; e in mezzo ad esse apparisce, come nei dialoghi del poeta veneziano, una sestina semplice. Le reminiscenze del Petrarca e del Bembo abbondano del Petrarca specialmente - - quelle ma non sempre per fortuna così scoperte e indiscrete da doversi dire veri plagi di concetto e di mosse poetiche, come la stanza (c. 32 v.): Chi vol veder quel che non pò natura, che ricorda troppo da vicino il sonetto petrarchesco : Chi vuol veder quantunque può natura. Non ostante questo, non ostante certe inesperienze giovanili, certe squisitezze e ricercatezze secentistiche che anche nella poesia cortigiana del primo Cinquecento abbondavano più di quanto comunemente non si creda , il Muzzarelli si mostra mediocre petrarchista e non dei peggiori, sovratutto quando si pensi che questi sono i suoi primi tentativi ; e rivela qua e là certe attitudini che si svolsero non sempre infelicemente più tardi. era insigne per la sua bellezza e per la sua coltura quella Camilla, che meritò anche le lodi del Bandello, quella stessa alla quale il nostro Muzzarelli indirizzava la già citata canzone per consolarla della morte dello zio Lodovico. Questa canzone , finora inedita e che pubblico qui in appendice, si risolve in una lode delle bellezze di lei , rese maggiori dal dolore e dal pianto ; e perciò appunto non si andrebbe forse troppo lungi dal vero congetturando che la signora Camilla sia la gentildonna celebrata dal Muzzarelli nella sua operetta giovanile , in segno non tanto di vero amore , quanto di omaggio cavalleresco e cortigianesco. Giornale storico, XXI, fasc . 62-63. 25 382 V. CIAN Certo, la cronologia non si oppone per nulla alla congettura da me finora ammessa implicitamente, che cioè l'operetta del Muzzarelli , derivando , almeno in parte , dagli Asolani del Bembo, sia di necessità, posteriore ad essi, posteriore dunque al marzo del 1505. Basti ricordare che lo scrittore gazzolese nomina come presente alla corte di Gazzuolo anche l'Isabella del Balzo, la vedova del re Federico d'Aragona. Tutti gli storici e biografi , ch'io sappia , s' accordano nel porre il ritorno di lei dalla Francia non solo dopo la morte del marito (ottobre 1504) , ma dopo la pace conchiusa tra Ferdinando il Cattolico e il re di Francia, nell'ottobre del 1505. Questo, in modo approssimativo (principio del 1506) , il termine a quo; mentre il termine ad quem è segnato dalla morte del vescovo Lodovico Gonzaga, avvenuta nel 1511. Di più non saprei ragionevolmente affermare intorno alla cronologia di quest' operetta , che nella chiusa sembra arieggiare nientemeno che la chiusa della Vita nuova , con un annunzio e una promessa d'un lavoro, di gran lunga più degno, in lode della donna amata, nuova Beatrice. Ma ben altro aveva fatto già nella sua Vila nuova il divino Alighieri, ben altro che il Muzzarelli in questo suo libretto giovanile ! Povero lavoro senza dubbio, ma notevole se lo si consideri come un primo tentativo d'uno scrittore che destava tante speranze di sè pur fra i migliori contemporanei; notevole come documento dei gusti, delle consuetudini più frequenti nella vita e nella letteratura cortigiana del primo Cinquecento. E questi gusti e queste consuetudini si rivelano nella scelta dell'argomento, nella forma in cui esso è trattato, mista di prosa e di versi, che continua lontanamente la tradizione boccaccesca e direttamente si riattacca agli Asolani più che all'Arcadia ; si rivelano anche nello stile e nella lingua , che tradiscono così spesso la sudata imitazione e del Boccaccio e del Bembo. Anzi mi sembra degno di attenzione il fatto di questo giovane mantovano, che in sullo schiudersi del sec. XVI, senza essere ancora uscito, a quanto pare, dalla sua regione, vivendo sempre tra letterati mantovani o, al più, dell'alta Italia, solo a forza di studio sui volumi del Boccaccio e del più boccaccevole tra i recentissimi prosatori , in un tempo in cui mancavano affatto vere grammatiche volgari, riesce in una sua operetta giovanile a liberarsi in gran parte da quegli idiotismi, da quelle durezze e improprietà di locuzione, da quei latinismi crudi e grossolani , dai quali un suo contemporaneo e VARIETÀ 383 compaesano, il Castiglione, pur nella maturità dell'ingegno, non seppe sempre guardarsi, non ostante l'aiuto degli amici e il limae labor et mora di anni non pochi. E per tale riguardo , cioè come documento di volgare aulico, per quanto artificiata e talora stentata , tal' altra classicamente prolissa e pomposa, mi sembra che la prosa giovanile del Muzzarelli non sia di molto inferiore a quella dell'Arcadia, almeno nella lezione adottata dal più recente editore (1). APPENDICE (2). VITTORIO CIAN. Canzone di messer Giovanni Muzzarello sopra il pianto della S. M. Camilla in morte del vescovo di Mantova suo barba. Piangea Madonna il suo signore estinto Sorpresa da martir gravoso e forte, Dure leggi del ciel maligne e torte. Non vide unquanco un sì bel pianto il sole, Che gira l'universo, Nè sentì mai così dolci parole. Pioggia d'argento terso O di cristal purissimo, lucente Di quella vaga luce Che nei begli occhi di Madonna luce Scendea sopra quei gigli e quelle rose Che veston altamente Entro 'l bel viso due guance amorose Fatte per doglia pallidette e smorte, E riempion i sospir le voci accorte. Facea vera pietà, vero dolore, Come ciascun s'avvide , Bagnar nel volto a lei di pianto amore, (1) Arcadia, ed. SCHERILLO, Torino, 1888. Per ciò che riguarda la lingua del Sannazaro, secondo la lezione del cod. Vatic. 3202, vedasi l'Introduzione, pp. CCLX sgg. (2) Cfr. p. 364, n. 1. 384 V. CIAN Onde bramò chi vide Per pianger così ben, di pianger sempre, E destinorno assai Dopo un pianto sì bel non pianger mai. Lacrimando dicea tinta nel volto Di duol, che 'l cor distempre : Ogni mio ben crudel morte m'ha tolto ; Oimè chi fia che lievi o conforte L'alta mia doglia in ch'io non ho consorte? Qualunque a tal pietà ritenne il lutto ; Certo è ben per inanzi D'aver sempre in sua vita il viso asciutto , Ch'altra non sia che avanzi Questa onde tutti si meravigliaro Color ch'eran presenti, Che a si pietosi e si dolci lamenti Il mio Signor non ritornasse vivo. Ma se questo riparo Non giovò poi che fu di vita privo, Perchè non pianse pria maligna sorte Per veder s'esser puol pietosa morte? RASSEGNA BIBLIOGRAFICA GIUSEPPE CASTELLI. - La vita e le opere di Cecco d'Ascoli. - Bologna, N. Zanichelli, 1892 (8°, pp. 287). Già da più anni il prof. G. Castelli attende a studiare amorosamente la vita e le opere del suo vecchio concittadino Cecco d'Ascoli. I risultati di codesti studi, solo in piccola parte finora pubblicati (1 ) , ha raccolti in questo volume, che rappresenta son sue parole - << la serie delle prime e non << del tutto infruttuose ricerche , ordinate entro lo schema di un'opera che << sarà proseguita e condotta a quel grado di perfezione, ch'è possibile in tal << genere di letteratura » (pp. 247-8) . I lavori ben noti del Frizzi e del Bariola, per non ricordare fra' più recenti che i principali, avevano qua e là dissodato il terreno, ma il C. si propose di percorrerlo in ogni sua parte ed estendendo le investigazioni più che i suoi predecessori non avesser fatto, di ricavare da queste un libro che lumeggiasse per ogni aspetto la figura dell'astrologo ascolano. L'opera sua non è però ancora compiuta : per ciò che si riferisce alle ricerche lo riconosce, come s'è visto, egli stesso ; riguardo al disegno generale, lo danno a vedere non tanto certe disuguaglianze di stile e di proporzione, che l'autore stesso confessa pur confidando che non ne restino diminuiti l'unità e l'ordine del libro (p . 7) , quanto la sconnessione delle parti, l'abbondanza e la lunghezza dei riferimenti, certe non rare ripetizioni. L'origine frammentaria del tutto si pare nella mancanza di quell'organamento compatto, ch'è pregio essenziale dei lavori storici ; è chiaro che all'autore non venne fatto di inquadrare la sua materia in un disegno netto e ben definito, in uno schema in cui le notizie e le osservazioni faticosamente raccolte venissero adagiandosi come in lor luogo e formando un tutto indissolubile ed immutabile, e che guidasse il lettore senza salti e quasi naturalmente dall'una parte all'altra del tema, porgendogli un filo tenace in mezzo al labirinto delle discussioni e delle ipotesi. Così gli accadde di parlare due volte di Cecco alchimista (pp. 56 e 64 sgg.) , tre di certe sue profezie (pp. 47, n. 6, 151 , 155 sgg. ) e di riferire due volte (1) Sulla vita e sulle opere di Cecco d'Ascoli , Appunti, Ascoli Piceno , 1887 ; Nuove ricerche su C. d'A. , in questo Giornale, XV, 251 sgg. 386 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA uno stesso sonetto (pp. 166-7 e 242-3) ; così poté senza difficoltà inserire in due diversi luoghi, poco a proposito in entrambi (pp. 25-6 e 83-4), le vulgate notizie su quel fra Pacifico, che pare abbia composto dei versi per Arrigo VI, né s'avvide che forzata è in certe parti la distribuzione della materia, che, per esempio, la grave questione sulla cronologia dell'Acerba era più logico e più conveniente trattarla nel capitolo che dal poema s'intitola, anzi che in quello intorno alle relazioni fra Cecco e Dante. Gli è che sebbene il C. abbia condotto con alcuna diligenza le sue ricerche, non ne ha poi sufficientemente elaborati, digeriti i risultati ; egli conosce bene il suo tema, ma non lo padroneggia, sa i particolari, ma non abbraccia in un unico sguardo l'insieme. Di tal deficienza di elaborazione e di assimilazione fa fede chiarissima l'abitudine, che il C. ha, di riferire testualmente lunghi squarci di scritture riguardanti direttamente o indirettamente l'Ascolano, sí che o qualche capitolo, il quinto ad esempio, si riduca suppergiù ad una serqua di appunti male imbastiti, ovvero un'idea che qui l'autore esprime con parole sue riappaia poche pagine appresso nella prosa di un altro scrittore (pp. 50-1 e 60). Ma di codesti difetti di ordinamento, più facili a sentirsi in una lettura del libro che a dimostrarsi in una recensione, parmi aver recato prove bastanti. Passiamo ora rapidamente in rassegna la contenenza dell'opera, mettendo in luce quel che di nuovo essa aggiunge alla scienza e discutendo quelle fra le opinioni del C., che ci sembrano o inesatte o sbagliate. Parlando della varia fortuna, che la memoria di Cecco ebbe dal tempo del supplizio ai giorni nostri, il primo capitolo enumera i giudizi sfavorevoli e quelli favorevoli, che letterati pronunziarono intorno al poeta e trova le ragioni dei primi nell'opinione prevalente che l'Acerba fosse scritta per denigrare la Divina Commedia, nella sovrapposizione di una leggenda di magìa al ricordo schietto e genuino del poeta. Nell'apprezzare alcuni fatti, non tutti si accorderanno coll'autore : chi abbia esperienza di manoscritti , vedrà nella condizione lacrimevole del testo, nelle trasposizioni, nelle aggiunte, nei travestimenti dialettali , piuttosto che un sintomo delle persecuzioni cui fu fatto segno il poema (p. 14) , le traccie dell'ignoranza e della sbadataggine dei copisti, e difficilmente riconoscerà una maligna intenzione nelle forme Ceco, Cecho, Cieco, che il nome dell'autore assunse in codici e stampe (p. 55); chi ricordi nulla sapersi dell'origine di due medaglie che nel secolo XV furono coniate coll'effigie di Cecco ( 1) , dubiterà dell'asserzione del C., avergliele decretate la repubblica Veneta quasi per contrapporle al rogo apprestatogli da un'altra repubblica (p. 18). Nel secondo capitolo il C. ricostruisce la biografia del suo autore. Nato nell'ottobre del 1269 nei pressi di Ancarano, figlio di maestro Simone, Cecco rimase in Ascoli sino all'età di quindici anni, quando passò allo studio di Salerno e poi a Parigi. Reduce in Italia, fu scelto a leggere astrologia nell'U- niversità di Bologna, il C. congettura, senza solidi fondamenti mi pare, tra il 1290 e il '93, - -e tenne la cattedra sino a che alla fine del 1324 ire (1) Le descrive anche l'ARMAND, Les médailleurs italiens des XVe et XVIe siècles, Paris, 1883, II, 15. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 387 politiche e religiose, gelosia di colleghi non gli suscitarono contro il primo processo. Sul principio del 25 si trasferì Firenze, dove Carlo duca di Calabria, venutovi come signore nel luglio del 1326, lo elesse suo medico ed astrologo, ma non potè salvarlo dall'invidia degli emuli, fra' quali Dino del Garbo , e dall'odio degli ipocriti difensori della morale cattolica , che tramarono la sua rovina. L'accurata analisi che il C. fa delle accuse poggia principalmente sulle ben note sentenze degli inquisitori bolognese e fiorentino; la ricostruzione cronologica quasi esclusivamente su certi appunti del Colocci, che i lettori di questo Giornale conoscono e che si leggono ristampati nella prima Appendice del libro. L'umanista iesino - oggi non lo direi < non conosciuto ed apprezzato ancora quanto si dovrebbe » (p. 19) —, pare volesse scrivere una vita dell'Ascolano, onde in un codice Vaticano, che già fu suo, raccolse alla rinfusa notizie di varia entità non solo dalla tradizione orale e dall'Acerba, ma anche da scritti ora perduti . In mancanza di meglio a codesti ricordi dobbiamo fare buon viso, tanto più che le poche indicazioni precise che vi si contengono, si conciliano con quell'altre poche, che ci si tro- vava ad avere; ma come dire che il Colocci « ne fornisce tale serie ordinata << di notizie cronologiche da non lasciar desiderio di veruna particolarità bio- « grafica » (p . 32, n. 2), come riporre nelle sue informazioni incondizionata fiducia? Enoch d'Ascoli , che il Colocci cita in sul principio come sua fonte, non è poi tal uomo che si possa giurare sulle sue parole : nacque verso la fine del 300 , un buon mezzo secolo dopo la morte del suo conterraneo , né da quel poco che ne sappiamo ci possiam formare un molto favorevole concetto della sua sagacia e della sua diligenza di ricercatore. E poi donde attinse il Castelli la sicurezza che Enoch fu « capo di fiorenti scuole di elo- << quenza in patria e a Roma », che « visse e fiorì nella città natale » di Cecco (p. 20 n. ) ? A farlo apposta , le notizie che di lui abbiamo finora , ce lo mostrano a Firenze ripetitore in casa i Bardi, a Perugia ed a Roma lettore di eloquenza, in Germania, in Danimarca pellegrinante per incarico di Niccolò V in traccia di codici ; ad Ascoli non mai (1). Ascoltiamo dunque pure per bocca del Colocci le sue deposizioni , ma non dimentichiamo l'insegnamento di Cecco: Il dubitar cherendo è gran virtute. Poco di nuovo, se si prescinda da qualche tradizione locale ascolana e da qualche storiella riferita dal Colocci , reca il capitolo terzo, riguardante la leggenda, che frutto, come aveva ben notato il Bariola, dell' odio e dell'ammirazione onde l'astrologo fu segno, crebbe intorno al suo nome. Apocrife , probabilmente a ragione, il Castelli tiene le tre epistole latine pubblicate dal Novati (Giorn. , I, 62 sgg.) , delle quali a buon dritto parla quindi in questo (1) Vedi Voler, Wiederbelebung, II, 201 sgg. , dove è pur riportato il poco lusinghiero giudizio che su Enoch dava Poggio Bracciolini. Istruttiva per questo rispetto è pur la storia della sua condotta a Perugia, che puoi ora vedere riassunta e documentata da G. Lasca, G. A. Campano, Pontedera, 1892, pp. 27-8 e 198. 388 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA capitolo; ma non si intende perché quivi stesso consideri Cecco come alchimista, perché quivi stesso riferisca (pp. 65 sg.) due sonetti alchimistici a lui tribuiti, se Cecco seppe davvero appropriarsi dell'alchimia « certi utili ri- << sultati che nel tenebroso medio evo preludevano alla scienza di Lavoisier se autentici sono, come il Castelli crede (p. 56), quei sonetti. Opinione quest'ultima certo assai discutibile, ché nessuno ignora quanto spesso i copisti si piacessero di dare a composizioni di ignoti verseggiatori il lustro di un nome famoso e quante rime vaghino per i codici fregiate del nome di Dante che certo sue non sono, quanti sonetti amorosi vi si trovino indebitamente ascritti al soave cantore di Laura, quanti burleschi al popolare barbiere di Calimala. Il creatore o il più fecondo cultore di un genere quasi assorbiva la produzione de' suoi imitatori. Il nome di Cecco, ben lo sa il C., si insinuava e prendeva il posto di altri in vecchie leggende fantastiche ; in simil modo doveva naturalmente cader dalla penna a chi trascrivesse un sonetto alchimistico. Quando, per es. , in fronte a quello già più volte pubblicato Solvete e corpi in acqua, a tutti dico, trovo ora il nome di Cecco, or quello di Dante, or quello di frate Elia , non esito a risolvermi in favore di quest'ultimo, sia perché intendo facilmente come i nomi famosi dell'astrologo e del poeta divino potessero essere sostituiti a quello assai men noto del fido compagno di S. Francesco o comparire in mancanza d'altro , laddove non mi saprei spiegare il caso contrario , sia perché delle alchimistiche elucubrazioni di frate Elia ci dà sicura notizia Salimbene (1). Dei ricordi ascolani contenuti nell'Acerba è intessuto il capitolo IV ( C. d'A. e la sua città natale) ; il quinto disegna , con troppo lusso invero di accessorie considerazioni sull'indole e sulle inclinazioni delle antiche genti sabine, il carattere di Cecco. Il Castelli rappresenta quest'uomo come avido di sapere e di gloria, pieno di fede nella scienza, spregiatore degli ignoranti, onesto non solo a parole , e nota nella sua filosofia una tal quale aura di pessimismo che « precede e prenunzia » il Leopardi. Questo raccostamento, che a molti apparirà arditissimo, avrei amato di vedere svolto più largamente che il Castelli non faccia nelle poche linee di p. 89. Che nell'Acerba, come nell'Ultimo canto di Saffo, nel Bruto Minore, nella Ginestra « il presen- << timento della morte o la consapevolezza del dolore universale , di fronte << alla tirannide degli uomini ed alla tirannide della natura, facciano vibrare << nuove corde poetiche » , è proposizione che andava dimostrata. Troppi precursori daremmo al Leopardi se tra essi annoverassimo quanti < considera- << rono le miserie e le nequizie umane » ; né io so davvero veder relazione prendo gli esempi dai due momenti della filosofia leopardiana rappresentati da quei tre canti -fra il poeta che piange il tramonto delle belle fole - e il poeta che scrive Che in età della nostra assai men trista Empièr la vita di felici errori , (1 ) Il passo di Salimbene, che rende probabile l'attribuzione a frate Elis, fa citato dal NOVATI, Rio. stor. mantovana, I , 105-6 n. , e di nuovo nella Miscell. francescana, V, p. 78. Un'operetta alchimistica dello stesso frate vedo ora essere racchiusa in un cod. rodigino (Mazzatinti , Inventari, III, 9) . RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 389 Lascio le ciancie e torno su nel vero Le favole mi son sempre nimiche (1) ; tra colui che inneggia dolorosamente alla scienza come al lume che fe palese il vero Dell'aspra sorte e del depresso loco Che natura ci diè , e l'ascolano che nota soltanto le aspre difficoltà a cui s'abbatte la scienza e l'impotenza della ragione a risolvere certi problemi , non sempre forse con piena sincerità, ma talora per quello spirito cerretanesco, che pur fa capolino nel poema. I tre capitoli seguenti sono consecrati all'Acerba. Il giudizio che il Castelli ne reca mi pare, lo dirò apertamente, assai più favorevole che il libro non meriti. Non nego a questo una struttura organica, ammetto che la materia vi sia saviamente ordinata, ma non vedo proprio tra esso e il Dottrinale di Jacopo di Dante (il Tesoretto e l'Intelligenza non hanno qui che vedere) , tra esso e le enciclopedie medievali, che un organismo hanno pur esse, quell'abisso profondo che scorge il Castelli ; vi riconosco qualche tratto di poesia efficace, forse qualche felice intuizione di scoperte future, l'affermazione di qualche ardito principio metodico, ma non so proprio acconciarmi a chiamare l'Acerba « libro di protesta e di sfida, che deve scuotere e turbare la scienza « tradizionale », il « carme della ragione che aggiunge altre strofe ai canti << di Empedocle e di Lucrezio » (p . 93), « una colonna miliare posta nel centro << d'Italia sul cammino trionfale per cui incederanno il Telesio, il Campa- << nella, il Bruno e la gloriosa pleiade toscana guidata dal sommo instau- < ratore della scienza moderna » ( p. 99) . Via , non esageriamo , non sacrifichiamo all'effetto d'una frase da comizio la verità modesta ; non iscambiamo per proteste contro la scienza del tempo certe bizze da genio incompreso, non proclamiamo l'originalità di certe teoriche prima di averle ben saggiate alla cote infallibile della comparazione. Mi ingannerò , ma la dottrina dell'amore qual è esposta da Cecco nel primo capitolo del terzo libro, non mi pare tanto profondamente diversa da quella professata dai poeti dello stil nuovo quanto la giudica il Castelli . Nel leggere quelle rudi sestine mi ronza insistente all'orecchio la dolce eco di questa lirica. Amore è per l'Ascolano virtù, che muove dal terzo cielo e che è con l'anima unita Nel suo creare come sole e luce, Ché fo in un tempo lor forma finita ; non fu mai sommesso a nostra volontà, ma, passione di gentil cuore, si accende ( 1) Acerba, IV, 13. Mi valgo dell'edizione dell'Acerba fatta a Venezia nel 1524, la quale non sarà peggiore delle altre, non senza correggere talora il testo coll'aiuto delle citazioni del Bariola e del Castelli , non senza tener presente che i capitoli III-XIX del secondo libro vi sono dati come appartenenti ad un terzo libro diverso dal vero terzo che pur nell'edizione stessa figura. 390 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA per natural conformitade Che nasce in noi per subito vedere ; Gli occhi umani sono calamite Che tirano di nostra umanitade Lo spirto col piacer come vedite. A tutti vien subito in mente la prima stanza della canzone famosa del Guinizelli Al cor gentil ripara sempre amore, col suo paragone, che Cecco ripete, di gentilezza e di Amore al sole e alla luce. D'altronde la natural conformità e l'immagine della calamita balenavano certo al pensiero del Cavalcanti, allorché nella canzone Donna mi prega, scriveva che Amore De simil tragge complessione sguardo Che fa parere lo piacere certo. Quando Cecco poi afferma che l'amore spirituale Descaccia d'ogni vizio servitute E vede la certezza dello bene, ripete un'idea comune nei poeti del nuovo stile, nel savio bolognese, in Dante, nel Cavalcanti. E potrei seguitare con siffatti confronti, se la via lunga non mi sospingesse. Originale pare al Castelli (p. 113) la sfuriata di Cecco contro le donne e << da non confondersi colle invettive ascetiche di fra Bartolomeo da S. Con- << cordio e di altri religiosi del medio evo » , questi parlavano da idealisti, quegli da antropologo : sarà, ma pur sempre sulla falsariga di quel Secondo filosofo, le cui sentenze furono tanto diffuse nel medio evo (1). Le stelle cadenti sono per l'Ascolano vapori per l'aere infocati, « quasi come dirà dopo << secoli il p. Secchi », commenta il Castelli (p. 115) , e come avea detto un mezzo secolo prima Ristoro d'Arezzo (2), aggiungo io. Così non è di Cecco, ma d'Aristotile l'ipotesi che la via lattea sia un nucleo di stelle fisse (3) ; non sono di Cecco, ma di Ristoro la spiegazione dello scintillio delle stelle ed il relativo esempio della lucerna (4) ; ed in Ristoro o in altri autori del medio evo si possono agevolmente trovare le teorie esposte da Cecco intorno ai terremoti , ai vulcani , alle fonti termali , all'azione dell'acqua sulla superficie terrestre, alle petrificazioni e via dicendo (5) . Dalla poesia popolare il Castelli vuol derivato il capitolo sulla natura della tortora e qualche altra leggenda di animali , non dai bestiari moralizzati (1) Vedi il Fiore di filosofi e di molti savi pubbl. dal CappelLI , Bologna , 1865 e sulle sentenze di Secondo le indicazioni bibliografiche date dal GASPARY, Storia, I , 441 sgg. (2) Composizione del mondo, Milano, Daelli, 1864, lib. VII, cap. V, p. 243. Cfr. anche Dante, Purg. , V, 87. (8) DANTE, Convivio, II , 15. (4) Compos. del mondo , ed. cit. , lib. VIII, cap. XIV, pp. 277 sgg. L'esempio della candela è citato veramente nel cap. seguente a proposito dello scintillare di Venere. (5) PESCHEL, Geschichte der Erdkunde 2, München, 1878, pp. 220 sg. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 391 (pp. 124 sgg.) : ma coi pochi raffronti da lui istituiti non l'ha dimostrato, né ha distrutto l'argomento che in favore della tesi contraria viene dal fatto che il libro terzo dell'Acerba ha proprio tutta l'aria di un bestiario e di un lapidario moralizzati. - Originale ammetto volentieri che sia il metro dell'Acerba, cui il C. crede trasformazione del sirventese incatenato (pp. 133 sgg. ) . Non entrerò in questa quistione, complessa e spinosa perché si rannoda all'altra non ancor risoluta dell'origine della terzina ; solo mi permetterò di dissentire dall'A. là dove egli dice la scelta fatta da Cecco molto più felice di quella dell'Alighieri (p. 135) : a me sembra che la gagliarda compagine del metro dantesco ( 1 ) non abbia proprio nulla da invidiare (anzi ! ) agli esastici dell'Acerba, l'uno indipendente dall' altro, ciascuno per quell' intoppo di una rima nuova al quarto verso inetto a formare un'unità piena ed armonica qual è data, per es., dall'ottava. Composta quando la D. C. non aveva ancora definitivamente risolta in favore del fiorentino la quistione della lingua letteraria, risolta nel fatto, s'intende, ché in teoria tutti sanno come sian passate e passin le l'Acerba è ben degna di studio anche come monumento linguistico ed il C. non trascura di considerare anche questo aspetto del suo argomento, per quanto almeno glielo consente la mancanza di un' edizione critica ; e le sue conchiusioni non sono molto lontane dal vero . Il poeta, egli dice, << senza abdicare ai diritti dell'ascolanità nel concerto della letteratura vol- « gare, modificò la favella per avvicinarla al tipo toscano , senza alterarne << troppo la figura originaria » (pp. 138-9). Direi piuttosto che Cecco si studiò di scrivere nella lingua letteraria, che era poi il toscano, e che in questa penetrarono trascinate dal metro, dalla rima, dall' imperizia dello scrittore parole e forme ascolane (2) , cose-, Nel IX capitolo il Castelli parla delle opere latine dello Stabili, delle quali una sola, i commentari alla Sphaera del Sacrobosco (1322) , è ora conosciuta. In questo commento l'autore accenna a certe sue profezie, probabilmente quelle contenute nell'Acerba, che s'incontrano talvolta ne'codici staccate dal poema. Un testo a penna della Vaticana citato dal Crescimbeni dovrebbe contenerne poi una composta in quella forma di sirventese che si disse zingaresca (3), ma al C. non venne fatto di scovarlo (pp. 47, n. 6 e 156) : poco male, ché la profezia stessa si può leggere in un'altra mezza dozzina di codici con isvariatissime attribuzioni e , stampata, tra le Poesie inedite del Trucchi, ove passa per opera del beato Tommasuccio ( 4) . Che sia di Cecco parmi assai poco probabile. (1 ) Nel quale nessun verso rimane « vedovo di rima » ( p. 85) , neppure alla fine dei canti, come sa del resto benissimo anche il Castelli ( cfr. p. 84). (2) L'elemento veneto sarà certo assai scarso, seppure non è tutto da attribuirsi ai copisti. (3) Di questa parlò E. LOVARINI nei fasc. 5-6 delle Canzoni antiche del popolo italiano, edite da M. Menghini. (4) TRUCCHI, II , 133 sgg. Per i codici vedi RENIER , Liriche di Fazio degli Uberti , p. ccov a FALOCI-PULIGNANI, Le profezie del beato Tommasuccio da Foligno , nella Miscell. francescana, I, 84 sg. e 123 sg. Il codice vaticano deve recare il primo verso in una forma differente da quella data dagli altri codici : in questi la profezia comincia Vuol la mia fantasia | Ch' i' faccia diceria ecc. , in quello Comanda astrologia | Che faccia diceria ecc. 392 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Delle relazioni di lui con poeti contemporanei tengono discorso i tre ultimi (X, XII, XIII) fra i capitoli dei quali abbiamo a parlare ; dico i tre ultimi, ché volentieri mi passo di quel quarto (XI) , infelice digressione dantesca nata proprio sotto cattiva stella, che si intromette dopo il decimo. Messer Cino da Pistoia chiedeva in un sonetto all'Ascolano un consulto astrologico e Cecco gli rispondeva per le rime con uno suo gravido di dottrina e solennemente profetico (pp. 159-60). Con questa corrispondenza siamo, secondo ogni probabilità, al 1310, come ben dimostra il C. (pp. 162 e seg.) ; laddove al 1324, quando Cecco era stato colpito dalla prima condanna, è ben ragionevole assegnare l'altro suo sonetto a Cino La ' nvidia a me à dato si de morso (pp. 160, 164 seg. ) . Di quello di Cino a lui Non credo che ' n madonna sia venuto, non si riesce a stabilire la data, ma il C. se ne giova come di appicco a parlare degli amori dello Stabili ed a confermare e determinare, mediante indizi tratti da un altro sonetto, l'ipotesi del Novati, che Cecco fosse invaghito di una monaca. Delicata quistione è quella che concerne le relazioni con Dante. Si stanno di fronte due figure, sulle quali l'ala del tempo ha prodotto effetti del tutto opposti, ché mentre l'una s'è venuta ingigantendo nei secoli , l'altra sgretolando e riducendo a proporzioni modeste. Contro l'inganno di percezione storica, in cui da tal fatto potremmo essere addotti, sta bene premunirci, come sta bene ci ricordiamo che quando Cecco scriveva , poteva probabilmente ancora convenirsi al poema dantesco l'appellativo « quoddam opus quod << dicitur Comedia » , con cui l'aveva designato Francesco da Barberino ( 1), che certamente poi le superbe bellezze artistiche non avevano allora peranco acquistato all'opus doctrinale dell'Alighieri quel seggio, da cui non varrà a cacciarlo mutar d'uomini e di tempi, che d'altra parte lo Stabili teneva un posto cospicuo, per taluno forse il primo posto, fra gli scienziati dell'età sua: Tu se grande ascolan che ' l mondo allumi Per grazia de l'altissimo tuo ingegno ; Tu solo in terra di veder se ' degno Esperienza degli eterni lumi, cantava un poeta. Onde quelle che a noi paion bestemmie o imbelli freccie lanciate da un pigmeo contro un gigante, potevano allora parere semplici critiche od obbiezioni mosse da un dotto ad un altro, tutt'al più sgarbate e altezzose nella forma ; tanto è vero , che mentre poco dopo il supplizio di Cecco un amico dell'Alighieri si scandolezzava di quegli attacchi e quasi crudelmente inveiva contro l'arso poeta, un rimatore cui l'affetto e la venerazione per Dante non turbavano, avrei detto meglio non illuminavano di luce precoce il giudizio, poteva dubitare S'al gran Toscan fa l'Esculan ribeco O con ragion o che ' l sia fallante (2). (1) THOMAS, F. da Barberino, Paris, 1883, p. 192. (2) Sonetto di Matteo Mezzovillani a Gio. Quirini , pubblicato già dal Fantuzzi, dal Morpurgo, e ora di nuovo dal Castelli nell'Appendice III , pp. 282-3. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 393 Ma dall'ammettere tutto ciò al credere col C. l'Ascolano amico di Dante (pp. 191 , 194 e passim), ammiratore dell'ingegno e dell'arte di lui (p. 207), ci corre, oh quanto ! Che fra loro sia interceduta corrispondenza epistolare par certo ; sc cominciata, come vorrebbe il C. (pp. 233-4), con una risposta al sonetto A ciascun'alma presa e gentil core, è ipotesi non corroborata da prove, che non mette conto discutere. Ma al poeta che ripetutamente si professa idolatra del vero, possiamo ben prestar fede quanto dice ( Acerba, II , 12) : Ma qui me scrisse dubitando Dante... Rescrissi a Dante È questo però l'unico testimonio di tale corrispondenza , poiché dell'Alighieri non è senza pur la più lieve ombra di dubbio ― il sonetto Cecco io son qua giunto in terra acquatica . Ben sette codici infatti , dei quali almeno uno del secolo XIV, gli altri del XV, lo attribuiscono a ser Ventura Monaci, segretario e cancelliere della repubblica fiorentina, anch'egli « buono << trovatore e sonettieri e di forti rime » (1 ) , come l'amico suo Giovanni di Lambertuccio Frescobaldi, quel Giovanni appunto cui, secondo la lezione di tutti questi manoscritti, è intitolato il sonetto (2) . Un coro adunque di autorevolissimi contradittori leva sua voce contro l'attribuzione dantesca del cod . Buoncompagni, non un solo contradittore e disprezzabile, come crede il C. (pp. 184 sgg.) . Ma pur questo nasconde certo sotto le modeste apparenze di copia del secolo XVIII ben più antica e valida autorità — è un codice mouckiano e avrebbe dovuto additare la via ad agevoli ricerche. La risposta che il Frescobaldi fece al sonetto di ser Ventura è molto diversa da quella che a Cecco attribuisce il codice Buoncompagni, se a dritto o a torto non so, né è qui necessario cercar di chiarire. Ciò che importa osservare si è che del carteggio fra Dante e lo Stabili unica prova restano i versi citati dell'Acerba; di mutua amicizia ed ammirazione poi a me non riesce, non ostanti gli sforzi del C., di vederne nessuna. - Non lode, ma un semplice richiamo ad una nota canzone del Convivio si contiene nel verso Fu già trattato con le dolci rime ( Acerba, II, 12); non lode suonano le antiche lime con cui, al dire di Cecco, Dante trattò della (1) Così Donato Velluti chiama Giovanni di Lambertuccio Frescobaldi in un passo della sua Cronica citato dal CARDUCCI, Rime di Matteo Frescobaldi , Pistoia , 1866, p. 6. E difatti cinque su gli undici sonetti che si attribuiscono a Gio. Frescobaldi hanno le rime sdrucciole ( le forti rime), e altrettanti sui ventidue che si ascrivono al Monaci. (2) Questo infatti di solito comincia Giovanni, io son condotto in terra acquatica . Per la bi- bliografia del sonetto stesso vedi E. MONACI , Rime e lettere di ser Ventura Monaci , Bologna, 1879, pp. 11 sgg.; per la bibliografia della risposta del Frescobaldi, Poi che fortuna v'è tanto lunatica, vedi l'Indice delle carte di Pietro Bilancioni, che vengono pubblicando nel Propugnatore i dottori L. e C. Frati ; cfr. poi in quest'Indice anche la bibliografia delle rime dell'Alighieri e di Cecco. Il luogo dove ora mi trovo non mi permette di appurare se per caso ser Ventura non abbia mandato il suo sonetto e a Gio. Frescobaldi e all'ascolano, e tutti e due gli abbian risposto. 394 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA nobiltà, ma per il contrapposto delle giuste prove con cui egli si propone di risolvere la quistione, anzi biasimo; similmente per un uomo, che dileggia come ciancie le più eccellenti creazioni del genio dantesco ( Acerba, IV, 13), non era certo un pregio l'adornezza, ch'ei riconosceva al parlare di Dante (cfr. p. 208). Ho detto: dileggiava le più eccellenti creazioni, perché le sottigliezze ermeneutiche del C. (pp. 207 sgg.) non m'hanno convinto che il famoso capitolo Qui non si canta al modo delle rane (1) sia semplice affermazione di una teoria o, diciam anche, di un pregiudizio artistico. Il sesto e il settimo verso 1 Qui non si sogna per la selva oscura, Qui non veggo Paolo né Francesca, si collegano per la loro movenza sì strettamente ai due primi che non è possibile scinderneli, e veder in quelli una frecciata a Dante , in questi disprezzo d'altre opere d'altri poeti. Non per questo griderò la croce addosso al povero astrologo , ma non mi pare che dopo letta quella tirata si possa parlare di amicizia e di ammirazione, « di anime fatte per intendersi e sti- << marsi altamente » (p. 223). Codesto è il più violento, ma non l'unico attacco contro l'Alighieri. Alla concezione dantesca della Fortuna contrapponendo una scientifica confutazione, Cecco comincia con isguaiata burbanza : In ciò peccasti , fiorentin poeta (Acerba, II, 1) ; frantende l'ultima terzina del sonetto Io sono stato con amore insieme (2) e accingendosi a riprovarla con filosofiche ragioni, esclama in atto di sfida Se Dante poi le solve son contento ; spiega a modo suo per qual motivo giovi sonar le campane nelle gran tempeste, e soggiunge Questo secreto Dante non conobbe (IV, 5) , (1) La lezione el moto de le rane, che il C. congettura per poter riferire quel verso alle quattro volte in cui Dante trae comparazioni da abitudini delle rane e sfuggire all'interpretazione più naturale, che sostengo qui sopra , oltre a dare un senso poco perspicuo , non ha , per quanto ho potuto vedere, il suffragio dei manoscritti. (2) Dante aveva detto che Amore Ben può con nuovi spron punger lo fianco, E qual che sia 'l piacer ch'ora n'addestra, Seguitar si convien se l'altro è stanco, aveva cioè concesso che un amore possa farne dimenticare un altro, e Cecco per confutarlo dimostra che nell' anima disposta dai cieli all ' amore, questo non può essere soverchiato da altra passione, il che è tutt'altra cosa : Se questa trina luce ( il terzo cielo) Amor compone Non vedo ch'accidenti lui disfaccia ; Di ciò son certo senza opinione (Acerba, III, 1) . RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 395 Dante, che fuggevolmente , per via di similitudine, aveva notato in quello stesso sonetto la vanità di tal pratica ; rileva un errore o un preteso errore del Cavalcanti (1) e a forza ne vuol far complice l'amico di lui : Qui ben mi sdegna lo tacer di Dante (III , 1 . Questo andare spilluzzicando errori od inesattezze ad ogni costo sarà forse prova di stima verso lo scrittore preso di mira, di amicizia no certo (2) . Ma a giudicare rettamente di questi attacchi, è necessario determinare se innanzi o dopo la morte di Dante il poema sia stato composto, perché, dice il C., « solo nel secondo dei casi la critica avrebbe diritto e dovere di chie- << dere ragione a Cecco del modo che tiene esaminando la dottrina e le opere << di un uomo a lui tanto superiore, quando questi non era più in grado di < far giustificazione o vendetta », perché « quando si dimostrasse che la << composizione dell'Acerba fu intrapresa e continuata innanzi alla data fa- << tale del 13 settembre 1321 , i passi del poema nostro cotanto esecrati non << solo si purificherebbero d'ogni macchia, ma diventerebbero argomenti di << lode al sapere ed al coraggio dell'Ascolano » ( p. 195) . Ed egli si argomenta di poter sostenere e dimostrare questa tesi , specialmente fondandosi sulle profezie contenute nel poema. Io, fondandomi del pari su queste, arrivo ad una conchiusione molto diversa. Donde mai tale dissenso ? Ecco. Far tetri pronostici fu sempre il mestiere di tutti i profeti, mestiere che, a mantenersi in sulle generali, non è poi tanto difficile e può spesso sortire lieto successo ; ma che un uomo, sia pure quanto si voglia dotto in astrologia, in geomanzia, in chiromanzia e in tutte le scienze occulte, possa predire fatti determinati , io che non credo ai miracoli, non ammetto assolutamente. Il Castelli è d'altro avviso : per lui Cecco pronunzia vaticinî « non per figura retorica, ma seriamente, << su uomini e cose che non sono ancora entrati nel circolo delle realtà ». Cecco non poté « per esempio nel 1326 o nel 1327 esporre in tono profetico << avvenimenti anteriori, perché se avesse voluto fare il divinatore a buon << mercato e senza pericolo di smentite, avrebbe, come Dante, posto un'anti- << data al poema » (p. 197). Da questo vario modo di considerare le cose vengono naturalmente conchiusioni del tutto opposte. Quando per esempio io che fra parentesi non so di data, nonché di antidata, apposta da Cecco al poema-, trovo in un'apostrofe ai Bolognesi prenunziate le loro lotte intestine del 1319 e '20 (p. 193), quando altrove sento presagire anche qui senza discuterla all'interpretazione del Castelli Castruccio contro Firenze del '20 ( pp. 193-4), conchiudo che codesti versi furono scritti dopo di quegli anni, il Castelli invece prima. Quando sento che Cecco vaticina a Pisa la perdita della Sardegna (p. 199) , conchiudo che - --- - mi attengo la guerra di (1 ) Per la vera lezione e la retta interpretazione del luogo incriminato vedi ERCOLE , Guido Cavalcanti e le sue rime, Livorno, 1885, pp. 231 sg. (2) Delle buone relazioni tra Dante e Cecco una nuova prova vuol trovare il Castelli (pp. 230 sgg. ) nella canzone attribuita a Pietro Alighieri dal Riccard. 1091 ; ma l'interpretazione che egli dà dell'oscurissima stanza settima, è più che dubbia ; in ogni modo non condurrebbe a molto sicure e notevoli conchiusioni. 396 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA egli scriveva dopo il 10 giugno del 1326 , in cui i Pisani abbandonarono l'isola o, quanto meno, dopo il 18 giugno 1324, in cui prestarono omaggio al re d'Aragona per la possessione di essa (1) ; il Castelli invece che Cecco scriveva « quando il fatto della cessione della Sardegna non era avvenuto, << altrimenti la profezia sarebbe stata vaniloquio da fanciullo o da pazzo ➤ (p. 200). E a sostegno delle mie conchiusioni invoco altre profezie , dove i fatti sono anche meglio determinati : quella, non istudiata dal Castelli , riguardante le terre del patrimonio e del ducato e le guerre che funestarono l'Umbria dal 1319 al '22 e vi leggo un'allusione esplicita, precisa, all'assedio che i Perugini ( il grifone bianco) posero ad Assisi nel 1320, al sacco onde la desolarono nel 1322 (2) : Se non prega la Croce san Francesco Che guarde Assise dal grifone bianco Serà spelunca di deserto fresco (lib. II, cap. 13) ; quella sulle guerre lombarde, ove trovo un accenno chiaro, determinato ad una battaglia sull'Adda , Verrà lo tempo dico nello quale Giovani acerbi con lor atto fiero Sopra lo tempio spanderanno l'ale. Tollerà il nome con sanguinea spada Ciascun di questi con lo gran lombardo Se 'l suo valor non perde presso l'Ada; Vedo cader gli Guelfi in Lombardia Se Dio dal ciel non fa novo riguardo Tollendo da Saturno signoria ( II, 17) , accenno che val bene, me lo conceda il C., l'allusione alquanto vaga, appunto per la sua estensione, a guasti di Cremona, Padova, Milano, Piacenza, le città che sempre ebbero a soffrir maggiormente dalle guerre tra guelfi e imperiali, dal gran diviso (la gran divisione). La battaglia sull'Adda sarà certamente quella al ponte di Vaprio del febbraio 1324, nella quale Galeazzo Visconti, il gran lombardo, sconfisse i pontificî e fe ' prigioniero Raimondo di Cardona, lor generale (3), non già il fatto d'arme assai meno importante avvenuto a Trezzo il 25 febbraio 1323 , come voleva lo Scheffer-Boichorst. Il C. conchiude che da nessuna delle profezie dell'Acerba « scaturisce << un'indicazione cronologica posteriore alla morte di Dante (p. 203) ; io, che da molte fra esse siamo condotti ad un periodo di tempo ch'è posteriore al 1321. Causa del dissenso è dunque la mia scarsa fede nelle profezie ; la quistione trascende i confini della scienza ed entra in quelli della fede, e Cecco mi ammonisce Dunque par cessa tu, o loico tristo, Con le sofiste tue ragioni stanche ; Che senza fe' del ben non si fa acquisto (V, 1). (1) Vedi GASPARY, Storia, I, 469. (2) VILLANI, Cronica, IX, 104, 189. (8) MURATORI, Annali, ad annos; CIPOLLA, Signoris, pp. 48 sg. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 397 Da quelle mie conchiusioni non mi affretto però a trarre la conseguenza che tutto il poema sia stato scritto dopo la morte di Dante , ma solo che dopo la morte di Dante Cecco gli abbia dato l'assetto in cui ci è pervenuto, e corroboro il mio assunto col notare l'onorevol ricordo, sfuggito al Castelli, Del nato de l'eccelso re Roberto (II , 6) , di Carlo, cioè, duca di Calabria, presso al quale l'Ascolano dimorava, giusta la rubrica di alcuni codici, quando compose l'Acerba , coll'osservare che nei versi Ciascuna (intelligenza) move, sol Dio contemplando, Tutte le cose manifeste e certe Sì come nui nel specchio guardando. Del qual (specchio) già ne tractoe quel Fiorentino ecc. ( 1, 2) , mi par di scorgere chiaro abbastanza l'allusione a questi del Paradiso Tu credi il vero ; ché minori e grandi Di questa vita miran nello speglio In che, prima che pensi, il pensier pandi (XV, 61-3) , ed a questi altri Senz'essermi profferta Da te, la voglia tua discerno meglio Che tu qualunque cosa t'è più certa ; Perch'io la veggio nel verace speglio Che fa di sè pareglie l'altre cose E nulla face lui di sè pareglio (1). Ma il Castelli mi obbietta che in due luoghi Cecco nomina Dante come persona viva : Or pensa, Dante, se prova nessuna Se pò più far che questa convinca (II , 1); Se Dante poi le solve son contento (III, 1) . E sia: vorrà dire che il poema fu cominciato prima che l'Alighieri scendesse nel sepolcro e continuato dopo il 1321. Ciò che mi pare assolutamente indisputabile si è che Cecco, rimaneggiandolo e modificandolo largamente dopo quell'anno, non soppresse gli attacchi contro il gran fiorentino, forse anzi ne aggiunse di nuovi, che egli dunque aveva in animo uscissero alla luce e corressero il mondo pure allorquando l'emulo non avrebbe più potuto rispondere. Il C. non solo è d'avviso del tutto opposto, ma pensa anche che Dante < fosse pienamente consapevole della superba impresa che Cecco d'Ascoli (1) Parad. , XXVI, 106-8. Si noti che l'imagine dello specchio è in tutti i codici dell'Acerba, mentre i dodici versi seguenti mancano a tutta una famiglia di mss. ( pp. 219 sg. ): paiono quasi la citazione della fonte aggiunta dopo la prima stesura. Giornale storico, XXI, fasc. 62-63. 26 398 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA « aveva ideata e veniva faticosamente compiendo » (p. 227), e nel ricordo del mito delle Pieridi al principio del Purgatorio, del mito di Marsia al principio del Paradiso vede un avvertimento, dato con decoroso riserbo, << al poeta che stava meditando opera che potesse competere colla Commedia > (p. 228), nel discorso di Marco Lombardo nel XVI del Purgatorio la risposta giustificativa alle censure che Cecco aveva mosso al canto VII dell'Inferno. A parte le obbiezioni, che pur nell'incertezza in cui siamo sulla cronologia delle due prime cantiche dantesche sarebbe agevole movere al C., le son queste ipotesi che , a lasciar libero il freno alla fantasia , potremmo moltiplicare. Se pochi giorni prima del supplizio di Cecco, l'Acerba era una vera novità e un amico dell'Alighieri (si noti) ne parlava così : Qui si ragiona che ' l maestro Cecco Ha fatto un libro riprendendo Dante E chiama lui in molte parte errante (1) , come poteva il divino poeta averne piena conoscenza sei anni prima? Il Querini in altro sonetto continua : Trascorso il libro più e piusor volte Quel vi rimando e dico al mio parere Che 'nvidia tolse a Cecco bel tacere; ed io temo avesse ragione. La fama, di cui già in suo vivente Dante aveva goduto dopo la pubblicazione dell'Inferno e del Purgatorio, e la gloria che poi raggiò fulgida dalla tomba di Ravenna, suscitarono lo spirito di emulazione e l'invidia dell'astrologo ascolano, e nacque l'Acerba. Molto problematiche sono le relazioni del Petrarca con Cecco (cap. XIII). È vero che il sonetto Tu se'l grande ascolan che ' l mondo allumi viene ascritto al sommo lirico toscano da quattro codici, ma contro l'attestazione di questi, tutti del sec. XV, uno anzi, il Riccardiano 2823, forse del principio del XVI, sta il Riccardiano 1103 , di cui la parte che ci riguarda fu scritta sullo scorcio del 300, codice per più ragioni autorevole , il quale, checché asserisca il Trucchi (I, 267) ed almanacchi il C. (pp. 237 e seg. ), attribuisce i sonetto chiaramente a ser Mucio (c . 143 r) . E la sua testimonianza può essere validamente suffragata da due considerazioni : l'una, che poco più innanzi (c. 145 r) vi troviamo un sonetto di Senuccio da Firenze , onde appare men che verosimile un equivoco o una mala lettura del copista; l'altra, che il sonetto all'Ascolano e la relativa risposta vanno innanzi a quattro altri sonetti scambiati fra il Petrarca e ser Mucio, onde si intravede la via per cui l'attribuzione petrarchesca può essersi infiltrata nei codici. I dubbi sono dunque leciti, anzi doverosi . Il C. invece non soltanto non ne ha rispetto al sonetto citato, ma al Petrarca vuole indirizzato quello di Cecco Io non so ch'io mi dica o s'io mi taccio (pp. 241 sgg.) già (1) Frammento di un sonetto di Gio. Quirini pubblicato dal Fantuzzi, dal Morpurgo e di nuovo dal Castelli, p. 282. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 399 pubblicato dal Trucchi (I, 269) e dal Bariola , ed a sostegno della sua opinione adduce il sonetto famoso di messer Francesco Pace non trovo. Nei due componimenti egli avverte comunanza di pensieri, di imagini, di frasi , di rime, onde crede il petrarchesco un rimaneggiamento, che l'autore stesso in età matura avrebbe fatto della proposta, o risposta che fosse al sonetto di Cecco. Fantasticherie ! Anzi tutto il sonetto di Cecco non presenta nessuno dei caratteri propri delle composizioni missive o responsive e poi tra esso e quello del Petrarca a me non è dato vedere rassomiglianze all' infuori dell'identità di una rima e di quell'affinità di intonazione che proviene dall'affinità del soggetto e dalla comunanza dell'artificio poetico , poiché l'un sonetto e l'altro appartengono (quello di Cecco per verità solo a mezzo) a quel genere che i Provenzali dissero devinalh e che si intesseva di asserzioni contradicentisi fra loro a due a due (1) . Più fondati mi paiono i riscontri fra due luoghi del Canzoniere e due dell'Acerba, ma questi provano che il Petrarca conosceva il poema, non già che abbia avuto relazioni personali coll'autore di esso. Della prima fra le tre Appendici che corredano il volume, abbiamo già fatto cenno. Nella seconda troviamo riferita la descrizione, che l'Amador de los Rios diede di un codice dell'Acerba posseduto dal marchese de Santillana ; il C. lo crede smarrito : ma invece esso si conserva a Madrid nella Biblioteca dei Duchi d'Ossuna e dell'Infantado, eredi dei tesori di quella del marchese, e fu brevemente descritto dal Carini (2). La terza appendice contiene un tentativo, un abbozzo di bibliografia delle opere di Cecco : vi sono descritte le stampe dell'Acerba possedute dal comm. Lozzi e descritti o ad ditati alcuni codici. Aggiunte potrebbe fare in gran numero chi solo pigliasse a sfogliare i più noti cataloghi : quelli del Palermo e del Lami, quello dei codici Hamilton del Biadene e via dicendo ; osservazioni poi sull'esecuzione, infinite chiunque abbia pratica di tal genere di lavori . Ma dalle une e dalle altre io mi astengo, perchè lo confesso candidamente mi è riuscito di intendere quali criterî abbiano guidato l'autore nella compilazione di questa bibliografia. - - non VITTORIO Rossi. (1) Per tal genere di poesia ovvio nel periodo delle origini vedi GASPARY , Scuola poetica, pp. 142 sg. (2) Gli Archivi e le Biblioteche di Spagna in rapporto alla storia d'Italia in generale e di Sicilia in particolare, P. I, fasc . III , Palermo, 1884, pp. 227 e 244. Cfr. questo Giornale, VII, 472. 400 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA HENRY COCHIN. Un ami de Pétrarque. Lettres de Francesco Nelli à Pétrarque, publiées d'après le ms. de la Bibl. Nationale. - Paris, H. Champion, 1892 ( 4° picc. , p. 325). Singolare destino quello toccato alle lettere del buon Priore de' SS. Apostoli ! Ritrovate già in mezzo ai mss. della Nazionale di Parigi ed adoperate dal più arguto fra i vecchi biografi del Petrarca, il De Sade ; fatte trascrivere dal Mehus per unirle a quella sua doviziosa raccolta dell'epistole petrarchesche, ch'egli nel 1753 aveva già pronta per la stampa e che invece con gravissimo danno degli studî andò malamente dispersa ; domandate con insistenza da quanti in appresso scrissero sul poeta, e di bel nuovo promesse dal dotto illustratore delle opere latine del Boccaccio ; esse non solo continuarono in tanto fervor di ricerche sul cantore di Laura a giacere inedite, ma rimasero anche quasi intieramente sconosciute. Era riserbato al De Nolhac, il quale se n'è valso per fregiare di belle notizie quel suo volume su Petrarca umanista , già per tanti rispetti prezioso , di rendere al suo autore prediletto anche questo servigio. Non credo infatti d'andar lungi dal vero affermando che all'impulso del De Nolhac è dovuta l'eccellente risoluzione presa dal sig. Cochin di appagare l'antica brama degli studiosi col rendere loro finalmente accessibile la corrispondenza del Nelli col Petrarca. Ho detto che questa pubblicazione costituisce un vero servigio reso alla fama del grande nostro poeta, e mi spiego. Le lettere del Nelli, se giovano infatti da un lato a farci meglio conoscere fino a qual segno giungesse l'appassionato entusiasmo , l'ardente venerazione degli amici del Petrarca per il loro padre, il loro maestro, il loro genio, il lor tutto, il lor nume (queste e simiglianti espressioni ritornano ad ogni istante sotto la penna del Nelli) ; dall'altra parte porgono un'eloquente testimonianza della ingegnosa sollecitudine impiegata dal grand'uomo per mantenersi avvinti, e per sempre, coloro che l'ammirazione aveva condotto commossi e timorosi ai suoi piedi. Egli è tutto premure per gli amici ; si preoccupa con delicatezza squisita del loro benessere materiale e morale; al solo intento di patrocinare le loro domande si rituffa nel vortice avignonese che tanto abborrisce ; e mentre non accetta alcun dono da loro , s'ingegna di sollevarli, di collocarli in quegli alti ufficî che egli, sazio di gloria, desideroso sol di quiete, rifiuta. Le lettere del Nelli, che ci permettono di contemplare davvicino lo spettacolo di così cordiale e sincera amicizia, sono già soltanto per questo rispetto, come ben dice il Cochin, che ha premesso alla stampa un'elegante ed erudita prefazione, ricca di acute osservazioni e d'elevati pensieri, « un prezioso documento di storia << spirituale >>. Ma se la figura del Petrarca esce fuori dalla lettura di codesta corrispondenza più che mai attraente, non men simpatica ci si presenta quella tanto più modesta di « Simonide » . Ser Francesco di Niccolò di Nello di Rinuccio , notaio della curia vescovile di Firenze e poi Priore della chiesa de' SS. Apostoli, non sarebbe davvero ricordato a' dì nostri da alcuno, se la fortuna benigna non gli avesse nell'ultimo decennio della sua operosa ed umile esistenza procac- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 401 ciata l'amicizia del Petrarca ; che, toltolo accanto a sè sulla cima luminosa ov'egli sorge, irraggiato di gloria, l'ha per siffatta guisa sottratto alla lunga notte d'obblio, cui era giustamente condannato (1 ) . E, notevole a dirsi , tanto l'uno quanto l'altro hanno con singolare chiarezza intuito ciò che doveva 'avvenire. Vivat in memoria posterorum, quibus, si notus fuerit, charus erit! esclama il poeta (2) . Ed il modesto notaio non si sazia di rammentare quanto grande sia il debito di gratitudine che lo lega al Petrarca : Scis quid mihi feceris ? egli scrive : attende , queso. Dudum etiam inter meos et mea in patria obscurus habebar, nec immerito : quid enim me clarum fecisset? Cum interdum etiam uulgus rectum uideat. Postquam autem litere mee caritati tue fastidio non fuere, ac perinde quinquennio ferme reuoluto , pluries ad me et quampluries tuas epystolas pertulisti et ego illas continuo in medium protuli ; aiunt inter se : haud hic abiciendus est, cum ille, cui totius nostri eui cedit facundia, et magna ueteris pars, temporis sibi non modicum subtrahit, ut istum demulceat, istum colat ; non est ille uir qui aliquid agat, cui non ratio probabilis reddi possit...... et iam me amplius uenerantur, iamque dignus eis uideor monstrari digito, et dicier: hic est. Ed altrove : Nudus eram, tu me laudibus uestisti tuis ; ignotus eram , tu me luminibus produxisti ; humilis eram , tu me tam grandi extulisti preconio ! (3) . In questi luoghi, che mi è sembrato utile ri- (1) Tutto ciò che noi sappiamo di Francesco Nelli si rinviene nelle trenta lettere ch'io pub- « blico o nella corrispondenza del Petrarca », scrive a p. 13 il sig. Cochin ; ma questa affermazione è alquanto inesatta. Mi sarebbe, a dir vero, piaciuto trovare in lui sotto questo riguardo maggior diligenza di ricerche ; e non vederlo scambiar l'avo di Francesco per il di lui padre, com'egli fa a p. 85, dove chiama il Priore Francesco di Nello Rinucci ». In realtà, bastava tener presenti l'incipit e l'explicit del cod. Parigino per evitar questa svista : FRANCISCI NICOLAI Sanctorum Apostolorum de Florentia Prioris Epistole, dicono l'uno e l'altro ; dunque Francesco, figlio di Niccolò »; il qual Niccolò , nato da Nello di Rinuccio, ci vien ricordato più volte ne ' documenti florentini dal 1325 al 1334 , perchè fu in quel torno di tempo quattro volte priore e due volte de' XII Buonuomini ( cfr. Delizie degli er . tosc. , XII, 62, 85, 103, 135, 169, 176) ; dignità, la prima, coperta anche dal padre Nello fra il 1302 ed il 1815 ( Delizie cit . , X, 29, 61 , 73 ; XI, 5, 28, 37) . Ed anche senza intraprendere indagini speciali negli archivi florentini , era possibile, ricorrendo a fonti stampati, spigolare qualche maggior notizia sulla vita del Nostro. Già il MANNI, p. es. , nelle Osservazioni istoriche sopra i sigilli antichi de'sec. bassi, t. III , Firenze, MDCCXXXX, p. 12, aveva dato conto d'un documento, da cui si rileva che il Nelli fin dal 1840 era giudice ordinario e notaio di Francesco da Cingoli , vescovo fiorentino ( Clericus imperiali authoritate notarius et iudex ordinarius et domini Episcopi notarius et scriba); il che prova all'evidenza che il Nelli studiò noteria. E poichè da altro atto, riassunto dal p . Ildefonso di S. Luigi (Delizie cit. , X, 278), risulta che il 29 dicembre 1350 egli copriva in Curia lo stesso ufficio, ne consegue che l'occupasse anche ai tempi dell'Acciaiuoli , contro l'opinione espressa dal Cochin (p. 14) . Probabilmente le sue funzioni avranno cessato, quando venne eletto Priore de' SS. Apostoli. Un terzo documento di tenue interesse per noi, pubblicato dal Lami, S. Ecclesiae Florentinae Monumenta, Florentiae, MDCCLVIII, t. II, 1024, ce lo mostra in tale qualità ( Dominus Franciscus Prior SS. Apostolorum de Florentia) presente l'8 ottobre 1356 alla firma dell'atto , con cui il clero fiorentino eleggeva in suo procuratore a far concordia coll'abbate di Settimo Guido priore di Lucignano. (2) Sen. III, 1. Ed oltremodo istruttiva è la lettera ( Fam. XVIII, 9), nella quale il poeta descrive all'amico lo stupore che aveva invaso un fiorentino , recatosi a visitarlo, udendo dalla sua bocca elogi sporticati del Nelli, ch'egli conosceva benissimo di persona , ma che non aveva mai creduto una « celebrità ». (3) Ep. XIII , p. 208 ; Ep. XX, p. 259. 402 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA produrre nella loro veste originale, lo stile del buon Priore si solleva alcun poco dal terreno, dove suol per lo più faticosamente strisciare ; e la sincerità dell'emozione trasfigura quasi e nobilita la rozzezza del suo linguaggio, così come il riflesso d'un affetto puro e profondo raggentilisce a volte e rischiara i tratti grossolani d'un volto deforme. Poichè, confessiamolo pure, è molto brutta la prosa del Nelli ! Tanto brutta anzi, che di pochi fra i suoi contemporanei si può dir che scrivessero peggio, Educato chi sa da quale oscuro pedagogo in Firenze, dove nei primi decenni del secolo decimoquarto la cultura era più che scarsa, manchevole ; forse in Firenze stessa egli attese all' « arte notaria »; e nei tre anni che dedicò a quegli studî non s'abbeverò certo ad altri fonti che i formularî non fossero. Forse più tardi, sotto la scorta di Forese Donati, ch' ei dice con insistenza suo maestro, e che doveva passare presso i suoi concittadini per un'arca di scienza (il disgraziato sapeva a memoria tutt'intero Uguccione! ( 1 ) ), ser Francesco si accostò agli autori classici di maggior grido, a Virgilio, ad Orazio, ad Ovidio, a Terenzio, a Seneca (2). Ma il male era fatto. In lui perdura quindi tenace la tradizione epistolare medievale , che Geri d'Arezzo ed il Mussato aveano tentato d'infrangere sugli inizî del secolo XIV, ma che trionfa tuttavia nelle lettere di Dante, di Francesco da Barberino, del Boccaccio (3) e di molti altri più oscuri, tutto intero il trecento. La sua prosa, pedestre e scolorita, medievale per la sintassi e per il lessico, è senza tregua infarcita vuoi di versi, vuoi di emistichi di poeti latini, testualmente riprodotti (4) ; ne (1) Questa curiosa notizia ci è data dal Nelli medesimo, Ep. XIII, p. 207 ; ed essa mostra una volta di più quale importanza abbiano avuto ne' sec. XIII-XIV le Derivationes del vescovo Pisano, alle quali sarebbe ora che qualcuno dedicasse uno studio accurato; indispensabile preparazione ad ogni ricerca sulla lessicografia latina nei tempi di mezzo. Parlando di Forese (p. 184) il Cochin non avrebbe poi dovuto dimenticare le sue Genealogie mitologiche » , pubblicate dall' HORTIS, Studi sulle op. lat. del Bocc. , pp. 537 sgg. (2) Vedi a p. 307 del libro del Cochin l'elenco degli scrittori classici citati dal Nelli . Per sua stessa confessione noi apprendiamo che lesse molto tardi Orazio, Persio e Giovenale (p. 217) . Di Cicerone conobbe pochissimo. (8) Mi riferisco soprattutto alle epistole del cod. Laur. XXIX , 8, della cui autenticità però non vorrei farmi garante. Ma, chiunque le abbia scritte, esse sono documento importante di stilistica del tempo, da collocare accanto a quelle del Nelli. - (4) La più parte delle citazioni fatte dal Nelli , e spesso senza nome d'autore, son state indicate dal Cochin ; ma talune, com'egli stesso prevedeva, gli sono sfuggite, e non delle meno importanti. Eccone un piccolo saggio : Il proh Deum atque hominum fidem di p. 156 deriva quasi certamente da Terenzio, Andr. , I, 5 , 11. - Pag. 182 : La notizia che Virgilio aveva perorato in tribunale proviene da Donato, Vita Verg. , § VI ; essa è anche ricordata da Coluccio Salutati (Epist. I, 181): Maronem vero accipimus apud iudices semel causam dixisse infelicissimo eventu ; è dunque impossibile che la nota apposta in margine del cod. Parig.: Non memini me legisse de Virgilio ecc. , sia stata scritta dal Petrarca , il quale conosceva perfettamente la biografia del poeta , che va sotto il nome di Donato (cfr. DE NOLHAC, Pétr . et l'human. , p. 106). Pag. 208: Quid enim me clarum fecisset? Cum interdum etiam uulgus rectum uideat...; è l'Oraziano : Interdum vulgus rectum videt; est ubi peccat ; Ep. II , 1, 63. Pag. 212. L'ystoricus ueraz illustrisque, che il Cochin dice non saper qual sia, è Sallustio, e la sentenza che la fortuna non può dare në togliere altrui probitatem industriam aliasque artes bonas, si legge in lug. , I. — Pag. 230, dove il Nelli scrive a proposito d'un Giovannello , amico del Petrarca (forse il Da Mandello, a cui è diretto l'Itinerarium ?): Quale ingenium habeat indítio est, ut ait arbiler fabularum, oratio ; l'E. annota: - - - RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 403 deriva quindi quel reo miscuglio d'elementi repugnanti fra loro, che richiama al pensiero il linguaggio barbaramente ampolloso di certi agiografi dell'VIII o del IX secolo; tanto vi manca ogni elementare conoscenza delle norme fondamentali del latino antico ! Ed il Nelli, poveretto , direi se ne avveda ; ed è quasi triste lo spettacolo del suo affannarsi a camminare sui trampoli , a snaturare i proprî pensieri , a sciuparne la fresca spontaneità per ravvoltolarli nei viluppi d'una retorica triviale e sgualcita con quella stessa cura, con cui da notaio che si rispetta prodiga sulla carta le fioriture sapienti della sua bella calligrafia ( 1). O se egli, come ser Lapo Mazzei, avesse dettate le sue lettere nel volgare nativo ! Noi possederemmo oggi un prezioso monumento di lingua e di stile ; ed egli avrebbe evitato il pericolo , a cui andava così spesso incontro, di veder le proprie lettere intercettate in viaggio dagli amatori poco scrupolosi , attirati non meno dal suo peregrino linguaggio che dall'eleganza della sua scrittura (2). On ne sait de qui Nelli veut parler. Ma l'arbiter fabularum è Terenzio, nel cui Heaut. II, 11 , 384, sta scritto : Nam mihi quale ingenium haberes fuit indicio oratio. -E a p. 285, quando - il Nelli conclude : Tu de more longum uale mi dulcis Yolla, si poteva non solo notare che Iolla è personaggio ricordato nelle Ecloghe II e III di Virgilio ; ma che qui il Priore mette in prosa un verso virgiliano : Et longum Formose vale , vale, inquit, Iolla (Ecl. III, 79) . Pag. 239 : Le parole: nísi hanc gradiuus pater miseratus ex alto , sono il prodotto del riaccostamento di due frammenti di Stazio, Theb. , III , 11 ; II, 115. - Pag. 254 : Verum cum multorum in castra transiuerim autorum, non tanquam transfuga, ut ait ille, sed ut curiosus uenator ; ille è Seneca, Ep. ad Luc., II, 4. - Pag. 265 : Ma ecco qui un passo curioso sul quale convien trattenerci un istante: Percurrit, imo precurrit, hec Flacciani, ut paulo post Horestiani fere uoluminis alteram ad se trahat epistolam : scrive il 17 maggio 1859 ser Francesco. Ed il suo Editore nota (p. 267): Cette phrase ne paraît pas intelligible. Au lieu de Horestiani, on doit lire sans doute : Horatiani ; mais ce mot ne convient pas mieux au sens. Non occorre emendar nulla , ma rammentare invece che Giovenale nella Ia Satira si chiede : Impune diem consumpserit ingens Telephus aut summi plena iam margine libri Scriptus et in tergo nec dum finitus Orestes ? (v. 4-6). L'epistola Oraziana è dunque (cfr. Fam. XX, 7) una lettera breve , l'Orestiana una smisurata, che il Nelli voleva scrivere , ma non scrisse ; sicchè se ne scusava poco appresso : Nec iste sunt eedem quas ad te uberiores uolebam litteras (p. 270) . Pag. 266 : uelut unda superuenit undam è un altro emistichio oraziano ( Ep. II, II , 176) . Pag. 269 : Le parole : Alum Atropos inclementia occare festinat, mi paiono reminiscenza d'un verso, allora notissimo, sulle tre Parche (cfr. cod. Laur. Pl. XC, 18, c. 37 t. ) Oloto colum baiulat, Lachesis net, Atropos occat. Pag. 290, le frasi re- lative alla morte di Giovanni sono intessute di ricordi virgiliani : Sperabamque illum, quem fata terris ostenderant, si ultra esse sinissent, si non tristi circum caput umbra nox atra uolasset, alterum affuturum iubar : Ostendent terris hunc tantum fata, neque ultra Esse sinent... ( Aen. VI, 869-70): Sed nox atra caput tristi circumvolat umbra ( ib . , 866). Pag. 305 : Un di quei distici medievali d'auguri, così diffusi allora , esce fuori dalla prosa : prius astra serene Noctis et oceani numero stringentur harene. - - - (1) Al Cochin son sfuggiti , se non m'inganno , gli encomî che il Petrarca prodiga alla calligrafia dell'amico (Fam. XX, 6): apicum rara et insolita quaedam forma... digitorum adventitius ornatus. (2) Di questi furti discorre a lungo il Cochin nella Prefazione (p. 51 sg. ) , dedicando insieme parecchie pagine attraenti alle difficoltà che inceppavano a que' tempi lo scambio delle corrispondenze. Se erano ardue le communicazioni fra luoghi piccoli e senza importanza, ciò non avveniva però generalmente, sebbene dica il contrario il Petrarca, per i grandi centri ; ed io potrei dimostrar anche ora che in Firenze , come in altre cospicue città d'Italia , funzionava regolarmente, nella seconda metà del trecento , quando lo permettevano le circostanze politiche , un pubblico servizio di posta, la così detta « scarsella ». 404 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Ad ogni modo, se lo stile è pretensioso e cattivo, la sostanza delle lettere del Nelli non è per questo meno apprezzabile, essendo chè tutte ribocchino .di ragguagli variamente importanti, ma importanti tutti, per la vita del Petrarca, de' suoi amici, per la storia del tempo. Noi impariamo così a conoscere più dappresso quel cenacolo fiorentino , in cui al grande compatriota rendeasi il culto più fervente ; cenacolo, composto del Boccaccio , di Forese Donati, di Lapo da Castiglionchio e del Nelli ; ai quali, alquanto più tardi, quando gli si presentò l'occasione di recarsi a Firenze , venne forse ad aggiungersi anche il Salutati (1). Questo gruppo d'amici raccoglievasi a modesti banchetti, ne' quali, tolte le mense, si dava lettura delle lettere del Petrarca, attese sempre con ansietà, accolte con un giubilo, che il Priore vivacemente descrive (2). Ed allorquando il Nelli è costretto a recarsi in Avignone, ancor della vita del suo illustre amico egli si compiace vivere sotto il cielo di Provenza; e nella Babilonia occidentale, come a sua volta la chiama, trova sollievo al << tedio curiale » , alle fastidiose lungaggini della burocrazia pontificia, frequentando i vecchi amici di Silvano, Socrate , Lelio, Guido Sette, Stefano Colonna (3) ; ma singolarmente Giovanni Petrarca , il figliuolo del poeta, che passava forse in Avignone per suo nipote (4). Ben a ragione nota il Cochin come uno de' maggiori pregî della corrispondenza del Nelli consista nei nuovi ragguaglî che essa reca sul giovine ribelle , esiliato dalla casa paterna per colpe che l'età rendeva scusabili, e che il Petrarca giudicò certo con eccessivo rigore. L'immagine di Giovanni, che già si presentava al nostro pensiero velata da quella vaga nube di tristezza, che s'accompagna naturalmente al ricordo di persona tolta anzi tempo alla vita , dalle lettere del Nelli esce più netta e colorita, e provoca maggiori simpatie. Il disgraziato fanciullo ci è dipinto buono, modesto, pien d'ingegno ; e la condotta del padre a suo riguardo , condotta che parve ingiusta al Nelli medesimo, provoca in noi , convien confessarlo , delle riflessioni assai poco favorevoli al Petrarca. (1) Fra le lettere del Salutati , che mi vennero alle mani in questi ultimi tempi, una ve n'ha al Nelli, fuor di dubbio la più antica che di lui ci sia conservata. Coluccio vi tratta il Priore come una vecchia conoscenza , Aggiungo che il codice famoso della Nazionale di Firenze Conv. soppr., I, 28 (già del Convento di S. Marco) , che contiene lettere del Petrarca, scritte quasi uni- camente ad amici florentini e che al Mehus pareva di mano del poeta stesso, è invece autografo del Salutati, il quale dovette metterlo insieme in età giovanile sugli originali comunicatigli dal Nelli , dal Bruni e da Lapo. (2) Ep. II, p. 166 ; XI , p. 195. (3) La lettera 9 del lib. XX delle Fam. è diretta a tre amici , i quali trovandosi insieme ad Avignone , inviarono al Petrarca un saluto , che ognun di loro scrisse con diverso inchiostro sul medesimo foglio ( tricipitem epistolam tribus magnis textam calamis et trino murice coloratam... aspexi). Non sarà la lettera diretta al Nelli ? E negli altri due amici non potremo noi riconoscere Socrate e Lelio ? (4) Mi si permetta di giustificare questa congettura. Il Nelli, parlando di Giovanni, dice al Petrarca: Sed forsan tacita mente requiris quid in eo nepole auunculus excitet Hector (p. 244). Siam qui, al solito di fronte ad una reminiscenza virgiliana. Andromaca nell' Aen . III , 343, domanda a proposito di Ascanio : Ecquid in antiquam virtutem ... et pater Eneas et avonculus excitat Hector? Ora , perchè il Priore ricorda lo zio piuttosto che il padre , Ettore e non Enea, scrivendo ad un padre e non ad uno zio ? RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 405 Molte e molt'altre cose degne di considerazione ci verrebbe fatto di rilevare in queste lettere , se non temessimo d'andar troppo per le lunghe ; i lettori le ritroveranno del resto messe in piena luce dall'Editore nella sua elegante Prefazione (1). Arrestiamoci dunque; ma non senza dir prima due parole sul metodo con cui la pubblicazione è stata condotta. Esso è, diciamolo subito, oltremodo lodevole. Il Cochin ha studiato una ad una le trenta lettere Nelliane ; ed in un diligente e minuzioso esame cronologico, che occupa sessantadue pagine del volume e si chiude con una tavola comparativa delle epistole dirette dal Petrarca al Priore de' SS. Apostoli, ha cercato di stabilirne con precisione le date ; impresa difficile , dalla quale è uscito, a quanto ci sembra, con molto onore. Ogni lettera poi è preceduta da un sommario del contenuto e seguita da note, che illustrano opportunamente i passi bisognosi di dichiarazione e mettono in rilievo le citazioni da autori classici e medievali. In appendice sono stampate coll'aiuto de' mss. una lettera dell'Acciaiuoli al Petrarca tratta dallo stesso codice delle lettere del Nelli e la ventinovesima delle Variae; un indice raccoglie i nomi delle persone citate ; e due bei facsimili, de' quali l'uno riproduce la prima faccia del cod. delle lettere del Nelli ; l'altro la nota autografa da costui apposta ad un ms. di Stazio (2), chiudono degnamente l'elegante volume. Per ciò che spetta al testo, il Cochin, il quale ha fatta propria la congettura probabilissima del De Nolhac, che il cod. Par. Fonds lat. 8631 , che solo ci ha serbato l'epistolario Nelliano, sia una copia fatta eseguire dal Petrarca stesso (3), saviamente si è proposto di riprodurre con esattezza la lezione del ms. , emendando soltanto quegli errori (e sono del resto in poco numero), che debbonsi ascrivere a difetto del copista (4). Egli ha quindi mantenuta scru- (1) Tali sono la constatazione del fatto singolare , che le più tra le opere del Petrarca erano sconosciute ai suoi fervidi ammiratori fiorentini , il Nelli compreso (cfr. pp. 41 sgg. ) ; l'accordo perfetto del Petrarca e del Nelli nel giudizio sulla corte papale d'Avignone (cfr . pp. 67 e sgg. ) ; e qui il Cochin si sforza, a mio avviso, senza successo , di metter in dubbio le accuse del Petrarca contro la corruzione dei « pastori d'oltremonti », che troppe testimonianze indipendenti d'origine confermano. Anche alla polemica che ferve da un pezzo intorno al carattere dell ' Acciaiuoli , il Gran Siniscalco del Regno di Napoli, le lettere del Priore daranno (cfr. pp. 75 sg. ) nuovo ali- mento. . (2) Su questo ms. , che è il Parig. Lat. 8061 , è da vedere DE NOLHAC , Pétr. et l'hum. , pp. 164 sg. Il Nelli si era occupato con predilezione di Stazio (cfr. Ep. XXVIII , p. 285) ; nè senza relazione con questo suo interesse per il mediocre imitatore di Virgilio è forse il fatto che anche il Salutati scrisse in gioventù un'Epitome Statii Achilleidos. (3) Cfr. p. 153. - (4) Alquanti luoghi però abbisognano ancora di correzione . Così , p. 158, 1. 17 , che vuot dire : nunquam latio nec domi nec bello tantum obsequio proderis , quantum ecc. ? Si deve ag- giungere domino ? E leggere Latio? - Pag. 194, 1. 17 : non solum unam aut duas ebdomadas, uerum quinquaginta et amplius labores hecates , hunc puerum remorarer. Labores hecates ? Qui vi è certo errore. Non so vedere che si nasconda sotto labores ; ma a hecates sarà da sostituire , crederei , decades. Pag. 217, 1. 18 : [quando te legam] compendio illo et paratissimo ad ystorias generosas itinere ? (Si tratta del De viris illustribus) . Credo sia da leggere compendioso; e, ammessa quest'emendazione, è tolto il dubbio del quale è questione alla nota 10 (p. 221). Pag. 224, 1. 20 : Dominorum fastus siue proteruiam ; 1. fastum. — Pag. 273, 1. 18: Verum, ut uerbo tuo utar , et si non inpresentiarum , scribam tamen profecto propediem. Qui - 406 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA polosamente la grafia assai incerta e scorretta del ms.; e di ciò va lodato ; ma colla grafia si è proposto di conservare puranche la punteggiatura , della qual cosa invece io non so troppo dargli lode. Nulla v'è difatti nella interpunzione adoperata dal copista del ms. Parigino che sia degno di particolare attenzione ; egli non fa che applicare con mediocre diligenza quelle norme (delle quali il Cochin non sembra aver esatta contezza) che tutti i grammatici , da Isidoro in poi, prescrivevano, trattando delle « pausationes », e che i copisti, se accurati, mettevano generalmente in pratica (1 ) . Or questa interpunzione molto semplice, troppo semplice anzi , perchè riduce a tre i segni da adoperarsi (2), per esser insolita, non può che riuscir imbarazzante nella lettura; tanto più qui, dove la sintassi è così involuta e difettosa, che a fatica spesse volte possiamo comprendere quello che lo scrittore ebbe in animo di dire. Una buona interpunzione moderna, saggiamente distribuita, non avrebbe nulla sottratto alla fedeltà della stampa, e pôrto invece ai lettori quel filo , che essi invano ricercano nei dedalici avvolgimenti de' molti grammaticali labirinti, i quali troppo spesso si schiudono dinanzi a loro. Ma in complesso è questo difetto lieve , che non scema punto il merito del valente e diligente editore, al quale gli studiosi italiani saranno senza dubbio riconoscenti del suo pregevolissimo dono. F. NOVATI. in margine il cod. reca : quo nichil ad gloriam meam michi carius: bene habet, quod enim scripturus eram; ed il Cochin avverte che la note ... originairement n'a guère pu être écrite que par Pétrarque lui même (p. 275) . Ma è proprio una nota, o non piuttosto un passaggio del testo, omesso per pura sbadataggine dal copista e aggiunto in margine da chi collazionò la copia coll'originale ? Il testo, che ora non dà senso, andrebbe quindi reintegrato così : Verum, ut verbo tuo utar, quod nichil ad gloriam meam michi carius , bene habet quod enim scripturus eram; et si non impresentiarum ecc. — Pag. 296, 1. 21 e sg.: de me fatear….. nichil unquam michi hac uita hoc euenisse acceptius ; longissime ducens tui muneris testimonium quam rem ipsam, etiam effectum tonanti, ut ita dixerim , gloria sortientem. Il senso, che al C. par oscuro , tornerà chiaro leggendo tonantis e costruendo : rem... etiam sortientem effectum gloria tonantis (cioè Dei). Di taluni errori di stampa ( è sopratutto frequente la sostituzione d'n ad u) non farà colpa all'Editore chi deve ogni giorno durar l'improba fatica di correggere bozze ; del resto l'edizione è tipografi- camente bellissima. (1) Buone notizie, che però potrebbero agevolmente ampliarsi, presso THUROT, Notices et Extr. de divers mss. lat. pour servir à l'hist. des doctr. gramm. au m. a. , in Not. et Extr. des mss., XXII, 2, pp. 418 e sgg. (2) A giudicare da quanto il C. scrive a p. 152 sulla interpunzione del cod. , in esso sarebbero usati il comma , il colum ed il periodus (cioè a dire i tre puncti principali ; cfr. , p. es . , l ' Ars punctandi del cod. Ricc. 658 , f. 54 t.) ; quali si uniscono il semipunctus ed il paragraphus, oltrechè il signum interrogationis. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 407 OSCAR HECKER. - Die Berliner Decameron-Handschrift und ihr Verhältniss zum Codice Mannelli. tation ; Berlin, 1892 ( 12º, pp. 72). -Inaugural disserNel 1887, col suo opuscolo Die Berliner Handschrift des Decameron (1), il prof. A. Tobler aveva propugnato l'idea che il celebre codice Mannelli del Decamerone (Laurenz. , XLII, 1 ) non fosse che una riproduzione immediata del codice (Hamilton 90) , or passato a Berlino. Adesso il sig. Hecker, mediante un confronto accuratissimo, vuol compiere e confermare in questo lavoro le conclusioni del suo illustre maestro. Il soggetto è troppo ragguardevole perchè non valga la pena di trattarne un po' largamente. Ma bisogna prima di tutto rilevare che l'importanza d'un lavoro così lungo e paziente sarebbe stata assai maggiore quando l'H. , invece di valersi della stampa di Lucca (1761), avesse attinto direttamente dal codice la lezione mannelliana. Quantunque l'edizione Lucchese sia stata infatti eseguita con somma diligenza e col proposito di riprodurre perfino , a dir così , la fisionomia del testo a penna, colla sua esatta grafia, le annotazioni, i segni marginali e perfino gli sbagli, solo dal codice però si possono ricavare non poche altre notizie, utilissime per chi si occupi delle condizioni del testo del Decamerone. Da una parte molte minuzie sono state deliberatamente escluse dall'edizione, perchè non se ne vide l'importanza ; dall'altra certe lezioni ammesse nella stampa sono interpretazioni più o meno arbitrarie, anzi talvolta addirittura erronee, dei caratteri del Mannelli. Ma siccome non è qui il caso di entrare in troppo minuti particolari , basti avvertire che dal confronto di pochi e brevi passi noi abbiamo raccolto un numero ragguardevole di discrepanze fra il codice e l'edizione : si può quindi ritenere che se l'H. si fosse direttamente giovato del codice n'avrebbe tratto occasione ad esaminare tutto un ordine di fatti che gli sono sfuggiti ; il che non gl'impedisce però di considerare il problema come oramai definitivamente risolto (p. 68). Noi, non potendo fare i necessari confronti col codice B, ci dobbiamo limitare ad esaminare se le cose , quali sono descritte nella dissertazione tedesca, giustificano la confidenza colla quale la conclusione è presentata, e se è tolta di mezzo ogni sorta di dubbio. Badiamo infatti che in una questione così delicata com'è il precisare il rapporto fra due codici (sopratutto per un'opera così diffusa come il Decamerone) non si può mai procedere con troppa prudenza , se non si vuol prendere per certezza ciò che non è che una probabilità, oppure una semplice possibilità. Ora, cercando nella suddetta dissertazione la lezione di B per certi luoghi sui quali si era fissata la nostra attenzione, non ci riuscì di trovarla. Ne risulta da parte nostra una prima specie di dubbio , un dubbio , diremo così, sospensivo, giacchè esso potrà facilmente chiarirsi da chi abbia maniera di (1) Nei Sitzungsberichte dell'Accademia di Berlino. 408 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA consultare il codice B. Indicheremo dunque con precisione i punti rimastici dubbiosi, aspettando poi dai fatti la risposta. Esaminiamo prima le lacune. L'H. afferma (p. 62) che le 23 lacune riempite o segnalate da Mn ( 1) ripetono esattamente quelle di B. È esatto codesto numero? Esso comprende 19 lacune riempite (deficiebat) e 4 segnalate in margine (2 col segno † , 2 colla parola defic) (2). Se lasciamo per ora da parte il segno †, col quale Mn non precisa il motivo del suo dubbio, ci rimangono 4 lacunereali o credute tali indicate da Mn, e per le quali non ci viene accertata la concordanza di B (3) : ed. 101 a (cod. 43 a) Se non in quanto negar non gli potesse (al margine † defic); ed. 107 a 23 (cod. 45 d) La donna ridendo e di buona aria e che ualenta donna era.. , che venne aggiunto al disopra della linea col segno .-. ; nel margine deficiebat (4); ed. 217 a (cod. 95 c) Giotto ebbe un ingegno di tanta excellentia che niuna cosa dalla natura ..... che egli ... non dipingesse (al margine defic +), dove l ' ed. Giuntina (1527) reca fu che egli ; ed. 301 a (cod. 134 a) gli die mille forin d'oro li quali il sensale presto porto ad Salabaetto (.- al di sopra di porto, ed al margine deficiebat). - • - quel . no ue Dopo le lacune gli sbagli o semplici particolarità di stile . L'H. adduce 21 postille di Mn riferentisi a luoghi perfettamente simili nella lezione di B. Non parla però dei tre seguenti : ed. 270b (cod. 120 a) troppo; ed. 259 b (cod. 115 a) . - nota modū loquendi nõ secundū Auctores alios ; ed. 313 b (cod. 139 c) . cosa dice il testo. Non tien conto inoltre delle già accennate croci (†), le quali però meritano qualche attenzione. Segnaliamo qui quelle che riproduce l'edizione (5) : 201 b (cod. 88 d) , 268 b (cod. 119 a) e 299 b ( cod. 133 c). · - Tra le postille di Mn esaminate dall ' H., alcune sono da lui poco giusta- (1) A dimostrare con quale accuratezza, anzi con quale scrupolo quasi religioso, il Mn si sia sforzato di riprodurre la lezione, anche sbagliata , del suo esemplare, rammentiamo alcune delle sue postille. Egli usa così : Deficiebat quando suppliva una parola mancante ; defic quando non credeva di potere supplirla con certezza ; dicebat p'us ..., quando correggeva nel testo uno sproposito dell'archetipo; credo che uogla dire... o direbe meglo... , quando indicava i margine una correzione probabile ; e tante altre : sic e testus + , dice cosi il testo originale, superfluū † , ecc. Ma ciò che mette in più chiara luce l'attenzione intelligente colla quale egli copiava, si è che quasi tutte le sue correzioni o aggiunte hanno preso posto nelle righe del testo senza cancellature o qual si voglia altro segno di esitazione ; sicchè si vede che prima di scrivere una frase, egli la leggeva interamente e la voleva perfettamente intendere ; questo fatto non è senza qualche importanza per le osservazioni che presenteremo or ora. (2) Per l'indicazione particolareggiata delle lacune dobbiamo ricorrere all ' opuscolo citato del TOELER (pp. 17-21) . L'H. non avrebbe dovuto contentarsi d'indicarle così in complesso. (3) Non parliamo mai dei luoghi che corrispondono a fogli oggi perduti di B (cfr. TOBLER, Op. cit. , p. 5) . (4) Questa frase, manifestamente corrotta, potrebbe dar luogo a lunghe osservazioni , tanto più che dalle cancellature del cod. si vede che il Mn la rimaneggiò ripetutamente. Interesserebbe molto di conoscere qual sia qui la lezione di B. (5) Infatti essa non le riproduce tutte : cod. 33 b ( ed . 78 a 28) , 41 c (ed. 98 a 11) , 62 b (ed. 143 a 33) , cod. 876 (ed . 198 b 28 ?, 114 a ( ed. 257 b ) ecc.... Inoltre l'ed. non riproduce sempre esattamente le postille : ed. 281 a, direbe meglio... quale, dove si legge (cod. 125 a) ... Iquale, la prima lettera rimanendo nascosta nella legatura ; ed. 317 a, dicit testus , dove si legge sic dicit testus (cod. 141 a). RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 409 mente interpretate. Si veda quale esempio: ed. 52 a (cod. 22 c) : latino inperfecto e qui , e più sotto : t. Questa osservazione non può riferirsi a la qual cosa (H., p. 62) come dall'edizione pare possibile , perchè nel codice è scritta più in basso, e precisamente di fianco alle parole : credendo lui essere alcuno spiacevole ... ecc. e la croce coincide proprio colla linea : recatosi ad noia il picchiare. ...9 Lo ripetiamo questi sono dubbi dai quali crediamo che per ora nulla sia da dedurre; ma ci siamo fermati su di essi, perchè se B contraddice menomamente una sola delle recise testimonianze di Mn intorno al suo modello, l'ipotesi che B sia questo modello deve essere respinta ; se invece l'H. ha per semplice dimenticanza trascurato di chiarire i punti qui indicati , non riuscirà nè difficile nè inutile il rimediare alla sua ommissione. Data la scrupolosa diligenza colla quale il Mannelli ha riprodotto il suo esemplare, è mestieri supporre che questo non contenesse gran numero di lacune o di errori, dei quali non si ritrovi traccia nella copia. Ora la raccolta degli sbagli di B non comuni a Mn occupa nella dissertazione dell'H . sei pagine fitte (pp. 55-61). Questi veramente non ne ritiene per gravi altro che sette, con cinque piccole lacune ; in complesso dodici errori, ai quali, a suo vedere, il Mn avrà potuto portar rimedio senza troppa fatica (ibid. , 66-7). Ma questo metodo di critica , mediante il quale la questione viene così arbitrariamente circoscritta , non ci pare il più corretto. In realtà potremmo indicare agevolmente una quarantina di tali sbagli, non meno gravi di quelli che vediamo corretti dal Mannelli nelle sue annotazioni : ed . 26a 27 (cod. 11 d 33) operare, B apparare; ed. 5a 23 (cod. 2 b 52) optima, B alcuna ; ed. 62 a 19 (cod. 26 c 50) adomandano ( 1 ), B adomarono, mentre ed. 94 b (cod. 40 a) Mn non ha proposto che in margine la correzione evidente solitudine per sollecitudine; ed. 43 a 7 (cod. 18 c 9) ad inpetrare ripetuto due volte in B, mentre almeno sei volte Mn si è dato pena di segnalare parole ripetute nel suo archetipo (cfr. ed . 135 a , cod. 58 d; ed. 143 b , cod. 62 c , ed. 287 a, cod. 118c , ecc......) ; ed. 46 a 4 (cod . 19 c 51 ) che, B chi , mentre Mn ci avverte d'una sua correzione che per e (ed. 123 b , cod. 53 a); ed. 37 a 2 (cod. 15 d 54) gridauano, B gridando, mentre a p. 213 b (cod. 94 b) si legge allato ad un mostrandosi : direbbe meglo si mostro ; ed. 59 b 4 ( cod. 25 c 22) il verbo e manca in B ; ed. 71 a 23 (cod. 30 b 42) il verbo a ; ed. 100 a 3 (cod. 42 c 3) re.…………. ecc. , mentre Mn avverte che ha dovuto restituire altrove che (ed. 107 a , cod. 45 d) , fe (ed. 121 b , cnd. 52 d) , cō (ed. 187 b, cod. 82b) , e (ed. 243 a, cod . 107 c), ecc…….... — Abbiamo scelti questi pochi esempi all'infuori dei 12 sbagli che l'H. indica come più gravi, ed ora domandiamo : Perchè il Mannelli ha egli omessa qui la solita sua postilla : dicebat p'us .....? L'avrà dimenticato, ci si risponde, nè ciò può dar maraviglia, quando si metta a confronto il piccolissimo numero di tali postille colla lunghezza del Decamerone. Sta bene; questo numero è davvero assai piccolo ; ma appunto da ciò non sarà a dedurre che il testo copiato dal Man- - · (1) E non adomandarono ( Heck. , p. 56). 410 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA nelli era meno scorretto di B? o sarebbe più logico ammettere che l'abitudine del Mannelli di segnalare le sue correzioni non si manifesti che a rari intervalli, di tre volte l'una in media ? Bisognerebbe almeno dare qualche esempio di tale dimenticanza. L'H. ne ha cercato, ma senza troppo successo: ed. 90 b (cod. 38 d) Mn propone di leggere foro invece di furo, ed altrove egli stesso scrive furo in una sua annotazione (ed. 208 b, cod. 92 b) ; altrove (ed. 311 a, cod. 138 b) avverte che costette si trova nel testo originale, mentre prima (ed. 258 a, cod. 114 b 33) egli ha scritto costetto senza aggiungere alla forma insolita una parola di maraviglia. Ma che rapporto corre fra questo genere di postille : osservazioni sullo stile o la lingua, oppure possibilità di qualche correzione discretamente accennata nel margine, e quell'altro : avvertenze di correzioni, soppressioni o aggiunte eseguite nel testo ? Non teniamo il Mannelli in conto di critico irreprensibile del testo boccaccesco, bensì di copista fedele e scrupoloso. Però qualche cancellatura del codice Mn potrebbe a prima giunta fornire un argomento a favore della tesi intorno alla quale veniamo esponendo i nostri dubbî. Per esempio, le parole de quali (ed . 6 a 25 , cod. 2 d) sono state sostituite alla lezione sbagliata di B (Il quale) , imperfettamente raschiata ; altrove (ed. 195 b 23, cod. 86 a) Amerigo fu scritto sopra una raschiatura più perfetta, ma che si può supporre nasconda la lezione Arrigo offerta da B. Tuttavia non bisogna accogliere troppo in fretta la conclusione che subito ci si presenta ; perchè avrebbe il Mannelli raschiato quegli sbagli invece di avvertire che li trovava nel suo modello ? Quando a lui veniva fatto di trascrivere uno sbaglio, senz' accorgersene, noi sappiamo ch'egli era solito proporne la correzione nel margine. Vediamo d'altra parte che cancellature e raschiature sono da lui assai spesso usate per correggere i proprî spropositi . Incliniamo dunque a credere che si tratti qui di correzioni di quest'ultimo genere. Ma come mai errò il Mannelli per l'appunto dove B è sbagliato nello stesso modo? -La risposta che l'esame imparziale dei fatti suggerisce naturalmente, sarebbe che in molti passi i dubbî e le esitazioni s'avevano già nel testo che potè servire di modello così a B come a Mn. - Questa infatti, nonostante tutti gli sforzi in contrario, resta l'ipotesi più verosimile per render conto della parentela che si avverte fra B et Mn, poiché l' H. ha dimostrato con tutta l'evidenza possibile che B non può dipendere da Mn (p. 66) . Il modello comune dei nostri due codici, sebbene forse autorevolissimo, a giudicarne dalla scrupolosità mannelliana, era già assai scorretto , e si vorrà supporre per di più di lettura difficile. Si veda quale esempio degli spropositi a cui la scrittura dell'esemplare poteva dar luogo qualcuno degli sbagli di B (Heck. , p. 56-61): adomarono (Mn adomandano); uocando (Mn uogando) ; questo (Mn presto) ; liberante (Mn liberamete); potendosene (Mn petendosene) ; diventa (Mn divenuto) ; in compe (Mn in campo); auendola (Mn amandola) ; ragunoire (Mn ragunare) ; ecc. е molte parole troncate : partitamen, soavemen (Mn — te) . Talvolta il copista correggeva la sua prima lettura: disertarsi, venne poi mutato in dilectarsi (Mn presenta la stessa particolarità); riconscuti invece di riceuuti (Mn) che era stato scritto prima ; nuoua invece di buona (Mn) nello stesso modo, ecc.... L'H. ritiene tale soluzione del problema come resa impossible dalla con- - ...... RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 411 T siderazione di certe particolarità grafiche comuni ai due codici , e che nulla spiegherebbe se non la dipendenza assoluta di Mn da B (pp. 63-4) . Ma non possono forse i due copisti avere desunte queste particolarità da un originale comune ? 1 fatti citati a questo proposito non salgono a più di 23. O non è il caso di notare che tale numero è piccolissimo per rispetto alla lunghezza del Decamerone , e di meravigliarsi piuttosto che i due codici non concordino più spesso in cotali sbagli, specialmente se si considera che le divergenze, lievi o gravi, raccolte dall'H. occupano in complesso più di 40 pagine del suo lavoro (11-49 e 55-61) ? Resterebbe a ricercare quale dei due codici abbia meglio riprodotto il modello che supponiamo unico. L'H. ritiene che in più di 450 casi B presenti la migliore lezione. Questo numero , per quanto poggiato sopra confronti diligentissimi, non può essere accettato in genere ; bisognerebbe discuterne isolatamente ogni caso. Questo non è però il nostro assunto ; noi c'eravamo unicamente proposto di dar conto d'un lavoro per varî rispetti degno di menzione e di mostrare ad un tempo che le conclusioni propugnate dal professore Tobler e dal suo discepolo non hanno finora quel carattere d'evidenza, che solo potrebbe chiudere definitivamente la discussione. HENRI HAUVETTE. GIUSEPPE LESCA. - Giovannantonio Campano detto l'Episcopus Aprutinus; saggio biografico e critico . Pontedera, tip. Ristori, 1892 ( 8°, pp. XII-200). Tra la folla multicolore e varia de' mediocri scrittori affannantisi invano per varcare senza miseramente affogarvi l'onda del Lete , c'è stato in ogni tempo qualcuno, che, pur non essendosi troppo discostato dal volgar gregge, né essendo riuscito ad attingere i più alti fastigi dell'arte , nondimeno presenta ancor oggi ai nostri occhi, ben rilevata, una sua propria e caratteristica figura ; tale da attirare su lui la curiosità e ad un tempo la simpatia di chi in codesto sciame di mediocri, la cui opera sol nel complesso acquista alcun valore, estetico o psicologico, vada ricercando i precursori e gli epigoni dei grandi capolavori letterarî. Tale, Giovanni Antonio Campano, non ultimo tra gli umanisti del Quattrocento; del cui animo e del cui ingegno ci lasciò una cosí viva, fedele immagine il compianto Gaspary nella Geschichte der italienischen Literatur. Con lodevole pensiero il prof. Lesca ora ne ha discorso in una speciale monografia la vita e gli scritti ; senza gran copia, per dire il vero, di fatti nuovi, ma spargendo sui già noti piú chiara luce, e dal ricco epistolario del vescovo aprutino trascegliendo i tratti autobiografici piú notabili. Le vicende del Campano somigliano a quelle degli altri dotti quattrocentisti (e sono i piú) , che al par di lui, indossato l'abito talare, servirono cardinali e pontefici . Nacque in umile stato, a Cavelli, non lontano da Galluccio 412 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA in quel di Capua , l'anno 1429. Compiuti , forse nella vicina Sessa, i primi studî, nel 1445 si recò a Napoli , precettore dei figli d'un Carlo Pandoni, e quivi , come sembra , poté far frutto degli ammaestramenti del Valla . Nel 1452, dopo un vano tentativo, mandato a vuoto dalla guerra che allora infieriva in Toscana, d'andare a Siena per istudiarvi giurisprudenza, riparò in Perugia ; dove, conseguita poco stante la cattedra d'eloquenza (1455), passò piú anni onorato e protetto dai Baglioni e caro a molti uomini dotti, tra i quali Demetrio Calcondila, che gli fu maestro di greco. Nella quiete del soggiorno perugino, compose il giovine erudito la maggiore e miglior parte delle sue opere: la Legatio Perusinorum ad SummumPontificem Nicolaum quintum, non compresa nel volume delle sue opere raccolte, auspice il Moro, dal milanese Michele Ferno, ma ristampata opportunamente dal L. in fine al suo lavoro, i tre libri De ingratitudine fugienda , il De felicitate Thrasimeni, i libri De vita et gestis Brachii , moltissimi versi d'amore e d'argomento vario, due orazioni funebri, tre persuasorie e sei libri di lettere. Allorquando nel 1459 il nuovo papa, Pio II , passò alquanti giorni in Perugia, il Campano ebbe la ventura di conoscerlo e di poterlo seguire al congresso di Mantova in qualità di segretario del cardinale Filippo Calandrini. Cattivatosi per tal modo l'animo del famoso pontefice, ne ottenne l'anno appresso il vescovado di Cotrone, e di lí poco , nel '63 , quello piú gradito di Teramo. Ciò non ostante , dal '60 in poi egli passò la piú gran parte della vita in Roma; donde nel 1471 si recò col cardinale di Siena , Francesco Piccolomini, alla dieta di Ratisbona. Colla morte di Paolo Il sfumarono le sue speranze di ottenere il cappello cardinalizio ; ma non ebbe a dolersi, dapprima, del successore; poiché, dal 1472 al '74, fu creato successivamente governatore per la Chiesa a Todi, a Foligno, ad Assisi e a Città di Castello. Cadde dalla grazia del pontefice sol quando osò scrivergli troppo liberamente in favore de' Tifernati, contro i quali l'esercito pontificio combatteva. Spogliato allora, non ostanti le sue supplicazioni, dell'officio di governatore, dopo aver cercato in- vano accoglienza presso il re di Napoli , dovette ridursi nel vescovado di Teramo, e starsi quivi fin quasi alla morte, che accadde in Siena, il 15 luglio 1477 (1). Questo sappiamo sul Campano dal Lesca, e non è molto piú, come ognun vede, di quanto ne avevan scritto il Tiraboschi e lo Zeno. Tuttavia il novissimo biografo ha il merito d'aver meglio assodato qualche fatto e con maggior certezza determinato qualche data : tra le quali anche quelle della nascita e del conferimento della cattedra perugina ; poiché il cenno biografico premesso al trattatello De dignitate matrimonii da chi lo ristampò in Perugia nel 1782 cenno in cui si fermano o rettificano codeste date rimase ignoto a quanti scrissero modernamente del Campano, non escluso il Lesca, che in caso diverso non avrebbe certamente mancato di citarlo (2). - (1) Oltre agli epitafi del Campano riferiti dal L. , è da ricordare l'orazione funebre che ne scrisse AGOSTINO DATI. Veggasi l'edizione senese delle opere di costui uscita in luce nel 1508, a c. cja; ve n'ha quivi un frammento. (2) Vi si legge a p. xx: « Nel 1455 sotto il di 16 di novembre dal General Consiglio con 37 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 413 7 Avremmo desiderato veramente, che in questa monografia non si tacesse del soggiorno fatto dal Campano in Capua ; la quale, e non già Napoli, egli saluta nel carme De discessu suo (1) . Anche è spiacevole (sebbene di ciò non si debba far carico all'autore , relegato per ragion d'ufficio in una piccola città di provincia), che non vi si sia tenuto conto del moltissimo che sul Cam- pano deve giacere tuttora inedito negli archivî e nelle biblioteche. Ma all'autore non chiederemo noi piú di quello ch'egli ha voluto e potuto darci : gli chiederemo, piú tosto, perché mai gli sia piaciuto rimpinguare di floscio adipe il suo saggio , perché mai abbia preferito comporre frettolosamente un volume, innestando nel discorso brani troppo estesi dello scrittore di cui tratta e di altri moderni (pp . 23, 47-8, 54-5, 57-9 ecc.) , deviando talvolta in digressioni fuori del suo proposito (pp. 17-18) , o perdendosi in lungaggini (pp. VII-XII , 107) , anziché offrirci sul Campano una breve ma succosa memorietta, riposatamente meditata e scritta lucidamente, pubblicandola a sé, ovvero anche in coda a quel lavoro sui Commentarî di Pio II , che promette e che auguriamo di veder presto in luce. In tal modo l'A. avrebbe evitato, oltre ai moltissimi errori tipografici (2) , anche alquante sviste od ommissioni dovute manifestamente alla gran furia di dar fuori il libro . Ragion sommaria avrebbe fatto della pag. 19 riguardante il Valla, rinviando ai diligenti . lavori del Sabbadini (3) e del Mancini (4) ; non a Francesco Accolti, sí bene a Francesco di Mariotto Griffolini, a cui appartiene fuor d'ogni dubbio (5) , avrebbe attribuito, a p. 68, quella famosa versione delle epistole di Falaride, conservata in infiniti codici, dalla Trivulziana di Milano alla Ventimigliana di Catania o alla Comunale di Nicosia, e molte volte impressa, che per la diffusione onde godé in Italia e fuori durante il secolo del Rinascimento può stare a coppia con la Sfera del Dati (6) ; e , ciò che più importa, anche in quel Francesco Aretino , il quale , come assicura Michele Ferni , conobbe il Campano in Perugia e, collocandolo presso il cardinale di Bologna, gli aprí l'adito a' più alti ufficî ecclesiastici, avrebbe ravvisato, invece dell'Accolti, il Griffolini (7). Sul vescovo d'Aleria, Giovanni Andrea de' Bussi da Vigevano, anziché al Tiraboschi, era da rinviare all'esteso cenno che ne fa il De Ro- << voti fu eletto professor pubblico di eloquenza nel nostro Liceo [di Perugia] , coll'annu o stipendio di 50 fiorini ». (1) Carm. , lib. II , no 6, vv. 7-8. Cfr. anche l'epist . 46 del libro III. (2) A p. 103 è senza senso il periodo che com.: « Il Palma ci fa sapere ecc. »; a p. 121 il periodo: Se si considerò (si consideri ?) poi, come afferma egli stesso , che aveva sempre curato < poco la filosofia..., l'opera sua sarà alquanto più scusabile per (?) mancanza di originalità e di buon metodo » . (3) Studi sul Panormita e sul Valla, Firenze, Le Monnier, 1891. (4) Vita di L. Valla, Firenze, Sansoni, 1891 . (5) Cfr. G. MANCINI, Franc. Griffolini cognominato Franc. Aretino, Firenze, tip. Carnesecchi, 1890, pp. 17 8gg. (6) Nelle stampe la versione è accompagnata da una lettera al giureconsulto Francesco Pellati padovano. Questi è il lettore dello studio di Napoli menzionato dall'ORIGLIA (Ist. dello Studio di Nap. , p. 242) , che men propriamente il L. a p. 18 chiama « Fr. de Pilatis ». (7) Questi , e non già il celebre giureconsulto, seguí nel 1559 Pio II al congresso di Mantova, passando con lui per Perugia, Siena, Firenze e Ferrara (MANOINI, Opusc. cit. , p. 27). fiornale storico, XXI, fasc . 62-63. 27 414 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA smini (1), come pure piú opportune citazioni di quella del Sismondi si potevan fare in proposito delle turbolenze che travagliarono Todi circa il 1473 (2). Per fortuna, si tratta d'inesattezze non gravi, compensate da alcune parti lodevoli del libro. Gli ultimi anni della vita del Campano ci paiono assai felicemente illustrati dal nuovo biografo ; cosí pure, le notizie ch'egli raccoglie sullo stato delle città umbre governate dal vescovo di Teramo svelano nel giovine autore attitudini all'indagine storica, che avranno modo di manifestarsi meglio ne' suoi lavori futuri , purché si persuada della verità del vecchio adagio, che il presto è nemico del bene. Utili sono altresí i riassunti delle opere del Campano, che il L. fa nella seconda parte del lavoro, e assennato il criterio con cui le distribuisce. Nei giudizî , invece , non sempre ci pare di poter consentire con lui ; e ciò perché studiando i singoli componimenti del Campano ei non s'è curato di ragguagliarli , con opportuni ravvicinamenti , agli altri molti congeneri e sincroni , indagandone gli elementi genetici, ricercandone la ragion d'essere nelle condizioni intellettuali e politiche de' tempi . Com'è possibile, ad esempio, ponderare equamente il valore del trattatello De dignitate matrimonii , senza tener ben conto del De re uxoria d'Ermolao Barbaro, dell' Oratio in nuptiis Constantii Sfortiae del Collenuccio, del molto che sul medesimo argomento scrissero, riuscendo a varie o addirittura opposte sentenze , Filippo Beroaldo e il Filelfo , Leon Battista Alberti e il Palmieri ? (3). Noi siam certi, parimente , che se il L. avesse letto l'Encomium Sancti Thomae aquinatis del Valla, edito nel 1886 dal Vahlen e due anni appresso ristampato, di sur un codice dell'Angelica, dal can. Giuseppe Bertocci , assai diverso giudizio avrebbe espresso intorno alla orazione del Campano d'identico argomento. « Il confronto dei discorsi << del maestro e del discepolo osserva il Mancini mostra come am- << bedue intendessero diversamente il ministero letterario. Giovanni Antonio, « povero mandriano di Cavello, acquistata fama con l'eccellenza dell'ingegno, << divenuto vescovo, e desideroso di sollevarsi più in alto, soddisfece all'amor << proprio dei Domenicani, riempi con vuote frasi gli orecchi degli uditori, ed « evitò noie a sè stesso » . Ben altro fece il Valla nel suo discorso profondo e denso d'idee : « dal maggior pergamo dei Domenicani egli osò negare il << principato scientifico a quel S. Tommaso, che pittori e scrittori rappresen- << tavano come trionfatore di filosofi e di teologi ! » (4). Anche un altro libro avrebbe giovato al L. di poter leggere con agio : l'Altro Marte di Lorenzo Spirito ; del quale manifestamente egli non ha potuto vedere se non i brani pubblicati nelle Biografie dei capitani venturieri dell'Umbria dal prof. Ariodante Fabretti, poiché l'afferma scritto « per celebrare le gesta di Braccio > (p. 172), laddove è noto, che il poema dello Spirito, edito in Vicenza nel 1489, — (1) Idea dell'ottimo precettore nella vita e disciplina di Vittorino da Feltre, Milano , Silvestri, 1845, pp. 263-67. (2) Vedi, per es. , LEONIS, Vila di Bartolomeo di Alviano, Todi, 1858, pp. 10-11. (3) Cfr. MAZZUCHELLI, Scrittori, III , 268 ; G. LUMBROSO, in Atti e mem. della R. Deputas. di storia patria per la Romagna, III, п, 85-89 ; SAVIOTTI, P. Collenuccio, Pisa, Nistri , 1888, pp. 27 e 242 ; G. VOLPI, nel periodico Vita Sarda, an. III , no 2 ecc. (4) Vita di L. Valla , pp. 810-11. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 415 F parla sí con qualche ampiezza, ma incidentemente, di questo capitano . Ecco il titolo che reca in fronte nell' autografo : Incomincia il libro chiamato ALTRO MARTE, de la vita e gesti de Nicolò Picinino Bisconte de Aragonia , illustrissimo et potente capitano perusino (1) . Giovanni Antonio Campano godé buona nominanza nel suo tempo segnatamente come oratore. Ai passi , riferiti dal L. , di Paolo Cortese e del Giraldi se ne possono aggiungere in questo proposito due altri : l'uno del Volterrano, secondo il quale « in orationibus facilitate ac extemporalitate parem << non habebat », l'altro del Sabellico, che lo dice degno di essere annoverato piú tosto fra gli antichi scrittori che fra i moderni, « sive elegantiam, sive << dicendi acumen requiras, sive candorem potius aut venustatem » . Ma con buona pace di questi valentuomini, non certo per l'Oratio cinericia, pel panegirico di S. Tommaso, o pel funebre elogio della Contessa d'Urbino (2) , il nome del vescovo aprutino è giunto alla posterità. Egli ha importanza per l'epistolario copiosissimo - specchio fedele del suo animo, de' suoi sentimenti, de' suoi costumi —, dove non sai se piú si abbia a lodare la garbata festività o la scioltezza efficace ; ha importanza soprattutto per la non men ricca suppellettile poetica in lingua latina, la quale aspetta tuttavia chi la faccia conoscer meglio e la illustri . I caratteri della poesia del Campano, tutta arguzia e gaiezza, furono compendiati mirabilmente da Angelo Ambrogini nei distici, in cui al giocondo vescovo fa dire : Mi joca dictarunt Charites ; nigro sale Momus, Mercurius niveo, tinxit utroque Venus. Mi joca, mi risus placuit mihi uterque Cupido. Si me fles, procul hinc, quaeso, viator , abi . Romae delitium davvero, come lo chiama il Poliziano, Giovanni Antonio fu il poeta di corte del pontefice Pio II , che non isdegnò d'accoglier ne' Com mentari non poche sue poesie (3) ; principalissimo in quel circolo di letterati e gaudenti, che presso la Curia papale alternava agli eruditi ragionari lauti simposii. Obbedendo alla facile vena , egli ha effuso nel distico e nell'ode, libero e schietto, l'animo suo ; ciò in ispecie nelle poesie scritte da giovine, quasi tutte amorose e non prive d'un quasi ovidiano fervore di passione. Perciò gli spetta un posto cospicuo fra i poeti latini del suo tempo ; e sa- (1 ) Cod. XIII. C. 32 della Biblioteca Nazionale di Napoli ; grosso volume, con bellissimo fregio iniziale. In fine leggiamo : Qui fenissie il libro chiamato Altro Marte , composto e scricto per mano di me Lorenzo Spirito da Perogia ; finito di copiare nel millequattrocento settanta a dí ventitré del mese di novembre. E sur una guardia di membrana, pur in fine : Questo libro me donò il Mag.co Brazo da Perosia, ne la cità propria de Perosa , nel suo palazo, dove alhora era aloziato, e fu quando andai cum la Ex.a del sig.re Duca Borso mio signore et barba a Roma, e mi Nicolò da Corezo ne feci memoria de mia propria mano. Sul poema, vedi anche VERMIGLIOLI, Biogr. degli scrittori perugini, Perugia, 1829, II, ¤, 299. (2) Di questo abbiam sott' occhio la rara stampa di Cagli, 1476 : Io. Ant. Campani funebris oratio pro Baptista Sphortia Urbini Comitissa ac principe illustrissima (ediz. rara Casanat. 1506) . (8) Cfr. Volar, E. S. de' Picc. als Pius der Zweite ecc. , Berlin , 1856-63 , III , 621 sgg. , spe- cialmente p. 626. 416 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA rebbe utile, che appunto il L., il quale, come dicemmo , attende a studiare con profondità e ampiezza d'indagini i Commentarî del Piccolomini, tornando su questa parte ora appena sfiorata del tema, discorresse , quando che sia, compiutamente i soggetti, le occasioni, le fonti, lo stile, i metri della lirica del Campano. Anche a' suoi corrispondenti poetici gioverebbe volgere uno sguardo; e qui ci piace d'additargliene due: Battista Lunense e Platino Plato. Il primo, inviando al celebre vescovo settantaquattro esametri (1) , si sotto- scriveva B. lunensis tuus ; non dubbio indizio d'amicizia. L'altro il ben noto umanista milanese mandava Ad lo. Ant. Campanum praesulem aprutinum un epigramma ossequiosissimo ; questo : Saepe salutatus fuit a praedonibus exul Scipio Linterni, non secus atque deus. Cur in Aprutinis ego te moror, inclyte vates, visere, qui veneror nomen ubique tuum ? Debueram subito medium transire Truentum , ut, Campane, semel conspicerere mihi. Idque foret factum, sed adhuc aliena securi auspicia Asculea nuper in urbe sumus. Sum ducis Urbini turmae praefectus equestri , illius hic jussis arma togamque fero . Quippe gubernator Piceni milite cives restituit pulsos seditione domo : quique reos omnis equitando per oppida terret , afficit et poenis Eacon esse putes. Hic aquilanus adest commendat et ipse Marinus se tibi, Fulginea factus in urbe tuus (2). - FRANCESCO FLAMINI. FRANCESCO NITTI. — Leone X e la sua politica secondo documenti e carteggi inediti. Firenze, Barbèra, 1892 ( 8° , pp. 463) . - Contro tutte le consuetudini della modestia bibliografica, comincio col citare me stesso. Sette anni or sono, parlando dell'ambascieria di Pietro Bembo a Venezia, io scrivevo : « ...un libro, che riuscirebbe utile e bello, sulla po- <<< litica di Leone X, rimane ancora un desiderio ; ma non si può dire che il << momento sia venuto per farlo in modo definitivo..... » (3). Quel momento - (1) Editi negli Anecdota literaria , Roma , 1773 , III , 431. Cfr. MANCINI, Vita del V. , p. 276 . (2) Dalla rara ediz . milanese del 1502 dei carmi di Platino. Ne contiene di curiosi e notevoli, indirizzati al Decembrio , ad Jacopo Antiquario , al Merula, al Magnifico , a Ubertino Crescentinate, al Poliziano, a Niccolò da Correggic, a Gaspare Visconti, ad Antonio Pelotto, al Tac- cone, al Boiardo ecc. (8) A proposito di un'ambascieria di m. P. Bembo ( dicembre 1514). Estr. dall' Arch. Veneto, S. II, t. XXX, P. II , p. 2. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 417 M non è giunto ancora oggi ; ma l'adempimento di quel desiderio è meno lontano che allora non fosse ; di che, per tacere di altre pubblicazioni, è prova il presente volume. Di esso, benchè essenzialmente storico, voglio dare una breve notizia, prendendone in esame speciale la prima parte , intitolata La politica di Leone X rispetto ai parenti Lorenzo e Giuliano de' Medici; come quella che ha più stretta attinenza con la storia delle lettere nostre, e durante un periodo glorioso, al quale gli studî continui e svariati, lungi dallo scemare, accrescono invece attrattiva. Questo primo e buon saggio non riesce nuovo agli studiosi , giacchè aveva veduto la luce , in una forma alquanto diversa e più breve, nella Nuova Antologia del 1º agosto 1890. In esso l'A. si propose di esaminare con una indagine larga e spassionata in qual modo e misura la politica di Leone X fosse ispirata dalle mire ambiziose e dalle cupidigie di famiglia, e fino a qual punto egli meriti quell'accusa di nepotismo, che la critica più recente gli ha con singolare insistenza rinfacciato. Perciò buon pensiero fu il suo di riassumere dapprima le cause e ragioni svariate che contribuirono ad elevare al papato , contro l'aspettazione dei più, il giovane cardinale Giovanni de' Medici. Ma non andava trascurata (e di questa trascuranza si risente anche in sèguito tutta la trattazione) l'opera di Bernardo Divizi, un intrigante fornito d'ingegno acuto e versatile e di mirabile attività, rafforzata dalla gratitudine, raddoppiata da non infondate speranze ; un diplomatico volpino, al quale i contemporanei sono concordi nell'attribuire il maggior merito in quelle mene secrete di conclave, onde uscì eletto Leone X, e una parte principalissima durante quasi tutto il suo pontificato. Non per nulla uno dei più sagaci ambasciatori veneziani d'allora, il Foscari, ebbe a dirlo un alter Papa ( 1) . Con lodevole chiarezza e non poco acume l'A. espone quindi i modi tenuti dal nuovo pontefice, assecondato efficacemente dal cugino, il cardinale Giulio de' Medici, nel soddisfare con la sua politica ai due bisogni principalmente sentiti al suo tempo, di conseguire cioè la pace temporale e la pace spirituale , di fronte ad ostacoli molti e nuovi, di fronte sovratutto alla politica di Luigi XII di Francia. Ma a volte egli sottilizza troppo e in generale si mostra troppo esclusivo e ristretto nell'uso delle sue fonti . Ad esempio, gli avrebbero giovato non poco, nello studiare i rapporti di papa Leone con Venezia e con Francia, quei documenti veneziani, dei quali io ebbi in parte a valermi nel lavoro citato; gli avrebbero giovato specialmente a temperare quell'ottimismo con cui, trascinato un po' dalla sua tesi, egli giudica la politica del papa mediceo, informata più che altro, secondo lui, da propositi pacifici e disinteressati. Troppo benevolo mi sembra anche il giudizio che il N. reca della moralità e dei costumi del papa e dei suoi parenti più prossimi. Un'unica eccezione egli fa per Giuliano, che « solo della famiglia sembra avere straordi- < nariamente ecceduto » (p. 25 n.) . Ma qui sarebbe proprio il caso d'invocare la medicina e la fisiologia in aiuto della storia. Chi sappia in quali condizioni fisiche si trovasse Leone X sin dal principio del suo pontificato, quel (1) In un dispaccio da me allegato nell'articolo cit. , p. 56. 418 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Leone che l'A. stesso (p. 7) riconosce, « non ostante la gioventù sua, affitto << da non lievi malattie umorali », e che fu continuamente molestato da una celebre fistola, non dovrà meravigliarsi se quel papa, uscito da una famiglia infiacchita e logora , inclinasse , non per virtù , ma per necessità della sua natura, più alle raffinatezze, direi, contemplative, all'estetica del sensualismo epicureo, che non al brutale e vigoroso soddisfacimento dei piaceri venerei, come un papa Borgiano (1) . Nè giudizio diverso dovremmo recare di Lorenzo de' Medici , che non valeva certo più di Giuliano a questo riguardo. Basterebbe ricordare ciò che delle sue abitudini punto lodevoli, anzi della sua vita scapestrata, rotta ad « ogni vizio di lussuria », traspare dalle Lettere di cortigiane del sec. XVI, pubblicate la prima volta dal Ferrai, o da altri documenti, alcuni dei quali ancora inediti. Fra questi credo sieno da annoverarsi certe lettere che si conservano nell'Archivio fiorentino, nelle quali un familiare del duca Lorenzo , parlando della malattia che doveva condur di lì a poco alla morte il suo signore , ne attribuisce la causa anche a un vecchio malfranzese. Meno scusabili le dissipazioni , le orgie del principe mediceo, dacché egli vi si lasciava trascinare , docile strumento , da due indegni (o degni ? ) non saprei dire se cortigiani o mezzani , il Moro ed il Pera. Essi (scrive il dabben familiare che doveva essere egregiamente informato), essi <<< sono cause di ogni male, et amazeranno el duca, se V. S.tà non ci provede: «< et se non fussino, S. Ex. non harebbe hauto male, perchè l'uno con la gola, << l'altro con quella faccenda lo hanno condotto dove è. Et sarebbe anche a << questa hora guarito, se non li fussino intorno, perchè se ben el Ducha ha << hora donna et non fa altre faccende , quel jotto non manca di mecterli << tuttavia cose inanzi benche e' sia malato » . Leone X aveva ragione di esserne vivamente adirato, specie contro il Moro ; ma avrebbe potuto e dovuto esserlo anche contro il nipote. Più innanzi l'A. , indotto sempre dalla sua tesi , mi sembra neghi in modo troppo reciso che Leone X manifestasse prima del febbraio 1515 il disegno di procurare il reame di Napoli a Giuliano, e il Ducato milanese a Lorenzo (p. 19) . Un nobile veneziano , Vincenzo Quirini , divenuto frate camaldolese col nome di frate Piero, e che aveva saputo conquistarsi l'intimità di papa Leone e della famiglia medicea, in una lettera da me pubblicata (2) , in data del 25 maggio 1514, ci è buon testimonio in contrario. Dalle sue parole apprendiamo che fin d'allora non soltanto Giuliano accarezzava l'idea di assicurarsi il reame di Napoli e faceva assegnamento sull'armata veneziana, ma che le sue mire ambiziose erano in segreto alimentate e incoraggiate dal pontefice, che aveva avuto promessa d'aiuto all'impresa dal re d'Inghilterra. Nè si creda (1) Paride de Grassi, in un passo dei suoi Diari, citato di recente dallo Gnoli , dice che Leone era talis naturae, ut tarde omnia, cubando, surgendo et comedendo faciat . Tardo dunque e fiacco anche nell'amore. (2) Articolo cit . , p. 17. Sull' importanza del Quirini come diplomatico m'accontento di rimandare alla pregevole pubblicazione di C. voN HOEFLER , Depeschen des venetianischen Botschafters bei Erzherzog Philipp dritten Vincenzo Quirino, Wien, 1884. La relazione di Spagna del Quirini è nel vol. I delle Relazioni dell'Albèri ( 1ª Serie) e molte notizie di lui fornì il Cicoana, Inscri- zioni veneziane, t. V, pp. 63 sgg. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 419 2 82 ད 브 1 E che si trattasse di chiacchiere o di vane illusioni ; tant'è vero che per indurre meglio in suo favore i Veneziani egli, il Quirini , spediva intanto 3000 ducati consegnatigli dal cardinal Giulio. Illustrando questo prezioso documento io notavo come non avesse commesso errore l'acutissimo e informatissimo Guicciardini toccando di questo punto, come malamente ne avesse sospettato il Gar, e come invece avesse ragione il Guasti. Si capisce quindi che Ferdinando non aveva poi tutt'i torti, se non prestava fede alle proteste di papa Leone (cfr. p. 34, e p. 41 n.). Con ciò cade anche, se non m'inganno, l'altra affermazione dell'A. (p. 22), che cioè « nè Giuliano, nè Lorenzo nutrissero nell'animo i progetti di gran- << dezza che la posizione nella quale si trovavano faceva loro supporre ». Più solide e in parte dimostrative mi sembrano le pagine nelle quali il N. intende a spiegare la volubilità apparente ( io aggiungerei anche reale , effettiva) della politica di Leone X, e discorre della sua politica di conservazione e di equilibrio (pp. 35-40) , che lo indusse ad osteggiare e a rompere il disegno di matrimonio francese-spagnuolo e in quella vece a stringere il matrimonio e l'alleanza francese e inglese (pp. 41-3). L'A. accenna anche (p. 46) al trattato di alleanza segreta che il 21 settembre del 1514 Leone X aveva sottoscritto in Roma col re di Spagna. Ma, a provare che razza di politica contradditoria e subdola fosse questa del pontefice mediceo , basti notare che due mesi dopo Leone osava assicurare il cardinale Sanseverino, uno dei più autorevoli capi della parte francese alla corte pontificia , ch'egli continuava nelle solite disposizioni favorevoli al re di Francia e che in questo senso appunto aveva scritto al re medesimo « non << restando inanimarlo alla impresa de Italia ». E l'abilità simulatrice e dissimulatrice di papa Leone era tale, che il Lando, allora ambasciator veneziano a Roma, credeva di poter concludere : « Se 'l pontefice non è abarador « (barattiere , ingannatore ) l'è tutto inclinato al beneficio del Christianis- « simo » (1). I fatti dovevano ben presto mostrargli che il papa , come del resto la maggior parte degli uomini politici d'allora, era un abarador senza pari. Lo mostrarono il 26 novembre , quando finalmente Leone si decise di levarsi la maschera rivelandosi tutto avverso a Francia , risoluto a indurre Venezia a collegarsi con l'impero e con la Spagna. E si badi (non rincresca all'egregio A. se insisto su questo punto) che anche in queste trattative col re di Spagna il papa era tutt'altro che disinteressato e non mirava soltanto ad assicurare la pace d'Italia. Dai documenti del tempo apparisce il solito intendimento nepotistico della politica medicea. Un alto personaggio , che godeva la intimità di papa Leone, confidava nel novembre del 1514 al Lando, che S. Santità avevagli detto d'aver fermato « el parentà con el Re de Spagna, < dando al Mag. Lorenzino una fiola de sorella de sua madre e che è de la << casa de Cardona », e aveva soggiunto che « morendo el re di Spagna, cum << la potentia et favor del parentà de questa donna , el se insignoreria del << regno di Napoli » (2). O che occorre uno sforzo straordinario di fantasia (1) Articolo cit. , p. 83. (2) Articolo cit. , p. 37. Del resto il nepotismo di Leone X è riconosciuto dagli stessi scrittori 420 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA e di logica per intravedere le mire che in quel tempo aveva il papa mediceo, di assicurare il regno di Napoli a Lorenzo, mercè la parentela con la casa reale di Spagna , e di lì a poco il ducato di Milano a Giuliano , mercè il matrimonio di questo con Filiberta , sorella di Luisa di Savoia ? Solo che egli, astutissimo com'era, vedeva e pesava tutti i pericoli e le difficoltà di quell'impresa, come si esprimeva con Giuliano (cfr. p. 51) e sapeva fare di necessità virtù e muovere un passo alla volta, cominciando intanto con l'investire Giuliano di Modena e Reggio (p. 53). In fondo, la politica tenuta da Leone X verso Francesco I non è che la continuazione di quella da lui seguìta col suo antecessore. Di qui la sua prudente e abile ritirata di fronte alla fiera risposta di Francesco 1 (p. 59), risposta che l'A. vuole spiegare diversamente , secondo il suo concetto che a me pare un preconcetto ; di qui la grande destrezza usata dal papa nelle Instructiones segrete trasmesse per mezzo di Giuliano al re di Francia, nelle quali poneva le condizioni dell'accordo (pp. 61-3). A questo punto il N. medesimo confessa che il papa affermando che non avrebbe concesso a Giuliano di riunire sul suo capo le due corone di Napoli e di Milano << esagerava << forse un po' troppo la verità del sentimento intimo, che lo ispirava ». Proprio il figlio di Lorenzo il Magnifico sarebbe stato tanto ingenuo col re di Francia, ormai sceso in Italia, alla vigilia della battaglia di Marignano, alla vigilia di vedersi sfuggir di mano Parma e Piacenza ; tanto ingenuo, dico, da accampare audaci pretensioni sui due dominî di Napoli e di Milano ! Gli è che queste due corone erano diventate per Leone X come l'uva famosa per la volpe della favola ; tanto più dacchè Giuliano si poteva considerare ormai come scomparso dalla scena politica e dal mondo. Anche allora il papa fece di necessità virtù e si accontento del ducato d'Urbino pel nipote Lorenzo ; e, checchè dica l'A. a discolpa di Leone X e a carico di Alfonsina Orsini, che certo ebbe parte attiva in quei maneggi (pp. 70-71), mi sembra senza appello il giudizio pronunziato dal più degli storici, su cotesta impresa di Urbino, che è un'assai brutta pagina nella politica medicea di quel pontefice (1). Ho insistito in modo speciale su questo primo saggio, anche perchè mi parve che l'A. , il quale fa pur prova di tanto acume e di così sicura conoscenza della materia , non abbia raggiunto l'intento suo di dimostrare che il nepotismo non fu che un movente secondario nella politica di Leone X. Il N. adopera una frase che bene caratterizza codesta politica, dicendo quello di Leone un « debole nepotismo »; debole, fiacco, incerto nepotismo, come la natura flaccidamente epicurea del papa mediceo e dei suoi degni parenti, come tutta quella politica perpetuamente oscillante. Nepotismo fatto di carezze e di sorrisi, di astuzie e di piccole viltà, non un nepotismo fatto di bestemmie e di audaci battaglie e di colpi di spada o di veleno, come quello di un Alespiù ortodossi e scrupolosi, come, ad esempio, dall'ARMELLINI, il quale in una sua nota al Diario di Leone X di Paride de Grassi, Roma, 1884, p. 117, è costretto a confessare essere < innegabile che Leone X favori i suoi parenti e non può al certo dirsi immune dalla taccia di nepotismo ». (1) Su questo avvenimento verrà nuova luce dai documenti che i miei carissimi Luzio e Renier inseriranno nel volume Mantova e Urbino d'imminente pubblicazione. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 421 sandro VI e d'un Giulio II. È una cattiva istituzione che con Leone X si sfascia e decade, ma pur troppo non muore. - Più largo nelle proporzioni , più consistente nella materia , non di rado tratta da nuovi documenti, più dimostrativo anche pel metodo, è il secondo saggio di questo volume, riguardante La politica di Leone X nella lotta di rivalità tra Francesco 1 e Carlo V, saggio diviso opportunamente in tre parti o lunghi capitoli . In un argomento pur così noto nelle sue linee generali e da tanti studiato fra gli ultimi dal De Leva e dal Baumgarten, le cui conclusioni sono qui discusse e in parte modificate l'A. riesce a darci una trattazione per molti riguardi nuova e lodevole , quasi sempre esatta fin nelle cose secondarie (1) . Non è mia intenzione entrare anche qui in particolari e men che meno in una discussione minuta d'una materia che mal si presta di sua natura ad essere riassunta. Mi limiterò solo a notare che anche in questo saggio l'A. tradisce di quando in quando la sua tesi, l'intenzione cioè di scagionare la politica di Leone X dalle accuse di eccessivo e dannoso nepotismo ed egoismo, scemando così al suo lavoro quella perfetta obbiettività, che è uno dei pregi principali d'ogni opera storica. Al N. spetta in ogni modo il merito d'avere dimostrato come la politica di papa Leone non debba considerarsi e giudicarsi, come s'è fatto sinora dai più, all'ingrosso, ridotta ad una semplicità ed unità che non ebbe, nè poteva avere ; ma debba essere studiata nei suoi momenti diversi , nelle sue varie , spesso contradditorie e quasi inafferrabili manifestazioni. Ed un altro merito conviene riconoscere all'A. , tanto più apprezzabile quanto meno comune, quello di aver fatto un libro utile e sostanzioso e insieme di piacevole e gradita lettura, nonostante certe incurie nella forma (2). VITTORIO CIAN. (1) Fra le inesattezze , del resto non gravi , rilevo quella nella quale incorse l'A. a p. 367 , dove, sulla fede d'una lettera famosa inserita nelle Lettere di principi, si afferma Baldassar Castiglione presente nell'ottobre del 1520 alla incoronazione di Carlo V ad Aquisgrana. Già il MazZUCHELLI, Castiglione Baldassare, articolo inedito dell'opera ecc. , pubbl. da E. NARDUCCI, p . 28 dell'estr. dal Buonarroli di Roma, S. II , vol. XII , 1877-78 , e poscia il BAUMGARTEN , Gesch. Carls V, I, 172, che l'A. pur cita ad ogni piè sospinto, e più recentemente il REUMONT, B. Castiglione, nella Vierteljahrsschrift für Kultur u. Litteratur der Renaissance , an. I , fasc. 3, pp. 398-402, o posero in dubbio o negarono , con forti argomenti, l'autenticità di quella lettera malamente attribuita al Castiglione ( cfr. inoltre RENIER, Notizie di lettere ined. di B. Castiglione, Torino, 1889, p. 14 n. ). La stessa osservazione valga per la lettera da Toledo del 26 sett . 1519 , anche pubblicata nelle Lettere di principi, dalla quale l'A . (pp. 237-9) dedusse la notizia d'una amba scieria del Castiglione a Carlo I. I dubbi del REUMONT, Op. cit. , circa l'autenticità di questa lettera furono confermati dal MARTINATI, Notizie stor. biograf. int. al co. B. Castiglione, Firenze, 1890, p. 36. In questo stesso Giornale, XVII, 121 , io ebbi a citare una lettera che il Castiglione, proprio il 26 settembre 1519, scriveva da Roma all' Equicola. Non credo che il N. voglia conce- dere all'autore del Cortegiano il dono dell'ubiquità. (2) Richiamo l'attenzione dell'A. specie sull'uso, in lai normale, ma indiscutibilmente scorretto, del questi riferito a persona singolare nei casi obliqui ; e sulla soppressione dell ' articolo dinanzi a cognomi o a nomi considerati come tali , il che, in certi casi , può anche ingenerare confusione od equivoco . Per es.: lettera da Bibbiena ; spedita a Bibbiena » ecc. 422 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA GIACOMO LEOPARDI. STRACCALI. - ― I Canti commentati da ALFREDO Firenze, Sansoni, 1892 (8°, pp. XI-241). GIACOMO LEOPARDI. - I Canti, con interpretazione e commento di PAOLO EMILIO CASTAGNOLA , per uso delle scuole. Firenze, Le Monnier, 1893 (8°, pp. xvIII-334). - CAMILLO TRIVERO. - Saggio di commento estetico al Leopardi. Salò, Devoti, 1892 (8°, pp. 279). - G. A. CESAREO. ―― Nuove ricerche su la vita e le opere di Giacomo Leopardi. - Torino- Roma, Roux, 1893 (8°, pp. 229). Mi propongo d'esaminar prima i due Commenti come libri destinati alle nostre scuole; ma anche d'esser breve in questa parte , secondo conviene all' indole di questo Giornale. Dipoi, notato, ormai, anche quello che nelle opere dello Straccali e del Castagnola si riferisce più al commento estetico de'Canti leopardiani, rassegnerò specialmente il lavoro del Trivero, ed esaminerò, in particolar modo, il saggio del Cesareo; toccando in ultimo delle questioni intorno al testo e più intorno alla cronologia delle poesie non trascurando le altre questioni biografiche o , in generale, di fatto , per le quali richiamerò i due Commenti scolastici prima considerati . A proposito dell'edizione commentata dello Straccali , l'opportunità mi si presenta di dire , che è pur degno , quanto più raro , ufficio della critica di mostrare i pregi d'un lavoro e le ragioni della lode. Lo S. medesimo loda, delle precedenti scelte , quelle del Fornaciari e del Sesler : la sua, non volendosi tener conto di quella del Cappelletti, è la prima che accolga commentate le liriche tutte approvate dal poeta. Ed egli le ha raccolte per i giovani con libero e non imprudente giudizio , com'è dichiarato nell' assennata ed arguta prefazione , nella quale altri avrebbe potuto aspettarsi e desiderare un largo studio su' Canti leopardiani che , m'auguro , lo S., vincendo le ripugnanze d'un'elegante pigrizia , vorrà pur dare una volta : presto. Ora egli ha relegate in nota osservazioni e discussioni estetiche e d'altro genere che, non tanto agli scombiccheratori di memorie, anzi di titoli, ma a studiosi serî potevano pure offrir materia per i capitoli del bramato studio sulle poesie del Leopardi. Rilevo tra queste i giudizî sul Bruto minore, sull'Ultimo canto di Saffo, sull'Inno ai patriarchi, sul Risorgimento e sulle Ricordanze che l'A. ha preferito spicciolare in note, brevissime pel desiderio nostro, anche se opportunamente succose per gli scolari. Con singolar cura e con acuto criterio segue l'A. lo svolgersi e il modificarsi del pensiero poetico del Leopardi (pp. 124, 131 , 132, 133-35, 141 , 170, 188, 209, 226). Delle note, considerate sotto l'aspetto didattico, dico che mi sembrano, prima di tutto, ben abbondanti e forse troppo; ma tali , in ogni modo , che affrontano realmente tutte le difficoltà che possono incontrare i giovani lettori: ben diverse da quelle magre postille che troppi acciarpatori di com- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 423 menti appuntano su' vivagni d'un bozzone di stampa ; nè spiegando nulla, nè rifuggendo dall'insudiciare con volgarissime chiose eccellentissime prose e poesie. Vi son copiosi raffronti con autori classici, specie latini ed italiani ; e spessissimo è richiamato il controllo del Leopardi prosatore. Intorno a' quali raffronti colle prose, che, ripeto, son benissimo intesi , meglio sarebbe stato citare o determinare, come talora lo S. ha fatto, tutte le volte che si poteva, anche la data a dichiarazione più piena de' concetti e fantasmi leopardiani (1) . Ho avvertito in principio che non è mia intenzione esaminare minutamente i Commenti ; sicchè non ho il modo di dimostrare per quali ragioni dissentirei alcuna volta dalle interpretazioni preferite dall'A.; ma qualche domanda mi sarà pur permessa. Intendendosi (v. 101-102 Sopra il monumento di Dante) l'ultima sera, per l'ultima delle sere, non si potrebbe dare alla frase il senso di quella sera (cioè fine del giorno e, per estensione, anche inizio del periodo della notte) che non ha dimani ? La noia, secondo il valore leopardianamente e nervosamente moderno della parola , sarà bene un sentimento non tanto frequente presso gli antichi ; ma sconosciuto affatto non direi (2) . Mi vengono a mente, per rimanere tra' poeti nostri, certi passi di lettere e di epistole poetiche del Petrarca pieni di quella che egli medesimo chiamò acidia (Secretum, dial. II ) ; mi viene a mente quel bel sonetto di Cino : Tutto ch'altrui aggrada , a me disgrada, Ed emmi a NOIA e ' n dispiacere il mondo... Così (vv. 10-12 Amore e morte) non direi tanto risolutamente che negli antichi non s'incontri mai « una quale si voglia figurazione fantastica, che presenti << la morte in forme altrettanto leggiadre , e cioè come un bene , come una << cosa desiderabile e desiderata per sè stessa » ( 3) . Tra i luoghi richiamati (vv. 63-68 Il tramonto della Luna) perchè non riferire, piuttostochè quello di Lotichio, l'oraziano ( Od. IV, 7) : damna tamen celeres reparant caelestia lunae, ecc. che è forse il motivo del carme? Ma, per finirla, devo pur ripetere che il commento dello S. mi è parso veramente lodevolissimo. Molto meno quello del Castagnola, i meriti del quale verso le lettere nostre non voglio certo disconoscere. Il C. aveva pubblicati già Undici canti di G. L. con interpretazione e commento ( Firenze , Le Monnier, 1883) e ora, con quelli (emendato in parte l'antico lavoro), pubblica commentati trenta- (1) Mi piace di ricordare che recentemente si è manifestata una lodevole tendenza a studiare, anche nelle lor fonti, le prose leopardiane. Allo studio del DELLA GIOVANna (cfr. Giorn. , XX, 336) sul dialogo Federico Ruysch e delle sue mummie , risponde il BORGOGNONI Con un Saggio di interpretazione (Verona, Tedeschi, 1892) . Apprendo con vivo piacere che ad una scelta commentata di prose del Leopardi attende il mio egregio amico prof. Straccali per la Collezione Sansoni. (2) Alcuni luoghi classici si potrebbero spigolare nel libro del CESAREO nel capitolo 1 precursori greci del pessimismo. (8) Vedi le osservazioni in proposito di I. DELLA GIOVANNA, La ragion poetica dei canti di G. Leopardi, nella Bibl. delle scuole italiane , 16 nov. 1892 , no 4 : al quale articolo mi occorrerà ancora accennare. 424 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA nove canti leopardiani ( 1) . Non si capisce, del resto, perchè l'editore escluda le traduzioni e pubblichi poi , invece, intiera la seconda elegia, della quale il Leopardi non seguitò a pubblicare, dopo il 1826, che un frammento; seppure non ci appaghi la ragione datane a p. ix. Già un manifesto volante degli editori avvisava della necessità che i canti leopardiani sien corredati di commenti atti a rilevare gli errori ecc. e di confutazioni che si farebbero della desolante dottrina che oggi dicesi nullismo leopardiano, e di esage rate sentenze da ribattere e che so io. Si scopriva , dunque , manifesta la tendenza polemica dell'autore delle Osservazioni ai Pensieri di Giacomo Leopardi (2). Confutazioni, scrio scrio, chiama il Castagnola le sue osservazioni (p. x1); ardito in questo, secondo me, come quando (p. x), senza pur accennarne una ragione, dice che il Leopardi toglie la gloria della lirica, non solo a Ugo Foscolo, ma a Francesco Petrarca ! È ben grama , davvero , quella notiziola di Giacomo Leopardi; senza nemmeno un ricordo di tanti lavori, tra buoni e cattivi, che si son venuti facendo sul Recanatese, qualcuno de' quali neppure il C. per nessuna ragione, poteva e doveva invidiare a' giovani cui destina il suo libro ! Quanto alle note, esse appariscono molto più magre di quelle dello Straccali, senza la copia di quei raffronti classici che un solenne maestro, anche nel far commenti (3), riteneva indispensabili specialmente per il Leopardi che << nelle Annotazioni filologiche alle prime dieci canzoni, ha mostrato il me- << todo e la via della interpretazione. Un commento poetico insieme e storico «< e filologico è indispensabile: molte allusioni desunte dalla vita e dalle con- << dizioni momentanee o dalle opinioni costanti del Leopardi vanno delucidate: << molti passi e voci illustrate : molte imitazioni e reminiscenze additate >. L'A., troppo intento a notar metonimie e ipotiposi e prosopopee, che è pur bene i giovani conoscano , ma non così che debban crederle quasi sole raragioni di bellezza, non tien che poco conto de' lavori co' quali gl'interpreti precedenti avevan dissodato il terreno ; e saltando a pie' pari luoghi veramente difficili, s'indugia, per compenso con qualche peregrinità di stile, dove altri sorvolerebbe o volerebbe addirittura. Nessuno si vorrà contentare di quei cenni sul verso sciolto (pp. 71 sgg.), ne' quali è grave errore non ricordare gli antichi esempi sporadici del sec. XIII e XIV e nel sec. XVI, trascurare il nome di Gian Giorgio Trissino. Non voglio davvero riconfutare io le confutazioni del C., le quali potrebbero talora, non dico di no, contenute in più giusti limiti e più serene, accompagnarsi utilmente alle dichiarazioni filologiche ; ma, fatte così per partito preso , conducono ai pistolotti (pp. 123, 283, 325 fra tante) o han tutto il sapore di quel famoso perzemolo nelle polpette (pp. 260, 261 317 per es.); quando non fanno perdere al C. il giusto sentimento del suo ufficio di interprete, come allorchè scrive (basti un esempio) : « Il concetto dell'autore (1 ) Del primo saggio del Castagnola s'occupò già F. ColaGrosso in uno studio che riproduce negli Studi di letteratura italiana , Verona , Tedeschi , 1892 (cfr. Giornale, XXI, 178 e segg.) . In questa recensione, nella quale si fanno brevi osservazioni intorno alla metrica leopardiana , il saggio del C. è giudicato, insomma, con poco favore. (2) Furono edite di nuovo: Paravia, 1889. (3) (A. D'ANCONA) , Rassegna settimanale, vol. I, p. 482, rassegnando un opuscolo di L. Pieretti. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 425 « è sublime qualora s'interpreti in modo forse alquanto diverso dal senso che « ha voluto dargli » (p. 271) . In certe considerazioni estetiche enuncia forse principî troppo rigidi (p. 123) ; o professa ammirazioni troppo esagerate (p. 297); o s'arrischia a censure troppo preconcette come questa (p. 323) « la compa- < razione tra l'eroismo della ginestra, che non ha intelletto nè persona, con << la viltà della persona e dell'intelletto umano riesce ad una INCONCLUDENTE « FREDDURA (sic), quantunque espressa, come di consueto, in versi nitidissimi ». E colla medesima franchezza e sincerità noto, che mi paiono, invece, sensate e acute non poche di quelle annotazioni che il C. va facendo in fine a ciascun canto (pp. 36 sgg. , 175, 219) ; nè vi mancherebbe talora l'arguzia (p. 84) se non la soffocasse subito quel proposito di moralizzare , che pur sommamente rispettabile com'ogni opinione francamente professata , è la cagione precipua, io credo, de' molti difetti di questo commento. Il Trivero aveva anche lui già data una primizia del Saggio di commento estetico (1) che è « applicazione pratica de' criterî estetici che sviluppa in << un altro lavoro » (p. 6) che sta preparando « coll'ardito tentativo di siste- << mazione del problema estetico » ( ibid. ). Nel Saggio del Trivero dovremmo attenderci, dunque, di vedere sviluppate alcune considerazioni che relegava e costringeva in nota lo Straccali ; cui accennava il Castagnola ; che hanno fatte dispersamente, ormai, tanti studiosi delle cose leopardiane : considerazioni che il lavoro analitico e minuto copiosissimo, anzi quasi compiuto, ci permette, e ci consiglia di fare intorno all'arte del Loopardi (e, per additare un altro soggetto di lavoro, soggiungo , anche del Foscolo) come giustamente avvertiva un critico di questo libro del Trivero (2). Fatiche queste, ben s'intende, non da pedanti i quali, per citare le belle parole del De Sanctis, richiamate anche dal Trivero (p. 15) , si contentano d'una semplice esposizione , e si ostinano nelle frasi, ne' concetti, nelle allegorie, in questo o in quel particolare , come uccelli di rapina in un cadavere. Il disegno del libro del Trivero a me non sembra troppo felice, nè troppo solido l'organismo : l'esame analitico estetico delle dodici poesie che commenta, non l'avrei staccato dalle osservazioni sul valore estetico dei Canti leopardiani, alle quali s'accodano i paragrafi 3º (Altri pregi del contenuto leopardiano) e 4º ( La forma) : le ragioni le dirò esaminando, a lor turno, queste ultime parti del lavoro. Intanto, per additar subito quelli che a me paiono pregi o difetti generali del Saggio, noterò, cominciando volentieri e prima dai pregi , che il T. mostra una singolare acutezza ed agilità di pensiero e felici attitudini alle speculazioni estetiche : doti cioè d'astrazione , insieme , e d'osservazione paziente ; di analisi e di sintesi e rettitudine di gusto ; ciò che non è poco davvero (pp. 17, 20, 25, 44, 55, 62, 124 ecc.). Ma queste qualità fondamentali non ha cercato d'aiutare e svolgere compiutamente, rifiutando altri sussidî che giovan pure al critico estetico e isolando troppo la poesia ch'egli studia dalla rimanente opera e attività del suo autore . E sia pure che egli ami e dimostri ( 1) C. TRIVERO, L'infinito di G. Leopardi. Commento estetico, Salò, Conter, 1891. (2) B. RENIER, Un'analisi estetica dei canti leopardiani, nella Gazzetta letteraria, 20 ag. 1892. Concordo , quasi sempre , colle osservazioni del R., alcune delle quali ripeto, per mio conto, in questa rassegna. 426 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA possibili certi raggruppamenti (p. 27) ; ma non per ciò sarà abilitato a trascurare quasi affatto le ragioni cronologiche de' Canti, ragioni le quali qualche volta mostra di valutare (p. 41) , ma , talora , di fraintendere come quando (p. 39) cita, senza nessuna avvertenza, Il sabato del villaggio a confronto con un luogo del Passero solitario. Nè dell'importanza che ha il corredo degli studi biografici e storici sul Leopardi ; nè del carattere e valore che ha la speciale e sempre più personale metrica leopardiana mostra accorgersi ; nė i pregi formali delle liriche, tiene, secondo me, nel dovuto conto : non bastano alcuni rilievi fatti, a scappa e fuggi, qua e là ; nè, come dirò, quello che scrive in ultimo, ex professo, su La forma. E anch'egli si perde, poi, con poco amabil vezzo, a discutere col poeta e a sillogizzare dove sarebbe meglio ammirare, a confutare dove meglio altri s'indugerebbe a spiegare le ragioni più riposte d'un pensiero o d'un fantasma poetico (pp. 31 , 34, 48 p. es.) (1) . Inoltre, quanto alla forma, mi convien pur dire che, in generale, essa m'è sembrata troppo negletta : pp. 6, 7, 9, 14, 23, 29, 34, 43, 61 , 101 , 123, 126 e altrove, dove è sempre da riprendere o qualche parola o qualche costrutto. So bene che in così fatti lavori di filosofia dell'arte, quasi direi, è molto facile incappare in un certo frasario, che per esser comodo, non cessa d'essere spesso un gergo; ma il T. sa, come me, che non sono appunto il maggior pregio, p. es. , del De Sanctis nè la lingua nè lo stile........ però l'esemplo basti (2). · Venendo, finalmente, a dire delle singole parti del Saggio, mi son parse trattate con abile tocco le pagine sull'Infinito , sulla Quiete dopo la tempesta (specie sul principio), sul Risorgimento ; ma qualche cenno più largo poteva fare il T. a' luoghi opportuni (meglio che nelle tre paginette 251-53) sul verismo del Leopardi e su quella ragion poetica di molti canti che è veramente assai spesso (3) un'esplicazione di contrasti e di confronti fra stati fisici e morali o contrarî o diversi. In quelle considerazioni sul canto Alla luna (p. 24) non avrei spiegato solo per esperienza la parola memoria del verso 14, che è a significare il ricordo delle molte cose dolorose e, anche, delle ben poche liete : nè è esatto intendere (Il passero solitaro, vv. 46, 47, p. 41) tu non ti pentirai mai d'esser vissuto ciò che vuol dire non ti pentirai del tuo modo di vita solitaria ; nè aggiungere particolari oziosi che possono ap pannare il nitido fantasma del poeta (pp. 47, 53) che , se avesse voluto, li avrebbe soggiunti lui medesimo e da par suo. Il Consalvo non è affatto stu- (1) Cfr. , invece, quello che, condannando ex ore suo il suo sistema, osserva a p. 52. (2) I periodi procedono troppo rotti o claudicanti. E certe parentesi son bizzarre assai (pp. 40, 49, 64). No basta il tono retorico, di troppo vieto gusto , ad aggiunger calore e dignità allo stile. Delle molte negligenze della punteggiatura amo meglio imputare l'opera del tipografo e la poco attenta revisione delle bozze. (3) II DELLA GIOVANNA , nel cit. art. , dove sono , peraltro, molte buone osservazioni, esagera, secondo me, la portata di quella maniera poetica leopardiana, che s'industria studiosamente di determinare. Que' contrasti e contrapposti in una poesia così soggettiva e così sincera come quella del Leopardi, sono (nè paiono a me sempre così evidentemente voluti) , anzichè un mezzo artistico e tecnico, il riflesso della condizione d'animo del poeta e molto più una cosa dolorosamente e tenacemente sentita che un ricercato artificio o adattamento dell'organismo delle singole liriche : meno riflesse e molto più immediatamente sincere di quel che mostri credere il DELLA GIOVANNA (ib. , 55). RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 427 diate secondo que' motivi d'ispirazione e nei mezzi d'esecuzione che a giudici ben autorevoli parvero cagione di mancata bellezza in confronto degli altri Canti leopardiani. Passa il T. a studiare la natura del dolore del Leopardi, le sorgenti delle sue ispirazioni e le formule di quel pessimismo ; ciò che poteva fare ne'singoli saggi sulle poesie (tant'è vero che è costretto spesso a ritornare alla analisi di ciascun canto, pp. 134, 145-146) compendiando in bella sintesi, o in un proemio o in un epilogo, le osservazioni e conchiusioni generali. Ma non vi manca il pregio della esattezza ed acutezza delle indagini (p. 188 e segg.) anche se queste possan parere un po' slegate (p. 209) e sconnesse (1). Quelle poche pagine che van sotto il nome (pp. 249-253) di Altri pregi del contenuto leopardiano mi paion troppo frammentarie ; e dove parla della forma (pp. 254-265), mentre concordo coll'A. che essa non si debba considerare del tutto a sè , ma sì bene come il riflesso del pensiero , non credo peraltro che non si potessero considerare ', con special riguardo , le qualità stilistiche propriamente dette. Riepilogando: il Saggio del T., nonostante le molte inesperienze notate, è pur da pregiare come lavoro d'un giovane : manifestazione di non comuni attitudini critiche, promessa d'opere più meditate e sicure. Il Cesareo, che si fece conoscere come poeta e giornalista, sembra ora volersi mettere per nuova via e prediligere gli studî d'erudizione, saggi de`quali pubblica con fecondità che, se non è precoce, può parere a qualcuno frettolosa. Almeno alcuni de' saggi contenuti in queste Nuove Ricerche furono pubblicati in giornali letterari e questo il C. avrebbe fatto bene ad avvertire ; e, come di essi altri si giovò, giovarsi ora lui di lavori nuovi, comparsi dopo i suoi articoli (2). Il primo studio è intitolato La Silvia e vuol dimostrare l'identità delle due fanciulle Silvia e Nerina e cioè l'esistenza d'una Silvia Nerina (p. 32) negando, dunque, che nelle Ricordanze si canti la bionda Maria Belardinelli morta a 27 anni (1827, 3 nov. ) ; ciò che ammette il Castagnola ; mentre ne dubita, non conchiudendo risolutamente, ma con osservazioni acute, specialmente sulle ragioni intime e psicologiche del canto, lo Straccali. Gli argomenti del Cesareo e degli altri sono di due specie, di fatto e psicologici (3) . Io non posso nè voglio entrare ora in minuta disamina di questi argomenti : mi (1) Perchè dubitare ( p. 237) che le parole Le magnifiche sorti e progressive sieno del Mamiani ? Son proprio sue, nella Dedica degli Inní sacri (cfr. il comm. dello Straccali) . (2) Per un esempio ; lo STRACCALI nella lunga nota su Nerina ( pp. 150 e segg. ) si vale del saggio del CESAREO ( Lettere e arti , Bologna , 1889) . Perchè ora il Cesareo non si vale alla sua volta delle acute osservazioni dello Straccali , il cui commento uscì in luce fino dalla estate decorsa ? Alcune di queste ricerche del Cesareo, conservan troppo , secondo me, la primitiva impronta d'articoli di giornale e ad un buon giudice è parso che non si potessero dire, nè troppo esattamente nè tutte, nuove. Vedi I. DELLA GIOVANNA, Silvia e Nerina , nel periodico La nuova Rassegna, Roma, 26 febbraio 1893. (3) II DELLA GIOVANNA, nell'art. cit. alla n. 1 , rivendica al sig. Pittarelli molti degli argomenti addotti dal Cesareo ; e, inclinando a mantenere distinta la figura di Nerina, anche nella deter- minazione reale , risponde ed obietta al C. molte cose ingegnose. 428 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA contento di notare che il C. abusa, secondo me, di sottigliezze e si porta in un campo di mere ipotesi, contrarie alla comune realtà delle cose, quando scrive (p. 15) <.... un quarto d'ora di sogno fatto davanti la leggiadra sembianza « della bionda giovinetta , che gli ricordava una giovinetta bruna e infelice ». E sia pure che nell'anima commossa e squisitamente sensibile del Leopardi palpitassero ancora i ricordi della Silvia, poichè nell'anima d'ogni uomo si stratificano, come dicono, i sentimenti più diversi e i nuovi non cacciano spesso, anzi rievocano gli antichi ; ma sarà negato a un poeta quello che si concederebbe ad ognuno, di poter amare una dopo l'altra, e ciascuna per sè, e sinçeramente o poco o molto (non è questione nè di grado, nè di tempo) prima una bruna e poi una bionda ? Una Silvia- Nerina e una bruna-bionda, dunque? Le osservazioni del C. , del resto, per quanto prolisse , sono assai notabili, anche se non valgano a persuader tutti e del tutto della sua tesi. A me sta in mente che la testimonianza del fratello Carlo e le convenienze che son tra certi luoghi del canto e quello che sappiamo dell'abitazione di Giacomo e della casupola della Belardinelli abbian tuttavia molto valore come prova di fatto ; nè mi pare che si debba sforzare il contenuto della poesia a significare, oltre i ricordi suscitatigli nel cuore dal suo ritorno in Recanati, il ricordo d'una fanciulla, che amò, dimenticò, che, forse, seppe morta e, forse, rimpianse, anche se con nessuno se ne dolse (cfr. Cesareo, p. 20-21) ; anche se, più di lei, ripensò e cantò d'altra amata; ma che pur rammentò allora e risentì e rivide nell'animo suo, nella sua fantasia, trasfigurandola, quasi a compensarla dell'oblio in cui essa era prima caduta. È vero , peraltro, che nel canto leopardiano la figura della Nerina è non solo trasfigurata, ma riportata indietro d'assai. Ma tutto questo m'occorrerà, forse, dichiarar meglio altrove in particolar lavoro. Nel saggio L'Aspasia raggruppa e illustra il C. le quattro poesie che si riferiscono all'amore colla Targioni- Tozzetti. Nella riproduzione in volume dell'articolo (che comparve già nel Lettere e arti, 19-26 ott. 1889) avrebbe dovuto correggere, ormai, la data della conoscenza che il poeta fece colla Aspasia (Straccali , p. 167). Dalle conchiusioni del C. non si può dissentire ; tanto è ovvio, considerando il contenuto e le date probabili dei quattro canti (cfr. p. 49 dove il C. stesso lo confessa) riferirli tutti ad una medesima donna. Quello che dice intorno alla cronologia del Consalvo (p. 54) e di queste quattro poesie mi sembrerebbe più a suo posto nella Cronologia documen- tata in fine al volume. Io non so nè ricercherò dove il C. richiamasse (p. 66) il primo in Italia l'attenzione degli studiosi sul valore della canzone Alla morte di Pandolfo Collenuccio ; certo non prima del Perticari (Bibl. ital. , vol . III , 1816, p. 439 e segg. ) nè del Bicchierai, che pubblicavala nella sua Antol. poetica ad uso della gioventù (Firenze, Le Monnier, 1855), pp. 333 e segg; e, forse, neanche del Saviotti (Pandolfo Collenuccio, ecc. Pisa 1888, pp. 219 e seg. specialmente). Nell'ultima parte (pp. 73 e segg.) mi par da notare una certa solennità di tono che, nel finale (pp. 77 e seg. ) s'innalza ancora, con una conchiusione troppo generale e fuor di luogo in un saggio che non dovrebbe esser più un articolo di giornale. Ma riconosco volentieri la singolare facilità RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 429 ed agilità della prosa del C., alla quale gioverebbe più semplicità di linea e più nettezza e armonia del colorito (1). La copia del materiale, l'acutezza di certi raffronti rendon bene interessante il saggio terzo « La ginestra e la poesia delle rovine » (2). È osservato e detto con molta chiarezza quello che il C. (p. 119 e segg.) scrive intorno allo sviluppo del pensiero pessimista del Leopardi e intorno al valore della Ginestra considerata anche nel movimento poetico e filosofico del tempo. I precursori greci del pessimismo è titolo troppo inadeguato ad una raccolta nè compiuta nè sempre ordinata di passi di scrittori greci che of frano utili comparazioni col pensiero leopardiano. Osservo che avrebbe forse giovato, ricordandosi delle qualità di libri che il Leopardi ebbe nella sua biblioteca e degli studî filologici che prima fece (3), stabilire un ordine diverso a questi raffronti ; a' quali poi s'aggiungono (a scapito della chiarezza del saggio) paragoni con filosofi tedeschi e con poeti moderni (pp. 173 e seg. 188) (4) . È ben poca cosa e come una coda appiccicata al volume quell'appendice Di alcune relazioni della poesia italiana con la straniera dove pure il titolo è più promettente di quel che non mantenga l'articolo . Si parlerà della Cronologia documentata nelle rapide osservazioni che farò intorno all'ordinamento delle poesie leopardiane quale risulta dai libri più recenti esaminati. Dirò, in conchiusione, che il libro del Cesareo, pur non contenendo troppe novità nè sulla vita nè sulle opere del Leopardi , è un altro buon saggio de ' recenti studi eruditi dell'A. , che, con minor fretta nel rielaborare, e con più pazienza nel far nuove ricerche, potrà dare in seguito miglior contributo di lavori alla nostra storia letteraria. In quanto al testo, è pur lodevole la diligenza dello Straccali che, seguendo l'eccellente edizione ( 1886) del Mestica, ha accolte in nota le lezioni varianti, e delle differenze dal Mestica ha sempre dato notizia e ragione . L'assettamento cronologico de' Canti leopardiani è agevolato d'assai, specialmente dopo gli studî del Mestica, del Pieretti e la pubblicazione fatta dall'AntonaTraversi del Catalogo de manoscritti inediti di G. Leopardi (Lapi , Città di Castello, 1889). Lo Straccali preferisce nella sua edizione l'ordinamento cronologico, come già il Mestica e ora anche il Castagnola : il quale ordinamento non è, neanche, moltissimo diverso da quello voluto e fermato dal poeta e pare anche a me il più adatto alle scuole. Così lo Straccali come il Castagnola si dipartono certe volte dalla disposizione seguìta dal Mestica ; ma il Castagnola, mentre stabilisce una tal sua ferma regola per la cronologia (p. vu), non mostra d'essere informato di tutti i sussidî de' quali poteva disporre un editore delle poesie leopardiane nel 1893. Il Cesareo crede poi (1 ) Uno scrittore così accurato dovrebbe rifuggire da certe frasi o volgaruccie o poco italiane, come quelle che egli rileggerà e noterà subito, p. es. , a pp. 41, 53, 74. (2) II DELLA GIOVANNA, loc. cit. , appunta al Cesareo l'omissione di raffronti classici greci e latini. (3) G. SETTI, N Leopardi filologo , in Nuova Antol. , 1 giugno 1891 . (4) La fretta colla quale l'A. mise insieme questo volume è dimostrata, per es. , anche da una ripetizione di concetto e quasi di parole, che in un volume di studi che si seguono o si collegano non si può scusare ( cfr. pp. 120 e 178). Giornale storico, XXI, fasc. 62-63. 28 430 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA di far cosa troppo nuova colla sua Cronologia documentata de' Canti alla quale avevan pur provvisto più altri studiosi che ho ricordato e che egli conosce. Importanti osservazioni sono quelle ch' egli fa sui criterî seguiti dall'autore nell'ordinamento della sua raccolta (pp. 212 e segg.). In questo breve esame delle questioni cronologiche e dei loro risultati, seguo l'ordine che i Canti hanno nell'edizione dello Straccali. - - Il frammento Spento il diurno raggio, che il Castagnola confonde stranamente collo Spavento notturno (p. v), non è che il principio dell'Appressamento alla morte, composto nel 1816. Nonostante che il frammento, così com'è, pubblicato nel 1835 fosse spiccato via dalla cantica giovanile e rielaborato più tardi (come il Leopardi fece altre volte d'altri canti) è posto dallo S. giustamente al 1816 ; e il Cesareo (p. 208) concorda (1). Il primo amore, per dichiarazione dell'A. è del 1817, come nota lo Straccali : perchè non l'avverte il Cesareo? (p. 202) . Il Castagnola segna il 1817, non dicendone, come omette di fare quasi sempre, le ragioni. — Le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante, anche per l'importante osservazione del Cesareo (p. 198) che toglie un po' di valore a quella dello Straccali (p. 18) devono porsi nel l'autunno 1818 ; sebbene , essendo la visita del Giordani del settembre, dovremmo ritenere che le due canzoni fossero composte nel breve tempo che corre da circa la metà di settembre al 19 di ottobre (data della lettera del Leopardi al Giordani, nella quale si parla delle due poesie come già scritte). Il passero solitario, secondo lo Straccali , fu abbozzato nella primavera del 1819 e tra il '31 e il '35 rielaborato : sono assai acute le osservazioni del Cesareo (pp. 203, 213) e concordo anch'io con lui nel porre la composizione del canto nell'aprile 1818. La canzone Ad Angelo Mai fu composta nel gennaio del 1820 secondo lo Straccali, il Castagnola e il Cesareo il quale, troppo recisamente del resto, assicura che la notizia della scoperta del Mai il Leopardi l'ebbe solo nel dicembre 1819, dalla Biblioteca italiana (p. 199). Chi ci dice che il poeta non avesse altra via d'informazioni? Il Consalvo è assegnato dal Castagnola (p. iv e p. 20) al 1817 ; dallo Straccali ai primi del 1821 , perfezionato peraltro tra il '31 e il '35 ; il Cesareo sta incerto tra il '21 e il '31 (p. 34) salvo a propendere per il '21 più tardi (p. 204) e sempre più (p. 214). A me l'età di Consalvo determinata così precisamente dal poeta - - - - - (1) Come quelle le cui date furono notate dall'autore stesso , sono fuori di questione le poesie: Frammento lo qui vagando ( 1817) (I Castagnola pubblica tutta l'elegia e ne dice come osser- vammo (p. ix) una ragione che non può appagare , perchè contravviene a' criteri fondamentali dell'edizione che procura) — Risorgimento, che il Castagnola vorrebbe del 1826 ( 13 aprile 1828) A Silvia (20 aprile 1828) - Le ricordanze (26 agosto- 12 settembre 1829) . Questa data irrefutabile segna anche il Cesareo (pp. 23 , 405) , e perchè allora (p . 18) le dice scritte ai primi di autunno ? Quiete dopo la tempesta (17-20 sett. 1829) Il sabato del villaggio (29 sett. 1829) Canto notturno d'un pastore ecc. (22 ott . 1829-9 aprile 1830) . Queste date registrate dal poeta stesso taglian corto a molte congetture di critici, le quali (pur troppo ! ) vanno spesso assai lontane dal segno. Vedi, p. es. , quello che il Castagnola (p. vu) andava almanaccando sul Canto notturno per riportarlo al novembre 1826 ! Sono del 1819, per testimonianza del Leopardi L'infinito, Alla luna, il frammento Odi Melisso (o Lo spavento notturno) Il sogno, La vita solitaria, La sera del dì di festa. Mi passo, per brevità, della questione intorno alle disposizioni di questi idilli avvicinandomi molto alle opinioni dello Straccali. Intorno al Sogno rilevo le osservazioni del Pieretti, delle quali si son giovati con profitto lo Straccali ed il Cesareo (pp. 6 e segg.) , e intorno alla donna della Sera del dì di festa l'arguta nota dello Straccali. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 431 par sempre la ragione più convincente per mantenere al '21 la composizione del canto (1) . — Nelle nozze della sorella Paolina, accordando lo Straccali col Cesareo (p. 199), parmi da porre sulla fine dell'estate o nell'autunno 1821. — A un vincitore nel pallone è riferita dallo Straccali piuttosto al 1821 : io non nego che l'osservazione del Cesareo intorno agli accenni a cose romane (pp. 199 e seg. ) non abbia il suo valore ; ma non direi che il giuoco del pallone sia giuoco specialmente usato nell'inverno piuttostochè nell'estate e nell'autunno ; nè è da far troppo a fidanza con certi calcoli sul tempo impiegato dal poeta a comporre il canto (p. 201). Ponendo questo carme nel nov. 1822 o sul finire del dicembre a Roma, rimarrebbe salva, mi sembra, anche la miglior parte degli argomenti del Gesareo. Il Bruto minore è sicuramente anteriore al 5 dicembre 1823 (perchè il Cesareo, p. 201, dice l'8 dicembre?) e al ritorno a Recanati (aprile 1823) : del resto, credo, si posson fare congetture ingegnose e nulla più (Straccali, p. 85 e seg.). - Lo stesso, per maggior sicurezza, nonostante la notevole avvertenza dello Straccali (p . 96 n *), si deve dire della Primavera, dell'Ultimo canto di Saffo, dell'Inno ai patriarchi e dell'altro Alla sua donna (2). Al conte Carlo Pepoli fu letta il lunedì di Pasqua 1826 (27 marzo) a Bologna : letta peraltro non vuol dir composta, e potrebbe essere anche anteriore al marzo. Il Pensiero dominante si può con tutta probabilità riferire alla primavera del 1831 (Cesareo pp. 56 e seg. dove è da correggere la notata inesattezza di data intorno alla conoscenza che il Leopardi fece della Targioni-Tozzetti). — L'amore e morte, come sottilmente ragiona il Cesareo (pp. 58 e segg.) , par da collocare nell'estate del 1832; i versi A se stesso (concordano lo Straccali e il Cesareo, p. 57) cadono tra la primavera e l'estate del 1833. La composizione dell'Aspasia (lo Straccali e il Cesareo concordano anche) è da assegnare alla primavera del 1834 : certo al 1834: meno sicuramente si può determinare la primavera, che è pur richiamata in molti luoghi del canto (Cesareo, p . 63) . - Le tre poesie Sopra un basso rilievo, ecc., Sopra il ritratto, ecc. , Palinodia paiono allo Straccali da fermare tra l'autunno del 1833 e l'estate del '35 e forse anche nell'inverno '34-35. Troppo scettico è il Cesareo (p. 206) che non dà il debito valore al fatto che le tre poesie furon pubblicate primamente nell'ed. napol . del '35, contentandosi della facile osservazione che quella Sopra il ritratto, ecc. (sfido ! ) non è posteriore al '35 stesso ; ma riporta invece e francamente al '35 la Palinodia (3); ― - (1) 11 Castagnola corre troppo a vedere nell ' Elvira la Geltrude Cassi ; e , siccome ciò dipende dalla data che egli ferma per la poesia, mi piacerebbe vedere l'opuscolo di cui parla a p. iv. Lo Straccali mi par pienamente da seguire , così nelle riserve che fa intorno alla donna raffigurata sotto il nome d'Elvira, come nelle osservazioni intorno alle pretese fonti del Consalvo. (2) In quanto alla dibattuta questione dell'allegoria o no della Donna e del suo significato , ricordo che le principali interpretazioni furono tre : quelle che intesero o la donna ideale o la felicità o la libertà. La prima seguirono il De Sanctis, lo Zumbini, lo Zanella, il Bonghi, il Sesler, il Borgognoni , il Colagrosso ; la seconda il Mestica ; la terza il Ranieri , il Giordani , lo Zerbini specialmente. Lo Straccali sorvola forse un po' troppo sulla questione, la quale credo anch'io risoluta in favore dell ' idealità femminile. Importante l'osservazione del Cesareo (p. 213). (3) Vedi il cit. art. del DELLA GIOVANNA , il quale s'unisce compiutamente alle conchiusioni dello Straccali. Il Cesareo ( p. 122) non avrebbe dovuto dire che il Leopardi nella Palinodia mette in canzonatura propriamente Gino Capponi , cui la puntura arriva piuttosto in modo indiretto . Vedi la bella nota dello Stracoali, a suo luogo. 432 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA — ed io consento con lui, in questo. Sono postume Il tramonto della luna e La Ginestra: la testimonianza del Ranieri c'informa che furono scritti nel 1836. Lo Straccali pesa giustamente le parole del Ranieri e s'astiene dal concludere come fa il Cesareo (pp. 207, 122) che i due canti vadan posti nell'autunno (1) . L'Imitazione e gli altri ultimi tre canti, dell'ed. Straccali, non hanno data sicura. Nonostante, il primo, che è traduzione come tutti sanno (non trovo detto che è proprio in egual numero di versi) d'una favola dell'Arnault, ha tutti i caratteri, confermati anche da indizî di fatto (Cesareo, p. 209) d'un lavoro giovanile, come forse lo Scherzo. Le due traduzioni dal greco di Simonide (dopo le osservazioni del Pieretti, dello Straccali e del Cesareo, p. 209), a malgrado della loro forma metrica, si posson riportare con buone ragioni al 1823 o al '24. Non occorre qui ragionare degli altri versi non approvati poi dall'autore, de' quali pure tocca il Cesareo (pp. 209 e segg.). Per meglio assicurare e dimostrare i risultati , che mi è parso poter dedurre da' più recenti studi intorno alla cronologia dei Canti, faccio seguire un compendioso prospetto che ne indichi anche il tempo della pubblicazione e il luogo della composi zione e il non trascurabile ordine voluto dall'autore. Titolo del Canto Data della composizione Ordine voluto dal Leopardi Data dell'edizione Luogo della composizione 1. Framm. Spento il diurno raggio ecc. 1816 XXXIX Ed. nap. 1835. Recanati 2. Il primo amore. 1817 X Ed. bol. 1826 3. Framm. Io qui 1817 XXXVIII vagando ecc. 4. Il passero solitario. aprile 1818 XI Ed. nap. 1835 5. All'Italia. autunno 1818? I Roma 1818 (2) 6. Sopra il mon. II di Dante. 7. Imitazione. 1818? XXXV Ed. nap. 1835 8. Scherzo. 1818? XXXVI 9. L'infinito. 1819 XII Nuovo Ricoglitore dic. 1825 10. Alla luna XIV Nuovo Ric. genn. '26 (La ricordanza). 11. Framm. Odi Melissso ecc. (Lo spavento notturno). XXXVII (1) Non è molto chiara per me la nota finale del Castagnola (p. 807) in quel raffronto con altre poesie leopardiane. (2) Furono pubblicate cioè divulgate solo nel 1819 (Lett. del Leopardi al Giordani del 18 genn. 1819). RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 433 Titolo del Canto Data della composizione Ordine voluto dal Leopardi Data dell'edizione Luogo della composizione 12. 14. Il sogno. 13. La vita solitaria. La sera del dì di festa. 1819 XV Notizie teatrali ecc. Bologna 13 ag. 1825 Recanati XVI Nuovo Ric. genn. '26 XIII Nuovo Ricoglitore 15. Ad Angelo Mai. Primidel 1820 III dic. 1825 Bologna 1820 16. Consalvo. 1821 XVII Ed. nap. 1835 17. Nelle nozze della sorella Paolina. Fine estate IV Ed. bol. 1824 >> autunno 1821 18. A un vincitore nel pallone. Nov.-dic. 1822 V > Roma 19. Bruto minore. Av.il5 dic. '23 VI Roma? 20. Alla primavera. » VII » » 21. Ultimo canto di Saffo. » IX 22. Innoaipatriarchi. VIII » 23. Alla sua donna. » XVIII » 24. Framm. dal greco di Simonide : 1823 ? XL Ogni mondano. Gior. delle dame 1827 RomaRecanati? 25. Framm. id.: Umana 1823? XLI cosa ecc. Ed. nap. 1835 26. Al conte Carlo Pepoli. Av. il lunedì di Pasqua 1826 XIX Ed. bol. 1826 Bologna 27. Risorgimento. 13 ap. 1828 XX Ed. fior. 1831 Pisa 28. A Silvia. 20 ap. 1828 XXI » 29. Le ricordanze. 26 agosto 12 sett. 1829 XXII Recanati 30. La quiete 17.20 sett. '29 XXIV dopo la tempesta. 31. Il sabato del villaggio. 29 sett. 1829 XXV 32. Canto notturno 22 ott. 1829 d'un pastore ecc. 9 ap. 1830 XXIII 434 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Titolo del Canto Data Ordine voluto della composizione dal Leopardi Data dell'edizione Luogo della composizione 33. Il Pensiero dominante. · Primavera 1831 XXVI Ed. nap. 1835 Firenze 34. Amore e morte. Estate 1832 XXVII Primi del- 35. A sè stesso. XXVIII l'estate 1833 36. Aspasia . 1834 XXIX Napoli 37. Sopra un Autunno 1833 XXX basso rilievo ecc. Estate 1835 38. Sopra il ritratto XXXI d'una belladonna. 39. Palinodia. 1835 XXXII 40. Il tramonto Postumo 1836 Ed. fior. 1845 della luna. XXXIII Postumo 41. La Ginestra. XXXIV ORAZIO BACCI. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO CHARLES JORET. La Rose dans l'antiquité et au moyen âge; histoire, légende et symbolisme. - Paris, Bouillon, 1892 (8° picc., x-483). Il prof. C. Joret, noto soprattutto ai romanisti pe'suoi lavori intorno alla dialettologia della Francia, in questo dotto e piacevole volume ci offre, com'egli si esprime nella prefazione, un capitolo di plantlore, il quale non è se non un complemento all'articolo sulla Légende de la rose au moyen âge chez les nations romanes et germaniques, ch'ei pubblicò nel 1891 per festeggiare il 25° anniversario del dottorato di G. Paris , ed un frammento di un'opera di lunga lena sulla storia del mondo vegetale , a cui egli lavora da lungo tempo. L'argomento che il Joret prese a trattare non si può certo dir nuovo; basta dar uno sguardo alla bibliografia che va unita al volume per persuadersi che esso fu di proposito studiato da molti e sotto aspetti molteplici. Tuttavia lo scopo che l'autore si propose è in parte diverso da quello de' suoi predecessori, poichè l'intento suo è di occuparsi in modo speciale della storia poetica e leggendaria della rosa nell'antichità e nel medio evo. Vero è che il Loiseleur Deslongchamps (1) si era proposto in parte il medesimo fine ; ma egli tralasciò di studiare le tradizioni che intorno alla rosa vissero fra i popoli germanici, e di quelle che fra i popoli latini solo incompletamente discorse , trascurando tutto ciò che sull'argomento avevano scritto i poeti medievali francesi o stranieri . Però a siffatte leggende e tradizioni consacrò una parte del suo libro I. Schleiden (2) ; ma anch'egli molto dimenticò ed omise, di guisa che l'opera del nostro autore forma un utilissimo comple mento a quelle di questi due eruditi ; di più , sebbene i limiti siano più ristretti, il soggetto vi è più profondamente e con maggiore ampiezza studiato, in ispecie per quel che riguarda le tradizioni che sulla rosa ci tramandarono i popoli neo-latini. L'opera così concepita e condotta a termine con molta dottrina e diligenza, può servire tanto alla storia letteraria quanto a quella (1) La rose, son histoire, sa culture, sa poésie, Paris, 1844, in-120. (2) Die Rose. Geschichte und Symbolik in ethnographischer und kulturhistorischer Beziehung, Leipzig, 1878, in-80. 436 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO dei costumi, e spiegarci fenomeni che solo dall'influenza reciproca dell'una sull'altra traggono lume ed origine. Il libro si divide in due parti ; nella prima si studia la rosa nell'antichità, nella seconda la rosa nel medio evo, e sì dell'una come dell'altra io darò un resoconto per quanto mi sarà possibile fedele , per essere l'una legata all'altra da rapporti spesso genetici e indissolubili. Parte I. - Capo I. Specie di rose note agli antichi. -Molta incertezza regna intorno alle specie di rose che gli antichi conobbero ; poche dovettero essere loro note , sebbene non siano d'accordo i naturalisti sulla qualità loro. Sappiamo però che la rosa di Damasco fu nota in occidente e che in Grecia si coltivò la centifolia. Ma donde venne essa in questo paese? Non dagli Egiziani, non dagli Ebrei, non dagli Assiri ; i Veda non conoscono la rosa, il cui nome manca perfino al sanscrito : l'Hindoustan non è dunque la patria della rosa coltivata dagli antichi ; esso possedette solo la rosa sempervivens e la r. involucrata. Il primo ricordo di questo fiore occorre nei più antichi monumenti poetici della Grecia. Però il nome non è indigeno greco; la forma etolica ẞpódov si connette coll'armena vard, che suppone una forma zenda vareda, fiore, donde forse la voce greca. Tale origine ne riporta all'altopiano dell'Iran ; e appunto nel Caucaso orientale e nel Khourdistan fu trovata allo stato spontaneo la rosa dalle cento foglie, mentre nelle regioni occidentali dell'Iran essa raggiunge le dimensioni più notevoli ; questa fu senza dubbio la sua culla , e di qui penetrò, attraverso l'Asia Minore , in Grecia, e, attraverso la Mesopotamia, in Siria e in Palestina. Essa fu nota anche ai Romani che la coltivarono insieme colla rosa gallica (la rosa di Provins). Capo II. Coltivazione della rosa nell'antichità. - Dall'Asia Minore e dalla Grecia la rosa penetrò in Sicilia, poi nell'Italia meridionale ; e, d'altro canto, nella Cirenaica , donde probabilmente in Egitto. Essa prosperò soprattutto nell'Italia meridionale: dalla Magna Grecia passò nella Campania e nel Lazio. Gli scrittori latini fanno testimonianza dei progressi che questo fiore fece nel corso del tempo e insegnano i varî modi da seguirsi nel coltivarlo. Capo III. La rosa nella leggenda e nella poesia dei Greci e dei Romani. Parecchie origini mitiche furono attribuite sia alla rosa, come ai diversi colori di cui è adorna. Essa si considerava come appartenente soprattutto agli Dei; col mirto divenne l'attributo di Afrodite , che è rappresentata sovente con ghirlande di rose. Ma anche ad altri Dei fu consacrato questo fiore: al dio d'Amore, a Dionysos, alle Grazie, alle Muse, ad Ebe e Ganimede. Grande importanza aveva esso nelle feste di Flora per essere l'emblema della stagione dei fiori : note sono le feste di rose a Capua e a Roma nel mese di maggio. La rosa non è mai dimenticata nelle descrizioni che i poeti lasciarono della primavera; essa è detta la regina dei fiori , il simbolo e l'emblema della bellezza , della fugacità sua , della fragilità delle cose del mondo , dell'innocenza e del pudore delle vergini. I poeti greci e latini accoppiano nei loro canti alla rosa il giglio ; nel candore di questo essi vedono l'immagine della purezza immacolata della fanciulla , nel roseo di quella l'incarnato delle guancie e il rossore prodotto dal pudore offeso. E come l'idea della grazia e della fragilità unita alla rosa ne aveva fatto BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 437 l'emblema della innocenza verginale , così quella della bellezza trasse a paragonarla alla donna amata. Però i poeti dell'antichità non arrivarono come quelli del medio evo al punto di personificare nella rosa la donna del loro cuore, sebbene si rinvenga nella lingua popolare qualche traccia di ciò : « la « mia rosa » fu detto da Plauto per designare una persona cara. Ma ciò non toglie che gli antichi non abbiano fatto del nostro fiore l'emblema dell'amore e l'attributo delle sue divinità , Imeneo , Venere , ecc. Consacrata a Bacco, la rosa fu simbolo della gioia dei banchetti, dell'allegrezza, del piacere e poscia della mollezza. Ma ciò nullameno le resta un significato simbolico nobile e grave ; essa è simbolo del merito e dell'eccellenza degli uomini ; ai vincitori nelle gare poetiche e nelle lotte guerresche essa è data in premio. E l'usanza di fiori sulle tombe dei morti fece della rosa, insieme colle viole e il giglio, un emblema funebre. Il colore mette la rosa in rapporto coll'aurora ; di color roseo è anche il fuoco che esce dalle narici dei cavalli del sole ; rosea è la stella di Venere , rosei gli astri , rosee le parti del corpo umano e specialmente quelle del viso. — Gli antichi contrassero l'abitudine di vivere circondati di rose ; donde la frase : « vivere sulle rose » , voleva dire : « viver felice >> . - - Capo IV. Usi della rosa presso i Greci ed i Romani. La rosa era per gli antichi una compagna indivisibile ; l'uso di corone di rose era costante nelle cerimonie religiose e profane , nei banchetti e nei funerali ; di esse si adornano gli uomini e le statue degli Dei ; a Roma le prime rose della primavera si offrono a Venere, e superbe ne vanno Flora durante le sue feste e i lari domestici nel segreto delle case. Anche il giorno delle nozze è festeggiato con questo fiore, che è emblema dell'amore, testimonio e pegno di tenerezza e di affezione. Di esso si sparge la soglia della casa della donna amata, si ornano le stoviglie, si spargono le sale e le tavole. Degli effeminati è costume in Grecia e in Roma il vivere fra le rose , soprattutto al tempo dell'impero , come prova l'esempio di Eliogabalo , che ne voleva sparso ogni luogo pel quale passava , le mense ed il letto. Le invasioni barbariche e il cristianesimo porranno un argine a questo abuso, ma ciò nullameno la rosa continuerà ad essere una ricompensa pei vivi ed un onore pei morti ; ai vincitori del ditirambo nelle feste primaverili di Bacco si darà in premio una corona di rose, la quale cingerà pure la fronte dei soldati vittoriosi reduci dalla battaglia, e ornerà la poppa delle navi felicemente scampate dai pericoli di un lungo viaggio ; dei morti le rose legate in ghirlanda orneranno le tombe, soprattutto durante le feste dei Parentalia, e fra la gioia e i rumori dei banchetti si penserà a regalare i vivi e i trapassati di questo fiore ; sui cippi marmorei sarà scolpita una preghiera al passeggiero di sparger di rose la fossa del defunto. Nelle rappresentazioni dell'arte troviamo spesso raffigurata la rosa, sia nei monumenti delle divinità cui era sacra, come nelle decorazioni dei palazzi e delle case private, nelle dipinture dei giardini, sulle monete. Essa occorre anche nell' onomastica ; luoghi e persone si chiamano da essa in Grecia, ma più di rado presso i Romani : i nomi di Rosa e Rosalia si leggono solo in monumenti cristiani. - - Capo V. La rosa nell'antico oriente. - La rosa fu coltivata nell'Asia Minore, in Mesopotamia, in Persia, in Siria ed in Egitto, e nell'Iran. Essa era, 438 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO - prima dell'êra nostra, un oggetto di lusso e di ornamento presso i Medo-Persiani : Ateneo narra che Cleopatra per ricevere degnamente Antonio comprò per circa sei mila lire di rose per ornarne il proprio palazzo. Capo VI. La rosa nella farmaceutica. Credevasi dagli antichi che la rosa combattesse l'ubbriachezza e i dolori di capo. Ippocrate la prescrive per molte malattie , seguìto in ciò da Plinio e Dioscoride. Omero fa menzione dell'olio di rose, a cui si univano l'aceto, il mele e il vino rosato. La rosa serviva anche come cosmetico e nella cucina. Ma per il carattere suo proprio, che è la caducità, era presagio funesto per un malato il sognare corone di rosé. Parte II. - Capo I. Coltivazione della rosa nell'oriente e nell'occidente. Il cristianesimo e le invasioni barbariche portarono un colpo mortale alla rosa. Pel cristianesimo essa era associata alle pratiche di un culto proscritto e ai piaceri colpevoli di una vita condannata dai nuovi credenti . Durante le invasioni la sua coltivazione decade in Europa, ma si estende in Asia, che ne conosce specie diverse. In Europa , fra i popoli cristiani fu chi la suppose ignota almeno fin verso la fine del medio evo, ma questo è inverosimile, poichè gli stessi ordini religiosi contribuirono alla sua , diffusione, coltivandola nei giardini dei monasteri per ornarne gli altari. Di fatto noi vediamo la rosa diffondersi nell'occidente e nel settentrione d'Europa; essa ornerà a poco a poco i giardini dei grandi, dei principi e dei re : Carlomagno ama il giglio e la rosa centifoglia. Ed anche nel medio evo deve trattarsi spesso della rosa domestica e non della campestre, poichè tutti gli autori medievali che s'occuparono di orticoltura discorrono del giglio e della rosa. Alberto Magno dà il modello di un giardino e parla delle rose a' suoi tempi coltivate, e delle varie specie di rose campestri a lui note ; ma le testimonianze di altri scrittori non, lasciano dubbî sull'esistenza della rosa doppia nel medio evo ; anzi sembra che dal sec. XIII in poi la sua coltivazione abbia preso una estensione considerevole in tutta l'Europa romana e germanica. Difficile però è il dire quali furono nel medio evo i centri principali di questa coltivazione : certo si è che fra i più celebri dobbiamo annoverare Provins e poscia Parigi. Un uso che diventò diffusissimo fu quello dei chapeaux di rose, a cui i poeti dei secoli XIII, XIV e XV fanno allusioni frequenti, mostrando con ciò che questo fiore era generalmente coltivato in Francia alla fine del medio evo. La rosa occupa una parte notevole anche nella poesia tedesca e neerlandese; in Inghilterra erano frequenti giardini con rose; fra i popoli scandinavi fu questo fiore importato forse dagli ordini religiosi, ma non si può dire in qual tempo; presso i popoli slavi certo dopo la loro conversione al cristianesimo, ma anche qui la data precisa è ignota. - - Capo II. La rosa nelle leggende e nella poesia dell'oriente durante il medio evo. La rosa e l'usignuolo. Alcuni popoli orientali ebbero per la rosa una profonda venerazione ; per i Maomettani essa era nata dal sudore medesimo di Maometto ; in Persia era segno della castità conservata, simbolo della costanza in amore , emblema dell'affetto conservato anche nella morte; dal secolo XI al XV la poesia persiana canta le lodi di questo fiore, il quale ha una parte pure notevole nella poesia araba e ancor più nell'ottomana. Ma i poeti della Persia non si sono limitati a cantare nella rosa la BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 439 - regina dei fiori , a farne, come i loro precursori di Grecia e di Roma, il simbolo della bellezza e della grazia; essi le hanno data una vita reale e le hanno posto accanto l'usignuolo come suo ammiratore ed amico: la rosa è la regina della bellezza nell'impero dei fiori , l'usignuolo il re degli uccelli cantori ; ambedue i compagni inseparabili della primavera, la stagione della giovinezza e della gioia. Là dove la rosa fiorisce , quivi scioglie l'usignuolo il suo canto ; egli narra a lei i suoi amori, ed ella noncurante della vita non si commove ai lamenti del compagno fedele. Ma, secondo Firdusi , al canto dell'usignuolo la rosa risponde sospirando ; Anszari paragona i ritrovi degli amanti a quelli di questi due esseri ; Ferid-eddin-Attar e Hafiz rappresentano l'usignuolo perdutamente innamorato della rosa, volendo sotto tal velo nascondere i proprî amori. Gli Arabi conquistatori dell'Iran attinsero parecchio alla poesia persiana , seguìti in ciò più tardi dagli ottomani che diedero agli amori della rosa coll'usignuolo le dimensioni dell'epopea. Capo III. La rosa nelle leggende cristiane. I primi dottori della Chiesa la proscrivono come la compagna del lusso e della crapula ; ma essa è presto riabilitata. Nelle descrizioni del Paradiso terrestre non manca quasi mai, e S. Basilio e S. Ambrogio suppongono che essa colà non avesse spine, spuntate solo dopo il peccato di Adamo ed Eva. Le rose furono collocate nel soggiorno dei beati; in alcune leggende i martiri riposano all'ombra di un rosaio e le vergini vanno cogliendo rose e viole per diletto. La rosa è da scrittori mistici del medio evo considerata come il premio di ogni nobile e bella azione , l'emblema di ciò che v'era di più augusto e di più venerato nelle credenze cristiane ; sì che essa divenne il simbolo e l'attributo di Cristo e della Vergine. Dio accorderà una ghirlanda di rose vermiglie ai martiri della fede ; questo fiore, emblema del pudore , come il giglio della purezza, diventa simbolo del martirio. Immagine del sangue o sangue stesso del Signore , ha ricevuto il colore che le è proprio alla morte di Cristo, le cui cinque piaghe rassomigliavano a rose vermiglie , anzi la rosa è l'immagine stessa di Cristo nella passione. Più frequente è il paragone della Vergine al nostro fiore. Quando Maria si manifesta agli uomini , le rose spuntano sotto a' suoi piedi ; ella se ne adorna volentieri ; salendo al cielo ella ne lascia pieno il sepolcro ; anzi è ella stessa una rosa bianca per la sua verginità, vermiglia per la sua carità. E i poeti religiosi abuseranno di questa similitudine; per essi la Vergine è rosa di pazienza, rosa senza spine, rosa mistica, come in coro ripetono anche i poeti provenzali e francesi, tedeschi, spagnuoli ed italiani ; per Dante, Maria è « La rosa in che ' l Verbo Dio carne << si fece >>. Il nostro fiore prese una parte notevole per essere il simbolo della castità, non solo nelle leggende della Vergine, ma anche nelle Vite dei Santi e nelle leggende cristiane in generale. ― - Capo IV. La rosa nelle leggende profane e nella poesia. -La rosa domestica è ignota alla poesia epica francese : le assemblee solevano tenersi in un « vergier », ma all'ombra di alberi di varie specie ; tutt'al più possiamo incontrare il rosaio campestre. Lo stesso si dica della poesia lirica dei primi tempi del medio evo; ma ben presto tutto cambia: la vita dei castelli , il lusso trasformano i paesaggi poetici. Il « vergier » delle antiche epopee non conosceva che alberi e fiori di campo ; il posteriore giardino racchiude anche 440 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO - la rosa, che occupa un posto d'onore nei molti rosai del giardino di Guillaume de Lorris . Lo stesso accadde in Germania, che creò la leggenda del Rosengarten di Worms. Pei poeti neo-latini e germanici, carattere cospicuo della rosa è la grazia , che talvolta è cantata insieme colla fragilità sua. La rosa fiorisce in primavera ; e perciò il suo sbocciare invita al canto e ricorda l'amica lontana all'amante o invita all'abbandono alle gioie della vita. Essa è emblema dell'amore, e come tale occupa un posto cospicuo nei giardini d'Amore ; Guillaume de Lorris fa che i personaggi principali della corte del dio ne portino in capo una corona. L'innamorato deve por- tare una ghirlanda di rose ; essa è dono sacro per lui. La rosa che non può schiudersi significa amore respinto; se si sfoglia annunzia abbandono; due foglie galleggianti di un petalo lanciato nell'acqua e tre rose su di uno stelo predicono un prossimo matrimonio. Gli amanti si lanciano rose in segno di affetto , si attendono fra i rosai : credono il fiore filtro amoroso e perciò riesce loro dono gradito ; e il fiore dal canto suo gioisce alla letizia loro. In alcune regioni , come ancor oggi , l'amante appendeva il primo giorno di maggio alla porta dell' amica una rosa ; che era anche data come insegna di un ordine suppostosi stabilito da Amore, e che serviva a riunire amanti separati, a designare lo sposo scelto dalla sorte, o a rivelare la presenza di un amico nascosto o travestito. - Come nella poesia orientale, anche nell'occidentale la rosa divenne l'emblema e la personificazione dell'essere amato: così nel poemetto Phyllis et Flora, nel Dit de la Rose, nel Roman de la Rose, così nei poeti tedeschi, neerlandesi, scandinavi, slavi ed ungheresi (1). Ma al contrario di quello che vedemmo in Persia, sebbene l'usignuolo abbia una parte notevole nella poesia amorosa medievale , questa tuttavia nulla sa degli amori di lui con la rosa ; però nell' Europa orientale essi son di nuovo cantati dai poeti serbi e greci. Nel medio evo la rosa fu pure simbolo di pudicizia e di castità non solo , ma anche presagio funesto ed emblema funebre, quando fioriva d'autunno o d'inverno, o quando di primavera sboc ciava precocemente. Le rose erano sparse sulle tombe dei morti ; quelle che nascevano sui sepolcri erano da alcuni considerate come un'incarnazione dell'anima stessa dei defunti ; i quali, secondo altri, comunicavano i loro sentimenti ai fiori ed alle piante destinate ad onorarli ; soprattutto sulla tomba degli amanti infelici si credeva nascesse spontaneamente la rosa : della quale si narra in moltissime leggende la nascita miracolosa. Un attributo ignoto agli antichi e dato alla rosa verso la fine del medio evo, specialmente in Germania e in Inghilterra, si fu quello di dirla simbolo del segreto consegnato agli amici. Le similitudini prese alla rosa ed alle sue spine sono numerosissime nei poeti medievali d'ogni paese; Dante paragona i beati ad una << rosa sempiterna, Che si dilata, digrada ecc. » Parad., XXX, 126. Capo V. La rosa negli usi della vita, nel culto e nell'arte. entra nei templi ed ha posto sugli altari cristiani ; nel cerimoniale del culto - - - La rosa (1) Qui possono ricordarsi anche i contrasti fra la rosa e la viola che il medio evo ci ha tramandati. Vedi in proposito L. BIADENE, Contrasto della rosa e della viola, Pisa , Mariotti , 1892 (per nozze Salvioni-Taveggia) , poemetto latino inedito , di recente ristampato con parecchie cor- rezioni da A. TOBLER, in Archiv für das Studium der neueren Sprachen, vol . XC, pp. 153 sgg. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 441 - - - i fiori vengono ad occupare a poco a poco un posto cospicuo. In certi giorni festivi si fanno pioggie di rose, le quali fanno dare alla Pentecoste il nome di Pasqua di rose , domenica delle rose. Questo fiore orna i monumenti funebri , le strade e le piazze nelle occasioni solenni, i pavimenti delle case, i muri, le pareti e le mense ; soprattutto durante le feste nuziali . Di ghirlande di rose si ornavano il capo le donne , in ispecie se nubili , nè le disprezzavano gli uomini nelle feste e in certe occasioni, come quelle che erano un ornamento degli amanti. Corone di rose si davano in premio nei giuochi popolari, nei concorsi per canto e danza, e nei tornei . Esse erano considerate anche come segno di sottomissione, di omaggio di un inferiore al superiore. Enumerare tutti gli usi che delle rose si fecero nel medio evo sarebbe troppo lungo ; esse erano , ad es. , offerte dai duchi ai membri del Parlamento di Parigi nei mesi di aprile, maggio e giugno ; erano distribuite ai presidenti e ai consiglieri della Corte del Parlamento la vigilia della Pentecoste o per la scarcerazione dei prigionieri. Le rose ornavano tombe, vasi, mosaici, stoffe, fregi architettonici , ori e argenti , scolture in avorio e in legno, lavori in ferro, miniature, pitture, tappezzerie, vetrerie, monete e stemmi, non di rado con significato allegorico. La rosa occorre nell'onomastica di tutte le nazioni moderne ; raccolte storiche e scientifiche si intitolano dalla Rosa (anglica , gallica , libri di medicina ; ursina , trattato di astronomia, ecc. ). - - Capo VI. La rosa nella farmaceutica, nella cucina e nella « toilette » . Da tutti i naturalisti cristiani od arabi si ricordano le virtù medicinali della rosa ; essa accresce efficacia ai medicamenti, quando non abbia potenza addirittura meravigliosa e soprannaturale. L'acqua di rose , adoperata anche in oriente, era usitatissima nel medio evo, il quale se ne serviva fra l'altro per arrostire la selvaggina od altro. — Da non dimenticare però si è che in mezzo a tanto entusiasmo non mancarono coloro che nutrirono sentimenti di antipatia pel nostro fiore e il suo profumo. Fra gli altri, il cardinale Oliviero Caraffa lasciava Roma nella stagione in cui esso appare e il doge Francesco Venerio prima di entrar in chiesa ne faceva togliere tutte le ghirlande di rose. - Questo il contenuto della bell'opera del Joret. Chi mi avrà seguìto, si sarà facilmente persuaso come la sua lettura sia utilissima a chi ami conoscere la vita medievale in tutte le sue manifestazioni e ne' suoi rapporti colla letteratura e vorrà con noi esprimere il voto che l'egregio autore non tardi troppo a far di pubblica ragione quello che ancora ci annunzia e che non sarà certo inferiore al saggio che ora abbiamo dinanzi. - E. G. GIUSEPPE COZZA-LUZI. Sul codice del breviario di Francesco Petrarca acquistato da S. S. Leone XIII alla Biblioteca Vaticana. — s. n. tip. , ma Roma, 1893 (4°, pp. 19). Non è alcuno fra i molti studiosi del Petrarca che non ricordi il passo del suo testamento - dalla cui prosa secca e pedestre , di tra le formule 442 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO - " notarili , sembra spirare di quando in quando come un alito di commovente poesia il passo, dico, dove messer Francesco dichiara di lasciare al suo buon amico, prete Giovanni da Bocheta, custode della chiesa cattedrale di Padova, il suo breviario grande breviarium meum magnum che aveva comperato in Venezia al prezzo di 100 lire (1) . E questo libro appunto, passato di recente alla Vaticana, pensò d'illustrare l'egregio ab. sig. Cozza-Luzi, compiendo così opportunamente le notizie che alcuni anni or sono ne aveva dato il Passerini , allora bibliotecario della biblioteca Borghesiana (2). Che il breviario già Borghesiano, oggi Vaticano, sia da identificarsi con quello ricordato nel testamento del Petrarca , e non con quello più piccolo e più maneggevole che alla fine del 1350 o nel principio del 1351 il Nelli donò all'illustre suo amico , mi pare sia d'una evidenza indiscutibile ; e così parve anche all'A. , che pubblicò in nota (p. 6) il brano della lettera, allora inedita, del Nelli, comunicatagli dal De Nolhac, il quale alla sua volta ebbe ad esprimere lo stesso giudizio (3). E veramente magnum breviarium, tale da riuscire pesante e molesto , come bene pensava il Priore dei Santi Apostoli, anche al più fervente fedele, era questo volume ; un grosso membranaceo di 400 fogli , ornato di mediocri miniature , avverte nella sua chiara e compiuta descrizione l'A. Il quale giustamente accrebbe valore al suo opuscolo, dando una riproduzione fotografica d'una di quelle pagine sulle quali s'erano posati, quasi in cerca di pace, gli occhi del poeta che sul volto del suo bel Lauro , ormai divelto dal mondo , non avevano trovato che guerra. Ma nella storia di questo codice non tutto è chiaro ; di certo, sappiamo che esso rimase in Padova, conservato gelosamente dai canonici di quel capitolo almeno sino al 1574, ignoriamo però il modo e il tempo preciso del suo passaggio a Roma. Pare tuttavia che , inviato per mezzo d'un canonico padovano a Paolo V Borghese, il prezioso volume non facesse più ritorno a Padova, destinato a passar poi, nel 1891 , insieme con l'Archivio ed i manoscritti Borghese nella Biblioteca Vaticana (4) . Al cui vice-bibliotecario saranno grati (1) Tale acquisto credo debba porsi nel periodo che corre dal 1349 circa al 1351 , durante il quale il Petrarca, soggiornando a lungo in Padova, ebbe certo occasioni frequenti di recarsi a Ve- nezia. Nella città delle lagune , da lui tanto ammirata e celebrata , era già stato prima del 19 maggio 1849 , come appare dalla lettera a Luca Cristiano , scoperta e pubblicata la prima volta, dal FRACASSETTI, Epist. de reb. famil. et variae, vol . III , p. 523. (2) Nel Giornale d. eruditi e curiosi, an. III , 1885, no 74. (3) Pétrarque et l'humanisme, p. 55, n. 4. La lettera del Nelli fu pubblicata per intero dal COCHIN, Lettres de F. Nelli à Pétrarque, Paris, 1892 , pp. 200-201, col quale m'accordo nell' attribuire alla lettera la data del 1351 , invece di quella del 1853 accolta dal Cozza-Luzi e dal De Nolhac. Il felice riscontro con la XXIX delle Varie mi sembra abbastanza dimostrativo e tale da aggiungere a quest'ultima lettera una illustrazione che il Fracassetti non poteva fornire. (Cfr. la nota alla V, lib. VIII delle Lett. famil. ecc. , vol. II , p. 318) . (4) Cfr. CARINI, La biblioteca Vaticana , Roma, tip. Vaticana , 1892, pp. 158-9. L'abate Gro- VANNI ANDRÉS, che nel 1785 visitò la biblioteca Borghese, così ricorda nelle sue Cartas familiares, t. I, Madrid, 1781, p. 184, il breviario petrarchesco da lui veduto colà : « Allí se halla el bre- < viario del Petrarca, que habiendo estado desatendido 200 años, Juan Bautista Rota , Canonigo de Padua, lo conservó, y puesto en un decente estuche fué regalado á la Casa Borghese ». Ma questa notizia del gesuita spagnuolo non ha alcun valore per la storia del prezioso volume, anzi non è se non un'inesatta ed arbitraria interpretazione della epigrafe che è impressa sulla cassetta BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 443 di questo opuscolo gli studiosi , anche perchè egli colse l'occasione di dare in luce (p. 13 n. ) un atto notarile del 24 dicembre 1358, riguardante gli affari della prebenda canonicale del Petrarca ; documento doppiamente notevole, e perchè vi apparisce come testimonio il da Bocheta e perchè contiene una delle più antiche e sicure notizie che si posseggano intorno al canonicato padovano del cantore di Laura (1) . V. CI. V. CATENACCI . - L'Amorosa Visione del Boccaccio. teleone Calabro, 1892 (8°, pp. 44). - MonL'autore, dopo avere esaminato lo strano acrostico boccaccesco, e ciò che fu messo insieme sopra di esso da critici vecchi e recenti, si persuase che qualche cosa rimanesse da fare anche a lui : prima di tutto, sulle attinenze dell'Amorosa visione con la Commedia di Dante ; in secondo luogo , sulle allusioni storiche, non parendogli bastevole il commento del De Blasiis e dell'Antona-Traversi ; in terzo luogo, sopra le fonti del poemetto ; e finalmente su' rapporti di esso con i Trionfi del Petrarca. Ottimi , santi propositi ! Tali almeno sono sembrati a me; sì che mi sono messo, con il più buon volere del mondo, a leggere, ripromettendomi un vero piacere letterario. Mano mano però che andavo innanzi, venivo sempre più dubitando che il Catenacci debba essere un socialista convinto nel campo della proprietà intellettuale e il sospetto mi s'è, alla fine , mutato in certezza. L'onesto Catenacci mi fa la grazia di citare, abbastanza di frequente, qualche cosuccia mia sull'Am. Visione ; ma ci sono pur luoghi nel suo scritto, dove egli discorre per conto proprio, e risparmia al lettore la noia di rifarsi troppo spesso alle note, che stanno in fondo all'opuscolo, per venire a sapere (bel sugo! ) che quella è roba d'altri. Non si può mica pretendere che i lettori della nostra prosa erudita abbiano proprio quella stessa benedetta pazienza, che dobbiamo aver noi per ammannirla ! Ecco un saggio della disinvoltura del nostro Catenacci : di custodia e che fu riprodotta anche dal Cozza- Luzi ( p. 14) . « Inesatta od arbitraria interpre- <<< tazione », perchè dalle parole dell'Andrés apparirebbe che la cassetta di custodia fosse fatta costruire nel 1574 dal canonico Rota per offrire il codice ad un papa Borghese, mentre si sa che in quell'anno non sedeva sul trono pontificio alcuno di quella famiglia e che Paolo V non fu eletto al pontificato prima del 1605. Non credo che tale interpretazione fosse suggerita al visitatore spagnuolo dall'ab. Parisi, allora bibliotecario borghesiano e certo meritevole delle lodi che gli fece l'Andrés. (1) Dico una delle più antiche notizie, e non la più antica, come afferma il canonico Grinzato in una sua comunicazione all'A. pubblicata nella stessa nota a p. 13. Infatti dalla lettera testè citata, che il Petrarca indirizzò a Luca Cristiano , apparisce che egli aveva ottenuto da Jacopo, signor di Carrara, il canonicato padovano nella primavera di quell'anno 1849 e che ne aveva preso solennemente possesso « plaudente tutta la chiesa di Padova, il sabato dopo Pasqua ». E giacohè siamo a Padova, ricorderò che del breviario fece parola anche lo ZARDO nel pregevole studio N Petrarca e i Carraresi, Milano, Hoepli, 1887, p. 74. 444 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Pag. 22. la scena crudamente realista che ha luogo in quel recesso ombrato , ove Fiammetta e il poeta si sviano dalla faticosa strada, per cui si fugge al cielo da questa terra condannata come frode e peccato, da' laboriosi simboli traspor- tandoci nelle eterne correnti della vita, ci annunzia il nascere dell'Umanesimo. V. CRESCINI, La Lucia dell'Am. Vis. , pp. 61- 62 de' Due Studi riguard. opere minori det Bocc. , estr. dalla Rio. Europea , XXVII , 5, 1 marzo 1882 : ... in quel recesso ombrato, ove ella (Fiam metta) ed il poeta si sviano dalla faticosa strada per cui si fugge al cielo da questa terra condannata come frode e peccato , si rientra da' laboriosi simboli nelle eterne correnti della vita, e s'annuncia in quella scena crudamente realista e degna del Decameron la rinascita del- l'umanesimo. Ma tutto non è qui. In fondo, sarebbero bagattelle : gli è che i giuochi di prestigio del bravo Catenacci riescono altrove anche più franchi e dilettevoli. S'è detto come a lui non bastassero le illustrazioni storiche del poema boccaccesco messe insieme dal De Blasiis e dall'Antona-Traversi negli Studi di Filologia Romanza, fasc. 3. Ecco, a me pure parve che quelle illustrazioni, del resto assai utili e dotte, volessero qualche correzione e qualche aggiunta ; e infatti, comparso appena lo studio de' due egregi , vi lavorai un poco intorno, e me ne venne un articolo. Ma quella cosa mia fu sepolta nella Rivista critica della letteratura italiana, anno III , n. 1 , coll. 16-19. Ora, il Catenacci, esperto aritmetico e fino logico, fece un po' di conto e ragionò in questa guisa : dal 1886, chè appunto allora uscì la mia recensione, al 1892 passarono sei buoni anni : gli uomini han la memoria corta, pochi s'occupan di così fatte miserie..... chi ricorderà o saprà che sieno mai venute al mondo coteste note critiche del Crescini!.... È quasi certo che non se ne rammenta neppur lui ! Dunque, mettiamocele in saccoccia, e, al momento buono, tiriamole fuori, come moneta nostra. Detto, fatto. Pag. 27. Cap. XLIII , terz. 8 e segg. Tra l'altre che io prima conoscei Fu quella ninfa sicula ecc. ecc. Vuole il Traversi che qui s'accenni a Eleonora d'Aragona moglie di Giovanni Chiaramonte, il quale fu fatto prigioniero nella battaglia na- vale combattuta presso Lipari . Però qui il poeta pare che parli della donna di uno che, insieme a Giovanni Chiaramonte , fu fatto prigioniere, e propriamente (cfr. BUONFIGLIO, Storia di Sicilia, lib. X, pp. 344-5 , e non lib. III , come, per svista, cita il Traversi) di uno che offeso Col bianco monte ecc. , cioè di Orlando di Aragona , fratello naturale del re di Sicilia, il quale nella battaglia di Lipari fu fatto prigioniero col Chiaramonte. Allora la sposa dolente di non riavere il prigio- niero sarebbe Camiola Turenga, il marito della quale (lo narra il Boccaccio nel libro delle Donne Illustri, p. 375) stette in carcere più degli altri Riv. crit. cit., col. 17, n. 1. ... Anzi che a Giovanni di Chiaramonte non potrebbe questo luogo alludere ad Orlando d'Ara- gona? Notisi che il poeta dice : ' ond' elli offeso Col bianco monte nel campo vermiglio Ne fu menato, ove ancora è difeso . Col non indicherebbe compagnia , e compagnia di tale che ha per arme un monte bianco in campo rosso ? Orlando fu preso infatti insieme a Gio- vanni di Chiaramonte : vedi BUONFIGLIO , Op. e luogo cit. (ed è proprio il luogo, da me corretto al Traversi, ib. , col. 16, n. 1, mentre il C. lo spaccia, tranquillo, come correzione sua), e BooCACCIO , Delle donne famose, trad. di Donato degli Albanzani, ediz. Manzoni, p. 875. Allora la sposa dolente di non poter riavere il prigio- niero sarebbe Camiola Turinga. S'avverta ( e lo narra il Boccaccio, 1. cit. ), che Orlando stette prigione più lungamente degli altri pigliati a Lipari. Veramente d'un viaggio di Camiola a Napoli, di opposizioni fatte da re Roberto a ri- BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 445 presi a Lipari. Vero è che nulla si sa di un viaggio di Camiola a Napoli , ma è pur vero, che il poeta non indica soltanto donne da lui conosciute a Napoli , e basta rammentare che egli colloca in questi gruppi di bellezze anche la Lia fiorentina, e che si compiace di adunare insieme, idealmente congiungendole, donne fa- mose, non tutte unite da intimi rapporti. Pag. 29. Cap. XLIV, terz . 5 e segg. Ell' è colei ecc. Qui il Boccaccio allude, come rilevò prima il Manni, ad Alianora Gianfigliazzi , sposa di Pacino Peruzzi. Il Traversi vorrebbe invece ravvisarvi una Caracciolo, e propriamente una donna del ramo dei Caracciolo Pisquisi ; ma, ritrovandola sposa di tale che ha per arma la pera d'oro in campo azzurro, si domanda se questa era l'arma dei Peruzzi fiorentini, confessando però di non trovar notizia d'una Caracciolo entrata in quella famiglia. Il Baldelli rilevando il duplice accenno alla Gianfigliazzi nell ' Ameto e nella Visione Amorosa, ne concluse che coteste opere mostrano d'essere state scritte quasi contemporaneamente. lasciarle Orlando, nulla si sa. Quanto al primo ostacolo, sarebbe da notare che il poeta non indica soltanto donne conosciute da lui a Napoli : basta rammentare ch'egli colloca in questi gruppi di bellezze anche la Lia fiorentina, e che si piace di adunare insieme, idealmente collegandole , donne famose , non tutte unite da intimi rapporti (1). ... ... Riv. , ib. , col. 17. Nelle terzine, cui si riferiscono queste note, il Boccaccio allude, come rilevò primo il Manni ad Alianora Gianfigliazzi sposa di Pacino Peruzzi. Il Traversi vorrebbe invece ravvisare in quel passo una Caracciola, e propriamente una donna del ramo dei Caracciolo Pisquisi ; ma trovandola sposa di tale che ha per arme la pera d'oro in campo azzurro, e' si domanda se questa era l'arme de' Peruzzi fiorentini, confessando però di non trovar notizia d'una Caracciola entrata in quella famiglia ( 2) . Il Baldelli... rilevando il duplice accenno alla Gianfigliazzi nell'Ameto e nell'Amorosa Visione, ne concluse che codeste opere mostran di essere state scritte quasi contemporaneamente.... E bastino questi saggi. In proprio al C. parrebbe che dovessero rimanere le osservazioni, più specialmente, e i raffronti, per cui l'allegoria boccaccesca viene raccostata alla Commedia di Dante e ad altre opere, massime alle Metamorfosi ed alle Eroidi ovidiane. Parrebbe sua dunque, in parte almeno, la ricerca delle fonti. Ma non si tratta, d'altro canto, se non di avvicinamenti e paragoni molto agevoli, a' quali il C. fu condotto da cenni di critici precedenti. Tuttavia sarei ben lieto di dargliene lode, se non pensassi che ora non ho tempo di rivedergli le bucce anche qui, e che quando un tale fu colto una volta in flagranza di furto , si destano legittimi sospetti anche là dove, a prima giunta, questi possa comparirci abbastanza galantuomo. (1) Noto però adesso che nel cap. XLIII, 8, il pceta dice della bella Siciliana : ... ninfa sicula, per cui Già si meravigliaron gli occhi miei . V. CR. Il Boccaccio dunque l'aveva veduta : il che vuol dire che essa doveva essere stata a Napoli. (2) Il C. salta qui alcune altre mie righe , ove è detto che ad evitare tanta fatica di ipotesi erronee, per avvedersi che al cap. XLIV, terz . 3 sgg. , il Bocc. allude alla Gianfigliazzi, bastava riguardare il Manni. Soggiungevo poi che il luogo dell ' Am. Vis. , in cui si fa motto della Gianfigliazzi , invano cercato dal Traversi (vedi p. 428 del cit. fasc . degli Studi di fil. rom.), era proprio questo del cap. XLIV, 3 sgg. , non l'altro del cap. XLI , 10 sg. , ove il Traversi aveva supposto che l'allusione occoresse . Se non che qui il C. si sarà trovato in qualche imbarazzo, perchè , per errore tipografico e per trascuranza di chi compilava la Rivista , mi si è fatto correggere il Traversi non in quel modo stesso, esattissimo, ch'era nel mio manoscritto, ma con tale sovvertimento e garbuglio , che il luogo, a cui rimandavo il Traversi , non fa più il cap. XLIV, 8 sgg., ma proprio quell'altro, cap. XLI, 10 sg., ch'io intendevo correggergli. Cfr. mio Contributo agli studi sul Bocc. , p. 138, n. 2. Giornale storico, XXI, fasc . 62-63. 29 446 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO LEANDRO BIADENE. Cortesie da tavola in latino e proven- - — zale. Per nozze Cassin-D'Ancona ; Pisa, tip. Mariotti, 1893 (8° gr., pp. 22, ed. di 65 esemplari). È questo un nuovo saggio degli studî , ai quali attende da molti anni il B. per illustrare acconciamente, anche sotto il rispetto letterario, le poesie di fra Bonvesin da Riva , di cui prepara l'edizione. I testi qui comunicati son due ; latino l'uno, l'altro provenzale, e d'entrambi, ma più particolarmente del primo, ci sembra utile far adesso un breve esame. Il testo latino è tolto dal codice Ambros. N. 95 sup., notissimo agli studiosi sia per le scritture pregevoli che ci ha conservate , come per la sua straordinaria scorrettezza. Malconcio dunque, come ben si capisce, è il ritmo (diciamolo così) De moribus in mensa servandis , sicchè il B. ha reputato savio partito darlo fuori, mantenendone rigorosamente le particolarità e irregolarità grafiche (1). Al suo buon proposito però ha fatto ostacolo la scarsa fedeltà della copia, di cui gli è stato mestieri giovarsi, la quale, se dò fede, come credo poter fare, ad una mia ormai antica trascrizione del ritmo , si allontana in più e più luoghi dall'originale. Così , v. 4, leggasi : pozito, non ponito ; v. 11, pauperis, non pauperum ; v. 15, sit, non sint e madere non mandere; v. 17, guloxus, non gulosus ; v. 18, non già cum cutelo contra comedentes, ma ex cutelo cum comedentes ; v. 21, non sputum ne feceris, ma ne ieceris; v. 33, non est quam, ma estque; v. 35, sessa, non sella. E qui è necessaria una breve sosta. Il B. stampa non comedas , sotio cedente sella , repente ; che io confesso non comprendere che voglia dire. Tenendo conto delle viziose consuetudini del copista , sessa rappresenta caesa , da caedere ; e il verso è da leggere ed interpungere così : non comedas, socio cedente, cesa repente ; cioè a dire : « mentre il compagno di tagliere trincia « le carni, tu non mangiargli i pezzi tagliati » . Tant'è vero che segue: Facta cesura, dentes capiant sua iura. V. 37, repones , non reponit ; v. 43, proponere, non praeponere ; v. 39, cognosere, non cognoscere ; v. 49, stramito (sic), non stranuto; v. 50, fernenter non feruenter ; e fernenter è corrotta lezione per frenentur. Cattive cose, dice il poeta, se non si frenino a tempo, lo sternuto, il singulto, lo sbadiglio ! Questo componimento, che è, come si vede, mal ridotto davvero, suscita anche parecchie questioni per ciò che spetta alla sua costituzione. Il B. ha avvertito giustamente come esso non sia che un rifacimento di quel più breve ritmo in leonini, che da un cod. senese io ho pubblicato ne' Carmina Medii Aevi, e che, aggiungo adesso, si legge anche a c. 85 del cod. Canonic. It. 31 della Bodlejana d'Oxford. Ma egli è poi da notare che ai versi del componimento or ricordato son stati interpolati distici o monostici, tolti un po' da tutte le parti, sicchè il testo Ambros. non è in realtà altro che un centone. Io non posso ora indicarne tutti gli elementi ; ma alcuni sì. E per co- (1) Fra le pochissime correzioni da lui introdotte , quella che muta in stultos lo stultus del v. 84 è, crederei, da respingere. Per multos usus sic cito cognosito stultus dice il testo, deformando un verso ben noto : Per multum risum ( 0 multos risus) cito cognoscitur stultus. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 447 minciare, i versi 3-5, che riguardano la maniera di apparecchiare le mense, ritornano in altra guisa disposti e con alterazioni non lievi nel ms. Ambr. F. 118 sup. , f. 44 r. : Omnis mensa malle ponitur absque salle (1) ; (0) tu qui fercula prebes sal primo ponere debes Et cutellos lotos, deinde ponere gotos. Nel quale seguono poi i versi 22-23, 41 del testo del B.: Qui tenet in mensa cubitum vel brachia tensa Non est urbanus, si sit de corpore sanus. Stes ad mensam rectus et sepe respice pectus ; ai quali tengon dietro questi altri : Ne cures dentes nec unquam de ferculo temptes (sic) Nec naxus (sic) tergas, nisi primo pannos adiungas. Da tripodes, discum, cultrum, post gausape siphum, Inde detur panis, ne ventus surgat inanis. Il v. 12 riappare isolato anche nel cod. Parigino Lat. Nouv. Acq. 1544, f. 112 r: Ignovit plenus quam vitam ducat egenus ; ed i versi 29-30, qui inintelligibili , sono recati a lor volta in più corretta forma dal Florileg. Gottingense, 302 (cfr. Rom. Forsch. , III , 309) : Baltea laxabis ad mensam quando meabis, Ne sedeas meste vel dissolvas inhoneste. I v. 45-50 non sono che un distico della Schola Salernitana sulle proprietà del finocchio (cap. XXXV, p. 414) : Bis duo dat marathrum, febres fugat atque venenum : Expurgat stomachum, lumen quoque reddit acutum ; ed alle stesse origini , cioè ad opere mediche, saranno da ricondurre i v. 47, 48 (cfr. Sch. Sal. , cap. IV, p. 104 e cap. LXX, p. 675) ; mentre i v. 49.50 hanno tutta l'aria d'esser stati tolti da un'opera di lessicografia. Un curioso pasticcio, come si vede, formato con ingredienti di provenienza differentissima. Il secondo testo è tolto dal cod. Ashburn. 40 , zibaldone del secolo XIV, messo insieme da un Pietro de Serras avignonese, raccoglitore zelante, ma ignorante assai, di svariate scritture. Il componimento sulle regole di creanza da serbarsi a mensa è un vero e proprio ensenhamen abbastanza ben condotto ; ma il ms. è così guasto che in più luoghi non si riesce a comprendere il senso. Il B. , aiutato anche dal Rajna , è riuscito a sanare talune piaghe ; ma altre rimangono ancora aperte e ribelli ad ogni farmaco; né a chiuderle ci vorrebbe meno del rinvenimento , che non è fra le cose impossibili, d'una copia meno cattiva del poemetto, il quale sí per il rispetto de' suoni come per il lessico, offre fatti degni d'attenzione. F. N. (1) Questo verso era divenuto proverbiale nel medio evo ; i commentatori della Schola Salernitana (Parisiis , MDCXXV) , lo citano in forma alquanto diversa a p. 153 a proposito del pre- cetto (cap. IX, 8) : Nam sapit esca male quae datur absque sale. 448 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO MARIO MENGHINI. Tomaso Stigliani. Contributo alla storia letteraria del secolo XVII. -Modena , Libreria Internazionale di E. Sarasino, 1892. Stamp. a Genova, estr. dal Giornale Ligustico (8°, pp. 182). Avvenne dello Stigliani ciò che di molti altri uomini di lettere, specialmente del sec. XVII. Le vicende della loro vita , la loro opera di scrittori e di poeti caddero lentamente in dimenticanza ; ma poichè, per varie circostanze, qualche lor detto o scritto o fatto sopravvisse nella memoria dei posteri, così unicamente su questi scarsi dati, monchi ed imperfetti , si formò il loro giudizio, che non è a dire come spesso sia riuscito ingiusto. Lo Stigliani era noto, più che per altro, per le acerbe lotte che sostenne col Marino, e de' suoi scritti si conosceva almeno il titolo del lungo e noioso poema il Mondo nuovo ; ora il Menghini con più larghe e diligenti indagini, ha rievocata nel suo complesso la figura dell'iroso scrittore , presentandolo ne' suoi diversi aspetti di poeta, di critico e specialmente di polemista. Lo Stigliani nacque a Matera nel 1573. Condottosi a Napoli nel 1593, salì ben presto in fama di buon poeta, così da raccogliere le lodi di Torquato Tasso. Nel 1600 diede fuori in Milano il Polifemo , poemetto pastorale in ottava rima, che contiene i lamenti del Ciclope per l'ingrata Galatea. Il poemetto deriva in sostanza dal libro III delle Metamorfosi ; ma non mancano imitazioni di alcuni luoghi dell'Arcadia del Sannazaro. Un anno dopo, nel 1601, lo Stigliani pubblicò in Venezia la prima parte delle sue Rime ; poche, a dir vero, ma buone, e forse le migliori di quante egli scrisse. Il Menghini trova che il poeta ha qui « qualche cosa della correttezza e gentilezza dei << migliori petrarchisti, e può, sotto questo riguardo, aggiungersi alla schiera << dei rimatori del cinquecento che maggiormente imitarono le forme poetiche << del grande maestro ». Ma un altro fatto appare notevole in questa breve raccolta di Rime, ed è la smania dello Stigliani di andare formando nuove tessiture di metri poetici. Il fatto non fu insolito a que' tempi, in cui altri poeti cercarono il vanto di avere creato nuove testure di canzoni, come ad es., il Marino; ma è degno di essere osservato perchè ci porge un documento della schiettezza e semplicità di quei valentuomini. Il Menghini dimostra che le forme metriche usate dallo Stigliani ed a suo dire introdotte per la prima volta nella poesia italiana, erano state adoperate da altri prima di lui. A questo proposito vuole essere ricordata l'ipotesi che il Menghini propone (p. 29) per la formazione della canzonetta, ch'egli vorrebbe ricavata dagli antichi misteri francesi. Nel 1603 lo Stigliani passò al servizio del duca di Parma, Ranuccio Farnese, e qui attese a mettere insieme le Rime già edite ed altre composizioni giovanili, riunendole in un volume che vide la luce nel 1605. Non però senza gravi fastidii, imperocchè la pubblicazione del Canzoniere fu sospesa in causa di certi indovinelli licenziosi che v'erano inseriti. Nel 1617 uscirono finalmente i primi venti canti del Mondo nuovo, già da quasi vent'anni an- BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 449 1 nunziato agli ammiratori dello Stigliani, ed in quest'anno si ruppe apertamente la lotta, che covava da tempo, fra il poeta materese ed il Marino. È noto che la scintilla che destò tanto incendio fu un'allusione maligna (così parve allora, benchè lo Stigliani s'affrettasse a negarlo) all'indirizzo del Marino, contenuta in quel passo del Mondo nuovo, in cui parla del- l'uomo pesce, Detto altramente il cavalier marino, Verace bestia, benchè al vulgo huom sembra. Il Marino non fece aspettare la risposta e scagliò contro allo Stigliani le note Smorfie, minacciando di peggio. La lotta, com'era naturale, si allargò e scesero in campo a guerreggiare altri poeti . Una delle sue prime conse- guenze fu per lo Stigliani una serie di ostacoli che gli editori, sobillati dal Marino, frapposero alla continuazione della stampa del Mondo nuovo, e la necessità in cui egli si vide di abbandonare Parma per togliersi alla persecuzione dei suoi avversari di colà . Se ne andò pertanto lo Stigliani a Roma e quivi nel 1623 fece ristampare il suo Canzoniere, purgato dagl'indovinelli che avevano già provocato la censura ecclesiastica, ed arricchito di nuove poesie, rivolte naturalmente in gran parte contro il Marino. Assai interessante è fra queste un gruppo di idillii, in uno de' quali lo Stigliani finge di avere incontrato sul monte di Parnaso la Musa del suo secolo vestita di Metafore sfacciate , Ed ipperbole fiere e disperate ecc. La Musa va millantandosi di questa sua mostruosa bellezza ; ma infine per comando di Apollo è sconciamente malmenata. Giova avvertire che queste composizioni satiriche sono scritte in una « maniera poetastrica » , che vuol essere una canzonatura dello stile del Marini. Il Menghini rileva l'importanza di queste rime giocose, e l'allarga fuori dello stretto cerchio delle bizze personali ; egli vi scorge un movimento di reazione contro il marinismo che trasse con sè più di un poeta ; il che però, secondo il Menghini, non significherebbe ancora che in quel tempo si sia determinato un vero e proprio antimarinismo. La morte del Marino non valse a sedare le ire. Non era questi , si può dire, sceso nella tomba, che lo Stigliani mandò fuori l'Occhiale, opera di peso e di lunga mano, concepita, a quel che pare, quando il suo antagonista era ancora in vita. L'Occhiale è una lunga e minuta censura dell'Adone, divisa in due parti : nella prima si esamina l'Adone esteticamente , cioè in complesso ; nella seconda filologicamente, verso per verso. Il Menghini segue punto per punto lo Stigliani nella sua disamina, trovandovi qua e là delle idee buone ed opportune, ma più sovente dei giudizii privi di ogni fondamento, puerili ed ingiusti e delle accuse irose e partigiane che potevano facilmente essere ritorte contro lo stesso censore. Il che avvenne specialmente per le accuse di plagio e di licenziosità. Troppo lungo sarebbe qui il tener dietro all'ardente polemica che ne seguì e il rendere conto delle risposte e controrisposte che la tennero viva. Vi presero parte, contro lo Stigliani, l'Errico con l'Occhiale appannato, l'Aleandri con la Difesa dell'Adone, il Bar- 450 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO bazza con le Strigliate, Nicolò Villani con l'Uccellatura, opera seria e ponderata, più di critica serena ed erudita che non di cieca polemica. Imperocchè, e bene lo rileva il Menghini, chi segua lo svolgersi della polemica fra questi scrittori con intendimenti più elevati, ne ricava quest'importante risultato, che a quel tempo fiorì una nobile schiera di soggetti eruditi » , che potevano valersi di un ricco patrimonio di cognizioni, frutto di studii lunghi e diligenti. Fra questi occupa senza dubbio il primo posto il padre agostiniano Angelico Aprosio da Ventimiglia. Nel 1628 lo Stigliani potè compiere la pubblicazione del Mondo nuovo. La vasta tela di questo poema e le sue relazioni con altre opere del medesimo argomento composte verso quel periodo di tempo furono studiate recentemente dallo Steiner (1) ; il Menghini si sofferma di preferenza sopra alcuni episodii del poema, ricavati dagli Ecatommiti del Giraldi, dall'Arcadia del Sannazaro, dal Mambriano del Cieco da Ferrara ecc. Di quest'ultimo poema egli è certo che lo Stigliani si valse ; però per l'episodio del C. XIII del Mondo nuovo ci sembrano assai più concludenti i riscontri coll' Orlando Innamorato che non col Mambriano. Cosi ci sembra troppo arrischiato l'affermare che la nov. 9, dec. IV degli Ecatommiti, è imitata dal Mambriano, perchè l'argomento è in sostanza ben diverso nelle due novelle. Piuttosto il Menghini avrebbe potuto segnalare un altro riscontro fra il Mondo Nuovo e il Mambriano ; vedi Giornale, vol . XIX, p. 167. Dopo aver compiuto il Mondo Nuovo, lo Stigliani condusse a termine la Replica, tuttora inedita, nella quale il poeta si scaglia contro i marinisti, suoi detrattori ; e negli anni della sua vecchiezza attese a comporre l'Arte del verso italiano, pubblicata dopo la sua morte, ed altre opere di simile natura, rimaste incompiute. Egli era allora ai servigi di Pompeo Colonna, principe di Gallicano, al quale fu stretto da vincoli di affetto sincero. 11 Menghini pubblica in appendice un mazzo di lettere dello Stigliani al suo Mecenate. Lo studio del Menghini è condotto a larghi tratti e mira più che altro a delineare quel movimento letterario ch'ebbe tanto impulso per opera dello Stigliani nella prima metà del sec. XVII. La parte biografica ci sembra sia stata oggetto di ricerche meno pazienti. Chi volesse riporvi mano, dovrebbe anche toccare delle relazioni che lo Stigliani ebbe colla corte di Carlo Emanuele I ; infatti da una lettera del Coppino al nostro poeta dell'ottobre 1609 (Epistolae, Milano, 1613, p. 114), si ricava che lo Stigliani aspirò a coprire in quella corte una carica, che poi in causa di alcuni maldicenti gli fu negata. In un raro opuscolo intitolato Combattimento delli Cavalieri di Diana e di Venere all' Isola Polidora nel Parco del Ser.mo Duca di Savoia . fatto nelle nozze dell'Ill.ma Sign. D. Beatrice d'Este, maritata all'Ill.mo Sig. Ferrante Bentivogli , Torino , 1602 , si fa ricordo che fu cantato un madrigale, opera dello Stigliani, in lode della principessa Margherita. ..... (1) Vedi Giornale, XVIII, 422. G. R. COMUNICAZIONI ED APPUNTI - punto hanno FRANCESCO D'AMARETTO MANNELLI. Quantunque da tre secoli a questa parte antiquari ed eruditi abbian fatto un gran discorrere del diligentissimo trascrittore del Decameron , pure intorno ai fatti suoi poco saputo raccogliere. Tessendo la genealogia di casa Mannelli, Scipione Ammirato confessa così di non trovar de' figliuoli d'Amaretto « fatta molta me- << moria » e di Francesco si sbriga dicendo che « il nome [ne] hanno reso << molto celebre coloro i quali ultimamente fecero quelle belle e utilissime << annotazioni sopra alcuni luoghi del Boccaccio » ( 1). Il Manni poi ed il p. Ildefonso aggiungono che Francesco si trova menzionato insieme al fratello Zenobio ed a tre sorelle nell'atto con cui Amaretto, suo padre, rinunzia il 9 ottobre 1361 alla consorteria de' Mannelli e dichiara, come grande che avea ottenuto d'esser fatto di popolo, di mutar arma e casato (2) ; nè di più sanno dire. In mancanza di notizie solide ed esatte trovarono quindi favore affermazioni infondate e capricciose. Così della cura singolare davvero, con la quale il Mannelli aveva atteso alla trascrizione del Decameron di su un codice che si pretese scritto di mano dell'autore, vollero taluni rinvenir la spiegazione nell'intima amicizia che avrebbe insieme congiunti Francesco ed il Certaldese, che del primo si disse ora compare, ora padrino (3). Contro queste e somiglianti fiabe, che ebbero vita assai rigogliosa e tenace, insorse finalmente Pietro Fanfani, il quale, sebben abituato, com'era, a recitare la parte di Capitan Spavento, si desse un gran daffare a sfondar porte aperte da un pezzò, pure ebbe il merito di provare che nulla di quanto spacciavasi intorno ai rapporti corsi fra il Boccaccio ed il Mannelli reggeva al lume della critica e che quest'ultimo, nato nel 1357, non poteva aver goduto l'amicizia del Certaldese, morto in tempo ch'egli toccava i diciott'anni (4) . (1) Veggasi l'inserto Mannelli nel ms. Passerini 189 presso la Nazionale di Firenze. (2) Il Decameron di M. G. B. tratto dall'ottimo testo scritto da Fr. d'Amaretto M. sull'originale dell'Autore, 1761, Prefaz. , p. x ; Del. degli erud. tosc . , I , CXIV ; XIV, 257. (3) Cfr. Pref. cit. , p. x, ove è riferito un passo del Cinelli , che si sbraccia a dir Francesco << amico fidelissimo e quanto mai dir si puote intrinseco e compare » del Boccacci . (4) Della vita e delle opere di G. B. , discorso premesso all ' edizione del Decameron pubblicata in Firenze, Le Monnier, 1857 ; cfr. vol. I, pp. xv e sgg. " 452 COMUNICAZIONI ED APPUNTI A stabilir la data della nascita del figliuolo d'Amaretto il Fanfani si era giovato d'un documento che gli additò il conte L. Passerini, cioè a dire la Portata al Catasto del 1427 di Raimondo fratello di Francesco; della quale, per esser sempre inedita (1), riferiremo qui la parte che fa per noi : Dinanzi a voi Singnori Uficiali del Catasto diputati per lo magnifico Comune di Firenze expone e vi denunzia Ramondo d'Amaretto Manegli del Gonfalone della Scala Quartiere Santo Spirito ecc. Bocche : Io Ramondo d'età d'anni 37 circha sanz'alchuno aviamento in Firenze. La Maria mia donna. Francesco mio fratello carnale d'età d'anni 70 infermo e povero ( 2) . Giovanni di Lionardo Manelli mio cognato d'età d'anni 9 in circha. Se del 1427 Francesco aveva raggiunta la settantina, niun dubbio ch'ei fosse nato all'incirca nel 1357 ; e dico « all'incirca », perchè tutti ormai sanno come alle dichiarazioni che que' buoni vecchi ci lasciarono intorno all'età propria non sia prudenza prestar troppa fede. A buon conto però il Mannelli, nato a mezzo il sec. XIV, non potè davvero, come notava il Fanfani, esser amico e compare d'uomo qual fu messer Giovanni, morto in grave età, quand'egli passava appena i tre lustri. « Infermo e povero », dice Raimondo il fratello ; e questa laconica affermazione ci permette di congetturare che la vita di Francesco non sia stata molto felice. A confermarci in tale avviso giunge opportuno anche un altro documento fin qui sconosciuto : una lettera del Salutati, scritta nel 1392 circa al fiorentino Michele da Rabatta, fedelissimo servitore di Francesco Novello da Carrara, signore di Padova, e suo primo e potente ministro. A Michele Coluccio raccomanda vivamente Francesco Mannelli, che aspirava a conseguire in Padova un beneficio ecclesiastico. Ma ecco la lettera (3) : Magnifico militi domino Michaeli de Rabatta. Magnificentissime miles et honorabilis maior mi , Reminisci debes me tibi preces per alias litteras porrexisse , quatenus in favorem nobilis viri Francisci Amaretti de Manellis , qui michi singularis dilectionis vinculo iunctus est, quique ad clericatum anhelat; apud excellentissimum communem dominum Patauinum intercedere dignareris. Super qua quidem re, si bene commemini, gratiosissimum tuum habui responsum. Nunc autem pergit ad te nepos tuus, Antonius meus, quem spero circa hoc negocium institurum. Velis igitur in hoc ostendere quanti me facias, quantumque me diligas quisque de te tum ego tum amici mei sperare possint. ( 1) II FANFANI, Op. cit. , p. xvш, sta pago a scrivere : Dal Catasto del Quartier Santo Spi- << rito, Gonfalone Scala , apparisce che F. di A. di Zanobi M. e di Zanobia di Domenico Guida- << lotti, aveva nel 1427 l'età di settanta anni , e per conseguenza era nato nel 1857 ». Il brano della portata originale del Mannelli, che io trascrivo, fu estratto per me dal volume no 16, c. 571- 578 del Catasto dalla cortesia del dr. Eugenio Casanova. (2) Nel Catasto del 1488 di Francesco non si fa più menzione ; egli era probabilmente già morto. (3) Epistolario di C. Salutati, lib. VII, ep. 14, vol. II, ( in corso di stampa). COMUNICAZIONI ED APPUNTI 453 Quamquam in promorendo viro nobili atque merito , si bene te novi, qui nobilitatem generis atque virtutem, sine qua nobilitas , que ex sanguine trahitur, inane nomen est, non debeas precibus indigere. Hoc unum scito : te non facile reperire posse ubi tam recte beneficium loces et dequo maiorem glorie fructum adepturus sis. Fac igitur, ut e amico morem geras et tue virtutis, sicut tue congruit dignitate, recorderis. Gaudebis equidem, ut arbitror, occasionem tibi prebilam tum officio amicicie tum virtutis. Vale. Florentie, die decimoseptimo ianuarii. L'epistola del cancellier fiorentino ha per noi molto valore. Prima di tutto essa ci mostra che in patria il Mannelli godeva la stima delle persone più autorevoli ; in secondo luogo poi che egli apparteneva al clero ; per aspirare ad un beneficio, forse un canonicato, ei doveva infatti aver per lo meno conseguiti gli ordini minori. Noi comprendiamo quindi assai meglio di prima la cura messa dal Mannelli nel trascrivere il Decamerone e ci rendiamo più agevolmente conto dell'erudizione non comune ch'egli sfoggia nelle postille, e che in un laico ci diveniva cagione di qualche meraviglia. Sapendo bene di latino, avendo fatto regolari studî di grammatica e di retoricà, riusciva naturale che Francesco portasse nell'esecuzione dell'opera intrapresa quell'oculata diligenza, di cui gli scrivani di mestiere erano assolutamente incapaci. Ma perchè mai assunse egli un'impresa siffatta ? Eccoci adesso di fronte ad uno de' più oscuri problemi della vita del Mannelli ; a quello anzi che sembra destinato a rimaner insoluto. I vecchi eruditi hanno allegramente ripetuto che se il Mannelli esemplò l'opera del Boccaccio , fu spinto a ciò da << vaghezza d'averne copia » ( 1 ) ; quasi che Francesco stesso non si fosse dato briga di smentirli anticipatamente , notando in calce al suo codice d'averlo scritto « ad honorem ... beneplacitum et mandatum » di un'altra persona. Ma di quale persona ? « I Novellisti fiorentini - così nel suo citato << discorso P. Fanfani (2), seguitati dagli editori lucchesi, pe' quali fe' co- « piare e tenne a riscontro il codice Mannelli il canonico Biscioni, lessero << in fondo ad esso codice : Deo sit laus et gloria in ecternum ad honorem « egregii Simacu Spinis et beneplacitum et mandatum ; ma quel Simacu « Spinis se lo levarono del capo, chè nel codice non è chiaro se si abbia a << legger a quel modo, e la ragione grammaticale e la genealogica lo negano << al tutto : la ragione grammaticale perchè dovrebbe dire Simachi Spini o « de Spinis: e la ragione genealogica perchè , siccome accerta il citato si- << gnor Passerini , nella famiglia Spini non solo non c'era un Simmaco nel « 1384 o in quel torno, ma non c'è mai stato sì fatto nome. In qual modo « si abbiano a leggere le strane cifre che i Novellisti lessero Simacu Spinis << non se ne sanno risolvere i più valenti paleografi : a me par di poterci « scorgere un virginis (3), al signor Passerini un communis ; ad altri altro ; << ma nulla si può accertare, se non che Simmaco Spini non è ». - (1) MANNI, Pref. cit. , p. x. (2) Op. cit. , p. xxi n. (3) Virginis unito ad egregii ! Ma forse il Fanfani aveva a mente il facsimile dell' explicit ri- 454 COMUNICAZIONI ED APPUNTI Or v'è qui, come in tutto quanto scrive il Fanfani, del vero misto al falso. Del vero, perchè non si può proprio cavare dall'explicit del cod. ciò che il Manni e gli altri ne hanno voluto dedurre; nè senza scempio della grammatica (lasciamo pure da parte l'argomento genealogico, tutt'altro che privo di valore ! ), di Simacu Spinis fare il genitivo di Simmacus Spini. Del falso poi, perchè chiunque abbia occhi in capo non può nel ms. mannelliano legger altro che la misteriosa parola Simacuspinis o Simacuspiuis, chiarissimamente delineata. E allora ? si domanderà. È inutile rispondiamo noi voler ricercare un nome ed un cognome in una voce , foggiata a bella posta dallo scrittore per nascondere in parte ad occhi indiscreti il vero nome della per- sona, per il « beneplacito e mandato » della quale egli aveva assunta la laboriosa intrapresa di ricopiare accuratamente il Centonovelle. - - Quest'è adunque il mio avviso : che l'explicit del cod. mannelliano, secondo una consuetudine assai comune del tempo, racchiuda un anagramma. Disgraziatamente finora , sebbene ci abbia almanaccato dattorno un buon poco , a me non è avvenuto di ritrovarne la chiave. Disgregando le lettere che compongono la voce misteriosa ed in altra guisa raggruppandole mi son bensì veduto uscir fuori da Simacuspiuis un amicus ipsius ; ma il risultato non m'è sembrato molto soddisfacente. Perchè infatti il Mannelli, non pago d'aver sostituito al nome della persona per cui scriveva il qualificativo d' « amico », avrebbe poi nascosto anche questo epiteto sotto il velo dell'anagramma , come se l'amicizia fosse illecita o dovesse rimanere avvolta nel mistero ? (1) . Altri, più fortunato più sagace, riuscirà forse a chiarire il curioso problema. FRANCESCO NOVATI. G. PATECLO · P. AMATO - A. DEL PALAIS. - Molti oramai hanno parlato del Patecchio, il quale rischia davvero d'essere il nostro più antico rimatore (2). Quel che di lui si sa lo si raccoglie dalla cronica di Salimbene, e fu disteso in bell'ordine nell'articolo sotto citato del Mussafia. E in quanto all'età del suo fiorire, già l'Affò aveva osservato che un aneddoto narratoci dal Salimbene lo assegnava senza dubbiosità ai principî del secolo XIII. Non dispiacerà , credo , di vedere quest'induzione confermata da uno storico documento. prodotto nell' edizione lucchese , dove in luogo di egregii, che par si legga nel cod. , sta scritto : egregie. > (1 ) Io non mi sono spiegato chiaramente se creda nell'anagramma nascosto un nome « maschile > oppur « femminile », perchè di niuna delle due cose son sicuro. Se si potesse legger « egregie nel ms., la cosa non sarebbe più dubbia ; ma io temo che in quell'ammenicolo, che si scorge annesso all'i finale d'egregii, non s'abbia a veder altro che uno sgorbio prodotto dalla penna troppo intinta d'inchiostro. (2) Ho visto i seguenti : Arrò , Memorie degli scritt. parm. , I, 280 ; TIRABOSCHI , St. lett. it. (ed. Milano), IV, 613 ; TABARRINI, Cr . di Salimbene, nell'Archivio stor . ital. , N. S. , vol . XVIII ( 1868), p. 77 ; MUSSAFIA, Jahrbuch f. rom. u. engl. Phil. , VI, 228 e VIII , 210 ; TEZA , Giorn. fil. rom. , 1 , 238 ; NOVATI , in questo Giornale , I , 418 ; TOBLER , Das Spruchgedicht d. G. P., Berlin, 1886. COMUNICAZIONI ED APPUNTI 455 Il quale, per verità , non era difficile da trovare : lo aveva pubblicato lo stesso Affò tra le carte edite nella sua Storia di Parma ( 1) ed è curioso che, parlando del Patecchio, non ricordasse quel luogo. Nel luglio del 1228 a una rinnovazione d'alleanza tra Cremonesi e Parmigiani, in plathea Communis Cremonae, giurarono i patti moltissimi Cremonesi : e quali testimonî al giuramento e alla rogazione dell'atto stettero presenti : Domino Uberto deBobio. DominoManglarotto Vicedomino. GERARDO PATECLO DE CRemona (2). testibus rogatis. La pubblicazione dell'Affò fu fatta da una copia autentica di esso atto, eseguita nel 1599 da Enea Biondi praefectum archivii. Ma io ho avuto la fortuna di ripescare nell'Archivio segreto del Comune di Parma la pergamena originale del 1228. La copia del Biondi ha, qua e colà, qualche leggierissima infedeltà, ma non nei nomi che ora c'interessano. Riman dunque fisso che nel 9 luglio 1228 era , vegeto e vivo , in sulla piazza di Cremona , l'autore dei Taedia e dello Splanamento (3) . A messer Ponzio Amato resi io il triste servigio di mandarlo per le bocche degli eruditi, quale bersaglio di una poco profumata invettiva del trovatore Guilhem de la Tor. Dacché, o bene o male, è entrato nell'ordine degli studî nostri, val la pena di segnalare quanto di lui si ripesca. Nel mio lavoro (nei Rendiconti R. Istit. lombardo, vol . 25°) potei seguirlo dal 1205 al 1224 ; la pergamena suaccennata ci mostra che egli era ancor vivo nel 1228. Essa dice infatti: Pontius Amatus eodem modo iuravit . acta sunt haec Instru menta praeter illud Pontii Amati in palatio Communitatis Cremonae. Perché messer Ponzio non andava in palazzo a giurar cogli altri ? Sarà aristocratico disdegno? Oppure un riguardo dei Cremonesi a un cittadino illustre, certo già vecchio, forse ammalato ? (4) . Per finire, arrischierò un dubbio e valga quel che può valere. Una pergamena, edita dall' Affò (5) , della quale ho visto pure l'originale , riferentesi (1) Parma, Carmignani, 1793, vol. III , p. 353 e p. 356, lin. 19. (2) La pergamena ha proprio Gerardo Pateclo, e non Patecclo con due c, come scrive di solito Salimbene (vedi NOVATI , loc. cit. ) . Non è senza pregio anche quel « de Cremona » ; o chi sarà quel Patechus Montisferrati citato pure da Salimbene (per un fatto del 1211 , a p. 414 della Cronica) e che il TABARRINI (loc. cit . ) identifica col nostro poeta? Son forse due persone diverse ; è almeno lecito osservare che il Monferrino è ivi citato per una sentenza latina , mentre il Cre- monese, in tutte l'altre citazioni di Salimbene, parla in volgare. (8) Cogliamo l'occasione per annunziare che il prof. F. Novati ha testè rinvenuto, in un manoscritto di proprietà privata, le Note del Pateg e che egli conta darle presto alla luce , facendole precedere da uno studio sull'enuey ; col qual genere di componimento, com'era a prevedersi , l'opera del poeta cremonese ha strette somiglianze di contenuto e di forma. LA DIREZIONE. (4) Un documento, citato pure dall'Arrò (vol. III , p. 47) , ci mostra Ponzio Amato in relazione d'affari con gli eredi del marchese Guido Lupi di Soragna, nel 1214. (5) Vol. III, p. 851. Nell'Archivio segreto del Comune. 456 COMUNICAZIONI ED APPUNTI a un accordo tra Cremonesi e Parmigiani del 1º agosto 1226, cita due volte fra i testimonî presenti alla rogazione dell'atto un Amdriano de Palatio. Sarebb'egli mai quell'ignoto poeta ... Andrians del Palais Trobayre bos e verays, citato dal nostro Terramagnino ? Non tanto me l'ha suggerito il de Palatio, che è un cognome punto strano (1), quanto quella forma Amdrianus che m'ha dell'esotico. S'egli è veramente, come di recente ha sospettato il Chabaneau (Revue des lang. rom. , XXXV, 384) del Palais , cantone di Limoges , egli andrebbe ad accrescere la già numerosa schiera dei provenzali passati tra noi sul principio del secolo XIII. Ma per ora bastino queste poche parole su un dubbio che non ha ancora il valore nè pur d'una ipotesi. ANTONIO RESTORI. UNA NOTA DANTESCA. - Chi non rammenta una delle più belle gemme, che adornano la seconda cantica del divino poema? Quando si parte ' l giuoco della zara Colui che perde si riman dolente, Ripetendo le volte, e tristo impara ; Con l'altro se ne va tutta la gente ; Qual va dinanzi, e qual di rietro il prende, E qual da lato gli si reca a mente (VI, 1-6). L'imagine dantesca è , come sempre , spirante freschezza e movimento ed è tolta dal vero, che s'incontrava tanto frequentemente nel secolo di Dante, non poco dedito al gioco della zara o de' dadi . In questi giorni, attendendo alla pubblicazione di ciò che v'ha di più notevole delle Lecturae sul Codice e sulle Pandette di Odofredo , famoso dottore di Bologna , morto l'anno stesso della nascita di Dante (2) , fui colpito dal passo seguente, che mi richiamò subito alla memoria i versi citati del Purgatorio : Item sicut videmus in lusoribus ad taxillas vel similem ludum, nam multi stare solent ad videndum ludum, et quando unus lusorum obtinet in ludo, illi instantes solent petere aliquid sibi dari de lucro illo in ludo habito , et illi lusores dare solent , et si de suo patrimonio aliquis ab eis peteret alias si in ludo, reputarent eum fatuum (3). (1) In carte cremonesi peraltro io non l'ho, ch' io mi ricordi, riscontrato fuorchè nella pergamena già citata del 1228 , nella quale poco dopo Pontius Amatus , è citato un Andreatius de Palatio; sarà diversa persona dall'Amdrianus del 1226, o se identica, quale delle due carte erra ? La ragion critica darebbe per miglior lezione Amdr. perché è ripetuto due volte e perché in Amdr. non ci può, come nell'altra, esser sospetto di italianizzamento. (2) Cfr. SAVIGNY, Geschichte des röm. R. im Mittelalt. , V, § 117. (3) Super tribus libris codicis , Lugduni , 1550 (F. et C. Marchant) , p. 81 a. C. X. 12. De pet. bon. subl. 1 COMUNICAZIONI ED APPUNTI 457 Alcune, dirò così, delle figure del superbo quadro dantesco sono pure delineate nelle parole di Odofredo : i soliti amanti del gioco che non possono giocare e circondano i giocatori , per chiedere a colui che riesce vincitore una piccola parte della vittoria ; il vincitore circondato da questi che instantes solent petere ed ottengono di fatto qualcosa da lui, colto in un momento di emozione e di generosità. Odofredo non ricorda l'altra figura con breve tocco animata dal sovrano poeta, cioè il perdente, ma l'analogia fra le due situazioni è, se non erro, sorprendente. Non ho trovato in nessun luogo de' commentatori de' versi accennati menzione dell'esempio, che Odofredo adduce per provare la facile generosità di chi dona cosa guadagnata a spese altrui, e non ho creduto quindi inopportuno avvicinare a' primi sei versi del sesto canto del Purgatorio le parole goffamente maccheroniche del dottor bolognese. Si può dimandare : Dante ha avuto bisogno di rammentarsi della prosa punto elegante di Odofredo? La somiglianza de' due passi giustifica almeno il dubbio che Dante abbia preso da Odofredo, e completato superbamente la similitudine de' giocatori a zara ? Risponderò brevemente. Odofredo non fu un grande giurista, che come Azzone abbia lasciato non solo grande fama , ma solide ragioni di questa (1 ). Tuttavia le sue lezioni , Dio sa come raccolte dagli scolari , ebbero non piccola diffusione e per essere complete e ricche di citazioni de' vecchi dottori , e per una certa facilità e festività di esposizione. Queste letture si trovano fra le altre opere de' più insigni dottori di maggiore uso nello Studio di Bologna (2). Non è quindi improbabile che Dante, così versato anche nel diritto, com'è provato dall'opera De Monarchia , abbia potuto ricorrere o rammentarsi di un esempio d'un professore di Bologna. Notiamo anche un'ultima cosa. Perchè la similitudine de' giocatori si trova in Odofredo non vuol dire ancora che sia interamente sua. Odofredo riferisce esempi, aneddoti, detti ecc. ecc . di parecchi suoi predecessori. Può darsi quindi che questo esempio de' giocatori, circondati da gente che aspetta il momento buono per chiedere , fosse un esempio tradizionale, scolastico che si soleva adoperare dai dottori. E allora Dante avrebbe tratto la materia prima della sua similitudine dalle tradizioni scolastiche bolognesi. Che se Odofredo, come per ingegno, non ha niente di comune con Dante, anche per questa similitudine, non è senza importanza accostare come modestissima glossa (poichè trattiamo di Bologna) le rozze parole di Odofredo ai meravigliosi versi danteschi. NINO TAMASSIA. SONETTI POLITICI DEL CAV. MARINO A CARLO EMANUELE I. -A pochi tra gli studiosi delle cose patrie può essere sfuggito quel caratteristico episodio (1) È questo il giudizio del Saviany, loc. cit. e giustissimo. (2) Statuti delle Università e dei collegi dello studio bolognese , editi da C. MALagola, I, 86, p. 84. (De taxatione petiarum et quaternarum). 458 COMUNICAZIONI ED APPUNTI della nostra letteratura politica del Seicento, illustrato con tanto amore dal Cibrario nella sua Storia di Torino (1), nel quale Carlo Emanuele I, l'ardimentoso principe antesignano della indipendenza italiana, scendeva a respingere con un vigoroso sonetto l'ignobile invito di deporre le armi rivoltogli da un anonimo poeta. La fiacca Proposta e la Risposta del Duca furono più e più volte ricordate o riportate per esteso dacchè le ebbe segnalate il Cibrario: tanta fu l'importanza che si riconobbe in questo duello letterario, in cui uno dei combattenti era quello stesso Principe, al quale si volgevano allora di preferenza gli sguardi di quanti italiani anelavano alla libertà ! Ma poichè sono appunto esse che formano l'argomento di questa breve notizia erudita , non tornerà inopportuno ripresentarle qui alla memoria de' lettori. PROPOSTA. Sire, udite umil voce: è fatto il mondo del suon de le vostr'armi eco guerrera ; crescer non può di vostra gloria il pondo, d'appressar si bei segni altri non spera. Soffrirete mirar di sangue immondo d'Italia il seno? E che in si bella sfera risplenda infausto altrui quel che giocondo sparger lume potria vostr'alma altera? Deponete l'invitte arme lucenti, chè ' l cor però non fia che si disarmi de' nativi magnanimi ardimenti . Quinci vedrem scolpito in bronzi o in marmi : Volle Carlo abbagliar gli occhi e le menti co' lampi della gloria e non dell'armi. RISPOSTA. Italia, ah, non temer! Non creda il mondo ch'io mova a' danni tuoi l'hoste guerrera ; chi desia di sottrarti a grave pondo, contro te non congiura. Ardisci e spera. Sete di regno, al cui desire immondo sembra l'ampio universo angusta sfera, turba lo stato tuo lieto e giocondo, di mie ragioni usurpatrice altera. Ma non vedran del ciel gli occhi lucenti ch' io giammai per timor la man disarmi o che deponga i soliti ardimenti. Se deggio alto suggetto a bronzi e marmi con rai di gloria abbarbagliar le genti, non fia già senza gloria il trattar l'armi. Lo squarcio è di buona e vera poesia, e risente della solennità di quel grave momento politico, allorchè, pur avendo ceduto il Monferrato, di cui gli contendevano il possesso le forze così soverchianti dei nemici, Carlo Emanuele si rifiutava di obbedire alle superbe intimazioni della Spagna che lo voleva costringere a deporre le armi. L'anonimo poeta tenta con blando eloquio di piegare l'animo del Principe col rappresentargli lo spettacolo della misera Italia straziata dalle sue armi ; ma alle sue argomentazioni questi ribatte colpo per colpo , rima per rima , e , confortando gl'Italiani ad aggiungere alle speranze gli ardimenti, segnala loro come unica fonte di tante sciagure l'inesauribile sete di regno dello straniero. Così si spiegarono sinora e si commentarono i due sonetti ; qualche timido dubbio fece bensì capolino in questi ultimi tempi (2) , ma allo stesso che lo espresse parve di essere corso troppo oltre ; e si tornò a vagheggiare la vecchia e comune credenza che il fiero sonetto di risposta all'anonimo poeta fosse dettato dal duca Carlo Emanuele. Ma per quanto essa sia seducente, non regge innanzi ad un esame attento e spassionato dei due sonetti e delle carte che ce li hanno conservati . Egli è certo che i generosi propositi espressi così gagliardamente nella Risposta sono quelli medesimi che il Duca bandi (1) Vol . II, Torino, 1846, p. 447. (2) Vedi F. GABOTTO, Un principe poeta , nella Rivista stor. ital. , 1891, p. 529. COMUNICAZIONI ED APPUNTI 459 e mantenne con animo virile ; è certo inoltre che il Duca amò e coltivò lo studio della poesia e scrisse versi e più ancora ne pensò che non ne scrisse, e forse , a dir vero , furono questi i migliori ; ma il sonetto all'Italia non è suo, a quel modo che quello che gli diede occasione non è di altro poeta, di un poeta che cercasse di distogliere il principe da' suoi propositi guerreschi ; ma l'uno e l'altro, e la Proposta e la Risposta, uscirono dalla medesima penna : quella del cav. Marino. Il giocondo cantore dell'Adone era giunto alla Corte di Torino in un momento assai propizio, quando essa risonava ancora del tripudio di feste con cui si erano celebrate le nozze delle infanti di Savoia, Margherita ed Isabella, coi principi di Mantova e di Ferrara. Scaltrito nell'arte di propiziarsi le grazie dei potenti , il Marino non aveva, per così dire, toccata la soglia della reggia , che già dava alle stampe un Panegirico intessuto delle lodi di Carlo Emanuele I , il sommo pastore delle Alpi, delle quali canta il poeta, toccando la corda politica, che Dio Quasi a l'armi straniere eccelse mete E duri intoppi a le predaci squadre, Che vengono a infestar le piagge liete Di questa alma d'heroi nodrice e madre, Volse mirabilmente in su i confini Si fatti edificar termini alpini. Il Duca gli accordò il suo favore e i letterati della sua corte lo accolsero nella loro schiera con molta deferenza. Anzi il loro capo, il Botero, non esitò a designarlo come primo poeta di quei tempi, allorchè nella sua Primavera, descrivendo il corso degli umori vitali per i rami e per le foglie degli alberi, soggiunse: In si varie maniere alfin si schizza, Che tutte dir non le potrebbe Euterpe: Ned altra musa forse fuor di quella Che a noi per bocca del MARIN favella. Ma questa soverchia esaltazione nocque al Marino, poichè, scatenato nell'animo invidioso di Gaspare Murtola, poeta genovese e segretario del Duca, un pazzo furore, gli procurò da parte di costui improperî violenti e, peggio ancora, un'archibugiata che per sua buona sorte andò a vuoto. È noto quale lungo e doloroso strascico ebbe la contesa fra i due poeti che costrinse l'uno, il Murtola , ad abbandonare la Corte di Torino e finì per trarre il Marino in carcere. L'intercessione di alti personaggi ricondusse presto il poeta napoletano in libertà e nelle grazie del Duca, presso il quale egli rimase sino all'anno 1615. In questi ultimi anni , 1613 e 1614 , la lotta fra Carlo Emanuele I e gli Spagnuoli s'era fatta più ardente ; rotto ogni accordo, gli Spagnuoli invadevano il Piemonte e il Duca si disponeva validamente a respingerli . In tale incendio di guerra anche la musa del Marino, che pure per sua natura era così incline a cantare i facili amori, si accese di fervore patriottico . « An- << ch'egli ha imparato ad odiare il feroce spagnuolo, personificato negli avi- 460 COMUNICAZIONI ED APPUNTI << dissimi vicerè, mentre che, per contrario, non finisce mai dall'encomiare le << valorose imprese del duca di Savoia. Il Marino agguaglia il Duca all'ar- << cangelo Michele, ed i mostri , che Carlo Emanuele deve scacciar d'Italia, << sono gli Spagnuoli. Scriverò pur, duo gran campioni in guerra Da l'aquilon precipitaro, i mostri : Michele in cielo, e Manuello in terra » (1). Così cantò il Marino nella terza parte della sua Lira, preludendo ad un'opera di maggior lena, colla quale avrebbe esaltato la vittoria del Duca sullo straniero ; ed altri simili accenni si leggono nel suo Canzoniere, i quali ci dimostrano che anche il nostro poeta seguì allora l'indirizzo d'idee che ormai prevaleva in Piemonte. Ma, pur riconoscendo questo fatto, i critici moderni si mostrarono poco propensi ad attribuirgli il poemetto, intitolato il Pianto d'Italia, che in talune stampe corre sotto il suo nome. La questione è ancora aperta tra chi sostiene il Marino e chi il Testi come autori del poemetto, nè pare accenni a chiudersi così presto , perchè in mancanza di argomenti decisivi la critica è costretta ad andare rintracciando nella struttura e nella forma del componimento stesso quegli indizî che la guidino nella ricerca della sua paternità : indagine , come ognun vede, assai pericolosa e difficile. Ma frattanto , attendendo che nuovi fatti chiariscano viemmeglio la questione e agevolino la ricerca, è bene che un'altra se ne sollevi intorno a questi due sonetti di Proposta e di Risposta , di cui nessuno sinora sospettò autore il Marino , mentre invece c'inducono ad attribuirglieli alcuni argomenti di non lieve peso. Questi argomenti , come già accennammo , ci sono forniti dall'esame dei manoscritti dei due sonetti, posseduti dall'Archivio di Stato di Torino in uno dei molti mazzi delle carte di Carlo Emanuele I. Conviene anzitutto premettere che il fascicolo in cui si leggono i due sonetti contiene un terzo componimento poetico dello stesso metro e della stessa intonazione. O de l'antica Italia eccelse e chiare Opre onde fe' con gloriosa guerra Meta a l'imperio suo quanto la terra, Quanto co' suoi gran giri abbraccia il mare. Ben di voi viva immensa luce appare, E i bronzi e i marmi indarno il tempo atterra, Ma in qual de' nostri petti ancor si serra, Che generoso d'imitarvi impari ? E sgombrar tenti a l'infelice il seno Del vil timore, in cui sepolta giace Si che ancor ponga a tanti oltraggi il freno ? Sol d'un gran Carlo al ciel d'ornarla piace , Perchè da l'armi sue speriamo almeno, Se non imperio, libertade e pace. Questo sonetto si trova in uno dei tre fogli di cui consta il prezioso fa- (1) Vedi MENGHINI, La vita e le opere di G. B. Marino, Roma, 1888, p. 125. COMUNICAZIONI ED APPUNTI 461 scicolo ; il foglio secondo contiene la Proposta e la Risposta, e il terzo presenta ricopiati in nitida scrittura tutti e tre i sonetti. Vuolsi aggiungere che accanto all'ultima terzina della Risposta nel foglio secondo si legga la seguente variante: E meglio è che si scriva in bronzi e in marmi : Carlo per abbagliar gli occhi e le menti Degl' ingiusti non vuol mai depor l'armi . La variante fu proposta dal Duca ed è scritta di suo pugno. Fu certamente questo fatto che trasse il Cibrario ad affermare che tutto il sonetto era opera di Carlo Emanuele I e quindi a creare quella leggenda che poi vedemmo accolta con tanta compiacenza. Ma invero la deduzione fu troppo larga in confronto del debole indizio. Era infatti costante abitudine del Duca leggere attentamente le opere che gli erano mandate in omaggio, e proporre quelle correzioni e varianti che gli balenavano alla mente; più e più codici si conservano nelle biblioteche torinesi dell'Università e del Re, i quali contengono postille autografe del Duca. Ma pel nostro sonetto la cosa era ancor più na- turale. Carlo Emanuele, tratto in persona dal poeta ad esporre il suo pensiero all'Italia, volle porre al sonetto il suo suggello con una variante, la quale, se non poteva vantare altri pregi, avesse almeno il merito della concisione e della chiarezza. E la variante fu conservata anche nella copia del terzo foglio accanto all'originale . Questa sola importanza, a parer nostro, si deve attribuire alla variante del Duca; ma il più ed il meglio della questione consiste nell'indagare di qual mano siano le scritture onde furono vergati dapprima i sonetti, poichè non ci pare dubbio che ci troviamo qui innanzi ad autografi presentati da poeti di Corte al loro Mecenate. Orbene , tralasciando per ora di considerare il primo sonetto , noi vediamo che gli altri due, la Proposta e la Risposta, sono scritti dalla stessa mano e vergati nella chiara e tondeggiante scrittura del Marino. Un breve confronto con altri autografi dello stesso poeta ci tolse in proposito ogni dubbio (1). Fu adunque il cav. Marino che compose i due memorabili sonetti. Valendosi di un artificio non insolito , egli volle raccogliere col primo sonetto le voci che cercavano d'innalzarsi presso al Duca lo scongiuravano di risparmiare nuovi guai alla patria ; così potè di poi con maggiore efficacia rassicurare nella Risposta i timidi e spiegare gl'intendimenti del Duca, che erano quelli di rintuzzare la prepotenza straniera e ridonare all'Italia la sua libertà. GIUSEPPE RUA. (1) Il facsimile dei due sonetti si può vedere in Vaira, Il Museo storico della casa di Savoia, Torino, 1880, pp. 235-36. Giornale storico, XXI, fasc. 62-63. 90 80 CRONACA PERIODICI. Del fiorire degli studî eruditi regionali noi ci rallegriamo singolarmente; quindi salutiamo con piacere la nuova miscellanea cortonese Erudizione è belle arti , diretta dal prof. F. Ravagli, di cui sono usciti i primi nu- meri. Per ciò che riguarda gli studî nostri, va specialmente notato un esteso lavoro, che vi si vien pubblicando, di G. Baccini su L'antica cappella dei musici di S. Giovanni e di palazzo Pitti. Nel nº 3 F. Ravagli stampa dal cod. Vatic. 1043 una Epistola inedita di Giacomo Ispano a Rodrigo San chez de Arevalo vescovo di Oviedo , in cui si parla della traduzione dal greco della supposta epistola di Marco Bruto fatta da Rinuccio da Castiglion- Fiorentino. Su Rinuccio è noto che il Ravagli ha pronta una monografia. Giornale Ligustico (XIX, 9-10) : E. Bertana , Un socialista del cinquecento ; appunti sulla vita e sugli scritti d'Antonfrancesco Doni, pregevole ed accurato articolo, che mette bene in luce il carattere ed il modo di pensare di quel bizzarro ingegnaccio ; G. Bertolotto, Spicilegio Genovese, notizie di mss. classici esistenti in Liguria , particolarmente notevole quella di un cod. di Catullo della Beriana di Genova; C. Sforza, Amarilli Etrusca e il romanticismo. (XIX, 11-12): G. Brognoligo, La leggenda di Giulietta e Romeo, cerca dimostrarne l'origine letteraria e spiegarne la larga diffusione tral popolo ; G. Ferraro, I colori nelle tradizioni popolari; A. Neri , Una società tipografica in Genova nel sec. XVI; A. Neri, Cesare Magalotti istoriografo della religione di Malta. - (XX, 1-2): F. Foffano, Gaspare Gozzi poeta drammatico , si tratta delle tragedie e delle commedie tradotte dal francese e delle tragicommedie originali del G., cioè l' Antiochia, l'Isaccio, il Marco Polo, che l'A. analizza e critica ; G. Ferraro, Feste sarde sacre e profane. - (XX, 34): M. Borsa, Un umanista Vigevanasco del sec. XIV, Uberto Decembrio, padre di Pier Candido. Gazzetta letteraria (XVI, 45): C. Cipolla, Note lugubri, intorno alle varie maniere di esecuzioni capitali ; (XVI, 46) , G. Sforza, Gustavo Modena nel suo epistolario; (XVI , 49-50) , R. Renier, Salvator Rosa, a proposito del libro di G. A. Cesareo ; (XVI, 52-53), C. Cipolla, Leibnitz e Muratori, a proposito del carteggio edito da M. Campori ; ( XVII, 2) , B. Plebani, Se il commento palatino alla Div. Comm. possa attribuirsi a Talice da Ricaldone, del commento edito a spese del Re d'Italia, Talice sarebbe solo il copista, ed il cod. di Torino sarebbe anzi solo un estratto di quella copia (andava rilevato esser già sorto il sospetto che Talice fosse solo il copista in chi per primo illustrò il cod. in questo Giorn. , IV, 63; vedasi ora anche Gabotto in Biblioteca delle scuole italiane, V , 11) ; ( XVII , 3) , G. Marcotti, Due poeti Friulani, il secentista Ermes di Colloredo e Pietro Zorutti nato nel 1792; (XVII, 6), V. Cian, Divorzisti e antidivorzisti nel Rinascimento ita- CRONACA 463 liano, contrario al divorzio è L. B. Alberti, favorevole il Castiglione in un luogo del Cortegiano, che è anche più esplicito in una variante inedita della redazione autografa del celebre dialogo, che il C. riferisce; (XVII, 7) , M. To- vajera, Un umanista poco noto, Celio Rodigino, cioè Ludovico Ricchieri da Rovigo; (XVII , 9) , E. Thovez . Il Boiardo lirico sconosciuto, a dir vero , sconosciuto è un po' troppo , chi consideri che anche recentemente del Boiardo come lirico parlarono diversi (cfr. Giorn. , XII , 453; Rass. Emil,, I, 655); (XVII, 10), R. Prati, Un nuovo libro su G. Leopardi, di G. A. Cesareo ; (XVII, 11), G. Balsamo Crivelli, Giganti e nani, nelle tradizioni mitiche e nella poesia, segnatamente cavalleresca ; (XVII , 15) , C. Cipolla , Un nuovo libro di storia contemporanea, a proposito del volume importante di G. De Castro, I processi di Mantova e il 6 febbraio 1853. La Biblioteca delle scuole italiane (V, 2-4): 1. Della Giovanna, La ragion poetica dei canti di G. Leopardi, continuaz. e fine, articolo molto osserva- bile; (V, 2-3), F. Gabotto , Altri documenti su Tomaso Morroni da Rieti; (V, 2-3), G. Tambara, Le tenebre nel secondo cerchio dell'Inferno ; (V, 4), F. Foffano , Pro e contro il « Furioso »; (V, 5), L. Filomusi-Guelfi, Perchè o per che, a proposito di Parad. , XXIII , 108; A. Ghignoni, Per una va- riante del C. XXIII del Paradiso , i vv. 79-81 ; (V, 6-8) , G. Jachino , Le contese letterarie di Giorgio Merula, e sull'argomento polemica Gabotto- Jachino in V, 7 e 9 ; (V, 8) , A. Fiammazzo , Lettere inedite del Voltaire, corrispondenza con l' Algarotti ; (V, 9-10) , L. Filomusi-Guelfi , Colui che dimostra a Dante « il primo amore di tutte le sustanzie sempiterne », a pro- posito di Parad. , XXVI, 38-39; (V, 10), G. Tambara , Una lettera inedita di Carlo Goldoni, a V. Gradenigo, 28. X. 1780; (V, 10-11 ) , E. Bertana, Ancora su gli intendimenti della satira Pariniana; (V, 11), F. Gabotto, Alcuni appunti sul Teatro in Piemonte nel sec. XV e su Stefano Talice di Ricaldone; (V, 12) , G. Valeggia, Alcune osservazioni sull' Antipurgatorio Dantesco; L. Filomusi-Guelfi, Una questione di costruzione, a proposito di Parad., XXIII, 79-81 (cfr. nº 5). Studi e Documenti di storia e diritto (XIII, 3) : F. Cerasoli , Documenti per la storia di Castel S. Angelo. Altri rilevanti documenti sul medesimo soggetto leggonsi in XIV, 1. Il Pensiero italiano (VII , 25) : C. Magno , Per la biografia di Erasmo da Valvasone, riguarda la edizione delle sue opere, che aveva in animo di dare Luisa Bergalli ; (VII, 27): G. Pisa , Un nuovo studio su Leonardo da Vinci, a proposito del libro di Gabriel Séailles. Archivio storico siciliano (XVII, 2) : S. Salomone-Marino, La rivoluzione francese del 1789 nei canti del popolo siciliano, fa parte d'un' opera, che sarà assai curiosa, su La storia nei canti popolari siciliani ; (XVII , 3) , G. Oliva, Di due edizioni Messinesi del sec. XV finora ignote in Sicilia, due stampe fatte in Messina nel 1492 e nel 1498 , per noi più interessante la prima che contiene il Fior de Terra sancta, cioè il viaggio a Gerusalemme, di Girolamo Castiglione. Archivio glottologico italiano (XII, 3): F. Sensi, Claudio Tolomei e Celso Cittadini; prova che le Origini della volgar toscana favella del Cittadini non sono altro che « un mal riuscito affastellamento di operette inedite di << C. Tolomei , sulle quali il Cittadini , probabilmente mentre era a Siena , « potè mettere le mani ». Il S. ha specialmente posto a profitto la raccolta di scritture grammaticali del Tolomei, che costituisce il ms. H. VII. 15 della bibl. Comunale di Siena. La punt. 1ª del vol. XIII è di capitale importanza per lo studio dei dialetti di Sardegna, poichè contiene Gli statuti della re- pubblica sassarese, testo logudorese del sec. XIV edito da P. E. Guarnerio, ed il principio d'uno studio del medesimo Guarnerio sopra 1 dialetti odierni di Sassari, della Gallura e della Corsica. 464 CRONACA - Archivio storico lombardo (XIX, 4): F. Gandino, Marco Foscarini, studia la sua ambasceria di Vienna del 1732 e le minute informazioni ch'egli mandava da quella corte; L. Frati, Il Pater noster di Mantova , del principio del sec. XVIII, tratto dal cod. Riccard. 2121 con la risposta scritta in nome dell'imperatore Leopoldo d'Austria (ne aveva dato notizia il Novati , Giorn. di fil. romanza, II , 142 ; Studi crit. lett. , PP. 252-53). (XX, 1) : M. Borsa, Pier Candido Decembrio e l'umanesimo in Lombardia , è la prima parte d'un lavoro condotto con molta accuratezza e dottrina, sul quale ci proponiamo di ritornare quando sarà terminato; G. B. Intra, Di Ippolito Capilupi e del suo tempo (1511+ 1580), gentile poeta latino e volgare , abile nego- ziatore, amico di artisti e di letterati, fra cui T. Tasso ; E. Motta, Demetrio Calcondila editore , completa con nuovi documenti le notizie date dal Badini-Confalonieri e dal Gabotto (cfr. Giorn., XXI, 197) e ne aggiunge altre intorno a Demetrio Castreno, a Costantino Lascaris e ad Andronico Callisto ; G. Fumagalli, Bartolomeo Bolla da Bergamo e il « Thesaurus proverbio- « rum italico-bergamascorum » , diligente notizia , più specialmente biblio- grafica, di questo bizzarro poeta macaronico, vissuto nella seconda metà del sec. XVI e nella prima del XVII. Archivio storico italiano ( Serie V, X, 4) : L. Zdekauer , Intorno ai manoscritti delle « Istorie Pistolesi », riproduce con aggiunte le informazioni già date in un periodico tedesco (cfr. Giorn., XX, 464); Curzio Mazzi, Luca Holstein a Siena , notizie d' un viaggio che lo Holstein compì nel 1641, quand'era ai servigi del cardin. Francesco Barberini, tolte dall'autografo che ora si conserva nella R. Biblioteca di Dresda. Molte cose notevoli sull'arte, i costumi, gli spettacoli, le biblioteche ecc. di Siena, con dotte illustrazioni del M. (Serie V, XI, 1): F. Novati, Un venturiero toscano del trecento, Filippo Guazzalotti, su numerosi documenti inediti ; G. Livi , Carnevale e Quaresima condannati il martedì grasso del 1468, curiosissimo documento scherzoso estratto dall'Arch. notarile di Mantova. La illustrazione ne è insufficiente. Cfr. le numerose citazioni dell ' Amalfi nell' opuscolo di cui si parla in questo Giorn. , XVIII, 455. Gazzetta medica lombarda ( 1893, 4-5): Maggiora, Lodov. Ant. Muratori igienista. Nell'Archivio della Società romana di storia patria (XV, 34) B. Fon- tana termina la sua importante pubblicazione di Documenti Vaticani contro l'eresia luterana in Italia ed in una varietà intitolata Clemente Marot eretico in Ferrara dà in luce un altro brano del processo contro gli eretici di Ferrara, in cui si leggono i nomi del Marot e d'un suo compagno, « quidam << nomine Cornelion natione Gallus ». Nel medesimo fascicolo Ŏ. Tommasini dà conto d'un altro ms. del Diario di St. Infessura, trovato nella R. Bibliot. di Stocolma e pubblica altri documenti riferentisi all'autore di quel prezioso monumento storico. Rivista critica e bibliografica della letteratura Dantesca (I, 1): G. Franciosi, Postille dantesche, interpretazioni di alcuni passi del C. III dell'Inf.; F. Ronchetti, Proposta di nuova interpretazione, del Purg. , XVII, 123 (cfr. nº 3). (1, 3) , G. Franciosi , Postille dantesche, relative a Inf. , IV, 25, 82, 95, VII , 2 , 19, 56. Il periodico ha recensioni di scritti riguardanti l'Ali ghieri ed un largo notiziario bibliografico (1). Rassegna bibliografica della letteratura italiana. Notiamo le comunicazioni e quelle tra le recensioni che contengono cose nuove: (1, 1) : A. D'An- cona , discorrendo della memoria del Pizzi sulle Relazioni tra la poesia (1) Questa Rivista si fonderà con L'Alighieri, formando un periodico unico dal titolo di Gior- nale Dantesco. CRONACA 465 - persiana e la nostra (cfr. Giorn. , XX, 330) , si trattiene particolarmente sulla nov. 38 del Sercambi , illustrata dal Koehler in questo Giorn. , XVI , 109, aggiunge nuovi riscontri e ne fa vedere un lontano progenitore in un racconto del Libro dei Re di Firdusi ; P. Rajna, occupandosi del De vulg. eloq. in fototipia (cfr. Giorn. , XX, 472) , critica con minuta analisi la ri- produzione del codice , che non è esatta. (1, 2) , L. Biadene esamina il testo veneziano del S. Brandano edito dal Novati (cfr. Giorn., XXI , 189), facendo qualche osservazione di lingua ; D'Ovidio, Pei plagiari del Tolomei, tratta dei Fonti Toscani di Orazio Lombardelli, stamp. a Firenze nel 1598, che confronta con gli scritti sulla lingua del Tolomei e del Cittadini. (1, 3) , P. E. Guarnerio , occupandosi dei Canti sardi pubblicati da V. Cian e P. Nurra (cfr. Giorn. , XXI, 183) fa rilevanti osservazioni sulla metrica dei mutos ; L. Biadene, scrivendo del libro di A. Marchesan su L'università di Treviso (cfr. Giorn. , XX, 457) , dà notizie intorno alle canzoni del rimatore trevigiano Niccolò De Rossi ; G. Amalfi è ricco di osservazioni di fatto e riscontri nel render conto del volume di G. Capone e S. Marano, Un poeta satirico del XVII secolo , cioè Giulio Acciano. Rivista Etnea ( I, 1) : R. Sabbadini , Un secondo Leonardo Aretino e le orazioni di Plinio e Svetonio , con cinque lettere , una delle quali soltanto era stata pubblicata dal Gamurrini nel 1883 come scritta dal Bruni, mentre il S. dimostra che si tratta d'un altro Leonardo Aretino, che nel 1414 o poco dopo studiava a Padova sotto il Barzizza ; C. Calì, Due epistole di Albertino Mussato a Giovanni da Vigonza, cioè la Priapeia e la Cunneia , edite su d'uno scorretto cod. Marciano nel Giorn. degli eruditi e dei curiosi , V, 126 sgg. e qui collazionate con un ms. Estense, che vale a sanarne le piaghe; G. Tarozzi, Il primo canto del Paradiso, saggio di critica estetica. (I, 2), V. E. Masaracchio, Interpretazione della prima terzina del C. VI del Purgatorio ; R. Sabbadini , Spigolature umanistiche , notizie varie relative a Leonardo Bruni, Giov. Marrasio, F. Filelfo, Isotta Nogarola, Tom. Pontano, con documenti inediti. - Atti e memorie della R. Accademia di Padova (VIII , 2-3) : M. Girardi, La « nuova data » scoperta da Pietro De Nolhac nella vita del Petrarca. L'Arcadia ( III , 7) : A. Vernarecci, Petrarca a Bolsena. Atti dell' Accademia Pontaniana (XXII) : A. Agresti , Dante e Vanni Fucci; A. Agresti, Il negro nella commedia italiana del sec. XVI. L'Educatore della Svizzera italiana (XXXIV, 22) : G. Curti , Paura di un' ombra creduta, per falso vedere , una bestia. Dichiara con una nuova interpretazione la similitudine dell'Inf. , II, 48. L'uomo impaurito non sarebbe paragonato alla bestia adombrata; ma si dovrebbe intendere così : « La viltà, << cioè la paura , talvolta ingombra l'uomo in quella stessa maniera che lo << ingombra il falso vedere, cioè l'ingannarsi nel credere di vedere, una bestia << laddove si vede un'ombra » . Arditissima ed inverosimile ci sembra l'interpretazione del quand' ombra dantesco , volendo che sia un sostantivo e non un verbo. Oltracciò ombra sostantivo comparirebbe due volte in rima. La interpretazione del C. fu combattuta con buone ragioni nello stesso Edu- catore, nº 23. Bollettino della Società di storia patria A. L. Antinori negli Abruzzi (V, 9): E. Casti, Curiose vicende d'un antico codice aquilano , cioè il cod. di laudi di cui si occupò il Pèrcopo in questo Giorn., XX, 386 sgg. , a proposito del quale il C. dà notizie copiose della confraternita che lo possedette in origine. Bullettino della Società Dantesca italiana (nº 12) : A. Giorgetti , Dante testimone ad un atto di procura nel 1291 , dalle imbreviature di ser Bo- 466 CRONACA naccorso, nell' Archivio di Stato fiorentino ; U. Marchesini , Un codice sco- nosciuto del commento di Pietro di Dante alla Div. Commedia. Ai codici fatti conoscere dal Rocca e dal Ricci il M. aggiunge la notizia di uno esi- stente nella Capitolare di Verona , che è copia, fatta eseguire dal Dionisi , di un ms. perduto, o smarrito, della bibl. di S. Giustina in Padova. Segue la Bibliografia dantesca compilata da M. Barbi. - Bollettino storico della Svizzera italiana (XIV, 9-10): Personaggi celebri attraverso il Gottardo, è riferito il capitolo burlesco in cui Antonio Abbondanti da Imola descrive in rima il viaggio di mons. Pier Luigi Caraffa, che nel 1624 si recò pel Gottardo a Colonia, dov'era destinato nunzio pontificio ; Uno stampatore del Lago Maggiore a Venezia , Bernardino Bindoni. (XIV, 11) : A. Farinelli , Un passaggio di truppe spagnuole pel Gottardo nel 1605 e l'epistola poetica del capitano Cristoval de Virués, buon articolo, che contiene assai più di quello che il titolo dica (1), e rivela una cognizione davvero non comune della letteratura spagnuola. — ( XIV, 12): T. Liebenau, Il conte Gio. Agostino da Vimercato professore all università di Basilea, nel sec. XV , con documenti tratti dall'Archivio di Stato in Basilea. (XV, 1-2): C. Salvioni, Appunti di toponomastica lombarda, molto interessanti , riguardano i nomi di Bellinzona , Blenio , Lugano , Moésa , Mesocco , Mesolcína, Monza, Val Maggia. A complemento, si veda nel fasc. successivo la p. 72. - Bollettino storico- letterario del Mugello (1, 6): A. Messeri , I possessi di Matteo Palmieri in Mugello, breve comunicazione , nella quale il M. an- nuncia che sta occupandosi della biografia del Palmieri. (1, 7): G. Baccini, Canzonette antiche in lode del Mugello , quattro poesie di Bernardo Giambullari tratte da una ediz. fiorentina del sec. XV: cominciano, « Ogni << dama pellegrina », « Per mille volte ringraziato sia », « Chi ha core in- << namorato », « Chi sarà quella tanto disperata ». (I , 8): Possessi di Benvenuto Cellini in Mugello, da documenti dell' Archivio di Stato fioren- tino. (1 , 9 : C. Carnesecchi, Le Camaldolensi del convento di S. Pietro e Lucrezia Tornabuoni, graziosa letterina del 12 nov. 1476 riguardante alcuni lavori che Lucrezia aveva commessi al monastero. Nuovo Archivio Veneto (IV, P. 2 ): C. Cipolla, Nuove notizie sulla morte di Mastino I della Scala (1277), rileva e pubblica una importantissima attestazione, finora_ignorata, togliendola dal trattato De maleficiis di Alberto da Gandino; G. Tassini, D'una circostanza della vita di Veronica Franco, la visita ormai celebre di Enrico III di Francia, che il T. suppone sia stata provocata da Paolo Tron, il quale ebbe un figlio da Veronica. Archivio per lo studio delle tradizioni popolari ( XI , 2) : G. Giannini , Canti popolari padovani, v'è una redazione della Donna lombarda ed una canzoncina accompagnante un giuoco fanciullesco , che arieggia nella fine alla canzone rammentata dal Boccaccio L'acqua corre alla borrana ; S. Salomone-Marino , La rivoluzione siciliana del 1848-49 nei canti popolari: C. Merkel, Religione e superstizione nel sec. XVII (dal carteggio di Ade- laide di Savoia; cfr. Giorn., XXI, 176) ; G. Curcio, Canti popolari religiosi di Sicilia , interessanti notizie intorno allo sviluppo delle rappresentazioni sacre nell'isola. (XI, 3-4): G. Giannini, Lo smisurato , canzone popolare raccolta nella montagna lucchese, parodia della frottola dell'homo pisinin, recentemente pubblicata ed illustrata da Vitt. Rossi (2); A. Lumbroso, Folk- - (1) Il Farinelli lo dà come saggio d'un lavoro non peranco compiuto sulla Spagna nella letteratura italiana, di cui affrettiamo col desiderio la pubblicazione , dopo aver veduto con quanta competenza egli abbia trattato dei rapporti della letteratura spagnuola con la germanica. Di quello scritto annunciammo già la Parte I ( Giorn. , XX, 328). Ora è comparsa anche la seconda. (2) Vedi la lettera sul soggetto che il Rossi inserisce a p. 564 del medesimo Archivio. CRONACA 467 lore Napoleonico , presagi , usi , tradizioni del tempo del primo imperó; G. Pitre, Notizia delle Befane di D. M. Manni, ristampa di un raro opu- scoletto del Manni uscito dai torchi nel 1766; G. Ungarelli, De' giuochi popolari e fanciulleschi specialmente in Bologna fino al sec. XVI. Corriere della domenica ( 1892, ni 24-42) : A. Donatelli, La vita e le opere di Cesare Arici. Atti della R. Accademia delle scienze di Torino (XXVII , 15) , C. Vas- sallo, Sulla bibliot. Carlo Emanuella, dei canonici Lateranensi di S. Maria Nuova in Asti; ( XXVIII , 1) , G. Flechia, Del nome « Ariosto » , nota po- stuma; C. Cipolla, Commemorazione di Carlo Vassallo ; (XXVIII, 2) , S. Cognetti De Martiis, Tracce probabili d'una leggenda indoeuropea nel « Ru- « dens » di Plauto; C. Cipolla, Un documento per la storia dei mercanti « lombardi » a Londra nel sec. XV. La Cultura (II, 9): N. Castagnoli, Un nuovo documento su Galileo ; (II, 11-12), Cega, Federico Barbarossa nel concetto dell'Alighieri. Nella Strenna Piacentina pel 1893 notevole uno scritto di G. NasalliRocca su Ippolito Pindemonte e Piacenza. Rivista delle biblioteche (IV, 39-42): G. L. Passerini, Indice delle notizie di cose cortonesi contenute nelle « Notti coritane » ; M. Fava , Notizia di un incunabulo della tipografia napoletana ignoto ai bibliografi, cioè il Dialogo chiamato Plutopenia di Pietro Jacopo De Jennaro, opuscolo raris- simo, che secondo congettura dell'A. di questa nota sarebbe stato impresso nel 1470-71 (per altre opere del De Gennaro cfr. questo Giornale, VIII, 248 e_XI, 469) (1); L. Randi, Frate Girolamo Savonarola giudicato da Pietro Vaglienti cronista fiorentino. Atti del R. Istituto Veneto (L, 8-9) : F. Stefani , Sul vero autore della « Storia arcana della vita di fra Paolo Sarpi » attrib. a mons. Giusto Fontanini ; (LI , 2) , E. Teza , Di una nuova edizione dell'Istoria del Con- cilio Tridentino, proposte. Rivista di filologia e d'istruzione classica (XXI, 7-9) : L. Valmaggi , La fortuna di Stazio nella tradizione letteraria latina e bassolatina. Il Buonarroti (Serie III, IV, 10) : A. Monaci , Una nota inedita di Gio. Mario Filelfo , su di un Omero del sec. XIII , che è nella bibl. Angelica; G. Frosina-Cannella, Il burlesco nel « Malmantile » di Lorenzo Lippi. Nel giornale di Reggio Emilia L'Italia centrale (an. XXX, n¹ 223 sgg.) G. Azzolini pubblicò uno studio su Shylock e la leggenda della libbra di carne. Ne furono anche tirati alcuni estratti. Nel Giornale d' erudizione si notino specialmente le seguenti comunica- zioni : (IV, 13-14), G. Baccini, Driadeo d'amore, ove si adduce un'altra prova dell' esserne Luca Pulci l'autore ; (IV, 17-18) , C. Alderighi , Dies irae, due versioni ed un travestimento di questa sequenza, da codici fiorentini. Si av- verta poi che col nº 13-14 è cominciata la stampa d'una biografia di Mario Pieri condotta sui volumi inediti delle sue Memorie, con riferimenti di lunghi brani di esse. Il Muratori (1, 4): I. Carini, Diciotto lettere inedite di Fr. Bianchini a ( 1) Sappiamo che il dr. Pèrcopo trovò altri scritti del De Gennaro , di cui darà contezza al pubblico fra breve. 1 468 CRONACA G. Ciampini, dal cod . Vatic. lat. 9063, le lettere , diligentemente illustrate, sono del 1686-88, tranne le due ultime posteriori, e trattano materie erudite ; (1, 5), F. Ermini, Il giuoco del « pis e pisello » , ardite e curiose congetture sulla sua origine; F. Ballerini , Le feste di Gubbio per la nascita di Fe- derico Ubaldo dei duchi d'Urbino, in continuazione. Il Propugnatore (V, 28-29) : E. Cais de Pierlas, Giacobina di Ventimiglia e le sue attinenze famigliari in un nuovo frammento di canzone di Rambaldo di Vaqueiras (vedansi le rettificazioni del Crescini nel fasc. seguente, p. 458); F. Foffano, Un letterato italiano del sec. XVI, cioè Rinaldo Corso; seguitano i Dictamina di Guido Fava, l'indice delle carte Bilancioniane (O-P) , l'articolo del Brognoligo su Luigi da Porto , che termina nel fasc. successivo , e S. Morpurgo dà la bibliografia che fa seguito allo Zambrini , per l'annata 1891. (V, 30) : A. Saviotti , Rime inedite del sec. XV, dal cod. 54 dell'Oliveriana ; B. Feliciangeli, Alcune lettere inedite di B. Castiglione, pure dell' Oliveriana (1519-1522) ; termina il lavoro di C. Mazzi intorno a Leone Allacci e la Palatina di Heidelberg , su cui ci proponiamo di ri- tornare. A completare il II vol. degli Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia , editi da G. Mazzatinti , venne la distinta de' codici della libreria Guarnacci di Volterra, in cui notiamo : un manipolo di laudi in un cod. del sec. XV (pp. 183-185), la Storia di Firenze di Goro Dati con un'appendice di rime antiche (p. 190) , il poema romanzesco in 12 canti di Fierabraccia (cfr. Giorn. di fil. rom. , III, 6, 114, e anche questo Giorn., XVII, 477), un Libro d'amore del sec. XIV, poema diviso originariamente in 266 capitoli, dei quali qui si danno i capoversi (pp. 203-215), ma una cognizione più pre- cisa dell' opera sarebbe assai desiderabile , le poesie del Saccenti (p. 236) e molte ragguardevoli miscellanee di cose umanistiche. Il volume termina col breve elenco de' mss. della bibliot. Benveduti di Gubbio. Il vol. III principia con l'inventario della biblioteca dell'Accademia dei Concordi in Rovigo. L'Ateneo Veneto ( XVI, II, 5-6): A. S. Martorelli, Angelo Poliziano scrit tore della congiura dei Pazzi; termina l'annunciato lavoro di S. Pellini su l'Enrico, poema di Giulio Malmignati. Il periodico Napoli nobilissima continua bellamente il suo veramente << nobile » cammino, ammannendo nelle sue colonne importanti notizie sull'archeologia, sulla storia , sulla topografia , sull' arte antica di Napoli . Col fasc. 8 dell'an. I ha principio un lavoro egregio di B. Croce, Sommario cri- tico della storia dell'arte nel Napoletano. In questo scritto il C. si propone di riassumere la storia delle arti nelle provincie meridionali , dal medioevo alla fine del sec. XVIII, dando insieme le riproduzioni delle principali opere d'arte di cui discorrerà nel testo. Comincia trattenendosi con brio ed erudi- zione sul falsario Bernardo De Dominici. (1,8): Non sfugga, a p. 128, la fede di nascita di Pietro Colletta. (1, 10) : Croce, L'arco di S. Eligio e una leggenda ad esso relativa, cioè la giustizia esemplare che Isabella d'A- ragona avrebbe fatta del violatore d'una sua vassalla, motivo che il C. riscontra in varie novelle del Rinascimento. (I, 11 ): V. D'Auria, La taverna del Cerriglio , se ne rintracciano i ricordi in antichi poeti napoletani. (II , 1) : E. Percopo , Una statua di Tom. Malvico ed alcuni sonetti del Tebaldeo (cfr. Giorn. , XXI, 202). - - - Nuova Antologia (Serie III, vol. XLII) : C. Ricci , G. Antonio Campano; M. Scherillo, Ammiratori ed imitatori dello Shakespeare prima del Man- zoni ; T. Casini, Terenzio Mamiani in esilio. (vol. XLIII) : L. Ferri, Il carattere dello spirito italiano nella storia della filosofia ; E. Masi , Pel centenario di Carlo Goldoni; F. D'Ovidio , Un curioso particolare nella storia della nostra rima. (vol. XLIV): T. Casini, La giovinezza di Terenzio Mamiani, da ricordi e carteggi inediti. CRONACA 469 Rivista storica italiana (X, I) : A. Salvagnini, La Raccolta Colombiana; C. Merkel, Di'alcuni recenti studi intorno a Crist. Colombo. Miscellanea Francescana (V, 5) : F. Novati , L' « Anticerberus » di fra Bongiovanni da Cavriana analizzato ed illustrato , continuazione ; M. Faloci-Pulignani, Un quadro francescano, ricerche documentate sulla Madonna di Foligno di Raffaello. L'Alighieri (IV, 3-4): F. Pasqualigo, Pensieri sull'allegoria della « Vita « Nuova », seguita nel fasc. successivo ; G. Agnelli, La Lombardia e i suoi dialetti nella Div. Commedia; F. Ronchetti, Ancora sulla correzione « in- « neggiar » al XII, 142 del Paradiso. — (IV, 5-6): Prompt, Il pianeta Ve- nere e la donna filosofica, frammento d'un lavoro in cui l'A. si propone di dimostrare che il sistema del mondo seguito da D. è il pitagorico e non il tolemaico; A. De Vit, Della casa nella quale Dante fu ospitato in Padova; A. De Vit, Il Gerione dantesco. da Zeitschrift für romanische Philologie (XVI, 3-4) : E. Gorra , Il dialetto di Parma; M. Menghini, Villanelle alla napolitana , in continuazione , un cod. Chigiano della fine del sec . XVI; Gust. Meyer , andar al potamò , modo veneziano per morire, zanca = scarpa, dichiarazioni etimologiche. La Zeitschrift ha pure pubblicato il suo XIII supplemento bibliografico, che riguarda tutte le pubblicazioni del 1888. Revue des questions historiques (XXVII, 105) : Pierling, Léon X et Va- sili III, projets de ligue antiottomane; (XXVII , 106) : H. Cochin , Le Pétrarquisme moderne , à propos d'un livre récent, l'opera del De Nolhac. Bibliothèque de l'école des chartes (LIII, 4-5) : H. Omont, Nouvelles_acquisitions du département des mss. de la bibliothèque nationale pendant l'année 1891-92, a pp. 368 sgg. v'è la lista dei codici italiani, per cura di L. Auvray, che è una appendice all'inventario del Mazzatinti (scritture sto- riche e letterarie dei secoli bassi); P. M. Perret, Le discours d'Angelo Ac- ciajuoli au roi de France, 1453. Annales du Midi (V, 17) : L. Duchesne , La légende de sainte Marie Madeleine. Revue sextienne ( 1892): L. Constans, Un ms. inconnu de la version ita lienne de la première guerre punique de Leonardo Bruni Aretino. Mélusine (VI, 6) : H. Gaidoz, La Vierge aux sept glaives , curiosissima ricerca iconografica, che ricollega a rappresentazioni pagane la nota Vergine dai sette dolori , della cui figura indaga le origini nel medioevo; (VI, 7) : G. Doncieux, La fille qui fait la morte pour son honneur garder, motivo popolare di canzonetta narrativa, diffuso anche in Italia. Historisches Jahrbuch (XIV, 1) : Gottlob , Aus der Rechnungsbüchern Eugens IV zur Geschichte des Florentinums ; H. J. Wurm, Zu Marsilius von Padua; Al. Meister, Die Nuntiatur von Neapel im XVI Jahrhundert. Mémoirs de la Société de l'histoire de Paris et de l'Ile-de-France, vol. XIX, (1892): L. Auvray, Documents parisiens tirés de la bibliothèque du Vatican; L. G. Pélissier, Nouvellistes italiens à Paris en 1498. Dall'archivio di Milano estrae varie relazioni di oratori italiani spediti a Parigi per esplorare l'animo di Luigi XII. Romania (XXI , 84) : P. De Nolhac, Le « Gallus calumniator » de Pé- trarque , sulla scorta d'un codice parigino dimostra essere Jean de Hesdin quel francese contro il quale il Petr. scrisse l' Apologia contra cuiusdam anonymi Galli calumnias, ed illustra quella polemica. 470 CRONACA Beilage zur Allgemeinen Zeitung (234-35) : G. Ramberg, Romeo und Julie in der Bühneneinrichtung von Goethe; (277), M. Landau, Ein Staatssecretair als Dichter , a proposito delle Rime del Chariteo edite dal Pèrcopo ; (294 e sgg.), A. Schultheiss, Die Gesellschaft der ital. Renaissance in Li- teratur und Geschichte. Bibliothèque universelle (ott. e nov. '92) : Ed. Rod , Les idées politiques de Dante. Jahrbuch des Vereins für nd. Sprachforschung (XVII) : W. Seelmann , Die Totentänze des Mittelalters. Modern language notes (VII, 7) : Th. A. Jenkins , Note on a Paris Ma- nuscript of Guerino il Meschino. Revue de philologie française et provençale (VI, 3) : L. Clédat, La versification française et particulièrement la versification lyrique au moyen âge. Protestantische Kirchenzeitung (1892, 46-49) : J. Kradolfer , Die anticle- ricalen Stellen bei Dante. The Academy (1075) : Toynbee, Dante's Guizzante, the mediaeval part of Wissant. A proposito d'Inf., XV, 4. Vedi discussione nei ni 1076, 1077, 1079, 1080 del medesimo periodico. The Saturday Review ( 1934) : Dante's De Vulgari Eloquio , sulla ripro- duzione del cod. di Grenoble. Mémoires et documents de la Société d'histoire de la Suisse Romande (N. S., IV, 1): A. Piaget, Poésies françaises sur la bataille de Marignan, 1515. Études de philologie néo-grecque (1892) : J. Schmitt, La Théséide de Boc- cace et la Théséide grecque. Deutschnationales Jahrbuch (III, 1893): L. Neumann, Ein deutsches Volks- fest in Piemont. Revue de la Société des études historiques (Serie IV, vol. IX) : Formont, Le véritable génie de Dante. Deutsche Zeitschrift für Geschichtswissenschaft (VIII, 1) : F. v. Bezold, Astrologische Geschichtsconstruction im Mittelalter, articolo dotto e curioso. Deutsche Rundschau (an. XIX, 1): 0. Hartwig, Florens und Dante, la fine dello scritto molto notevole è nel fascic. successivo ; (XIX , 2) , H. Grimm, Leonora von Este, esamina esclusivamente la maniera com'è rappresentata nel T. Tasso del Goethe. Journal des savants (nov. '92): G. Paris, Origines du théâtre italien, recensione delle Origini del D'Ancona. Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Litteraturen (XC, 1-2) : A. L. Stiefel , Ein Fastnachtspiel des Hans Folz und seine Quelle, relazioni coi Gesta Romanorum; V. Ryssel, Die syrische Uebersetzung des Pseudo-Callisthenes , tradotta qui in tedesco; E. Koeppel, Chaucer und Alanus de Insulis ; A. Tobler, Streit zwischen Veilchen und Rose, ripubblica, dopo nuova collazione col ms. di Vienna, il contrasto già edito dal Biadene (cfr. Giorn. , XXI, 199) e propone altre correzioni. Revue des bibliothèques ( II, 9-10): L. Dorez, Latino Latini et la bibliot. de Viterbe , in questo primo articolo si occupa della libreria del card. Ro- CRONACA 471 dolfo Pio di Carpi e ne pubblica l'antico inventario; A. Thomas, Note sur Fr. Bergaigne traducteur de Dante, due indicazioni a proposito del libro dell'Auvray, di cui s'è discorso in questo Giorn., XXI, 187.* Pellechet, Alphabets des imprimeurs du XVe siècle. - (III, 1) , M. Revue des deux mondes (vol. 114) : E. Müntz , Michel-ange , prendendo occasione dal recente studio di Em. Ollivier, mette in chiaro ciò che le ultime pubblicazioni hanno aggiunto di nuovo alla conoscenza del sommo ar- tista. (vol. 115) : Ch. V. Langlois , L'éloquence sacreé au moyen âge; J. Klaczko, Rome et la Renaissance, lungo articolo fatto con garbo e buona cognizione della materia, che continua nel vol. 116 e tratta più specialmente della storia artistica durante il pontificato di Giulio II ; G. Valbert, Alberoni et sa correspondance avec le comte Rocca , ministre des finances du duc de Parme. Revue historique ( LI, 1 ) : H. Harisse, Autographes de Christ. Colomb ré- cemment découverts. Annales de la Faculté des lettres de Bordeaux ( 1892) : F. Bouvy, Dante et Vico. Gazette des beaux arts (n¹ 427-428): Fr, Wickhoff, Les écoles italiennes au Musée de Vienne ; (nº 428) : A. Pératé, Études sur la peinture Siennoise ; Duccio. Revue d'histoire diplomatique (VI, 3) : C. Sayons , Mathias Corvinus , a proposito del libro del Fráknoi, di cui si ha ora una traduzione tedesca. manze. - * Dell'ottimo Grundriss der romanischen Philologie, diretto da Gustavo Gröber, comparve da tempo, come a tutti è noto, il I vol. , che ha la data di Strasburgo 1888. Quel volume comprende una introduzione riguardante la storia della filologia romanza, un'altra introduzione sulle fonti di essa e sul metodo migliore per servirsene, le speciali trattazioni delle varie lingue roOra è uscita la prima dispensa (di 16 fogli di stampa) del vol II, P. I. Il Grundriss entra con essa in un territorio che riguarda molto più dappresso gli studî nostri. S'apre infatti questa dispensa con un importantissimo scritto di Edm. Stengel sulla metrica romanza (Metrik der romanischen Sprachen). All'impresa ardua e senza precedenti di rappresentare in un grande quadro la storia comparata della metrica romanza, lo St. s'è accinto dopo una larga esplorazione di testi, segnatamente francesi e provenzali. Inutile l'aggiungere ch'egli ha tenuto conto di tutti i lavori speciali che esistono su l'una o l'altra parte del vasto soggetto, deplorando che molti dei lavori analitici preparatorî , indispensabili alla sintesi , facciano ancora difetto. Gli studiosi non mancheranno di far buon viso a questo scritto compensivo, anche se i risultati di esso non possono tutti giudicarsi ugualmente sicuri e definitivi. Per quel che concerne la metrica italiana, vogliamo notare ciò che lo St. osserva intorno all'origine del nostro endecasillabo (pp. 27-28) , sull'uso del dodecasillabo tra noi ( pp. 31-32) , sulla questione ancor così poco chiara dell'iato e dell'elisione nella poesia italiana (p. 42) ecc. ecc. Reca inoltre il fascicolo buona parte del compendio storico della letteratura basso latina, dal VI sec. al 1350, dovuto al direttore prof. Gröber. È quasi una prefazione, non certo inutile, alle storie letterarie dei singoli popoli romanzi, che saranno esse pure trattate da specialisti nel seguito del volume. 472 CRONACA Se non intervengono mutamenti , la letteratura francese verrà esposta dal Gröber, la provenzale dallo Stimming , la catalana dal Morel-Fatio, la spagnuola dal Baist, la portoghese dal Braga e dalla Michaëlis, la italiana dal Casini, la rumena dal Gaster, la retoromanza dal Decurtins. * Tra le più recenti monografie storiche ne sia concesso di menzionarne qui due, che hanno speciale importanza per gli studiosi del nostro Rinascimento. Negli Annali della R. Scuola Normale superiore di Pisa Vitt. Fanucci pubblicò un suo scritto accurato e ben condotto su Le relazioni tra Pisa e Carlo VIII (Pisa, 1892). E basato su largo materiale inedito dell'Archivio di Stato in Pisa. Nelle Mémoires de l'Académie des sciences et lettres de Montpellier L. G. Pélissier inserì un articolo diligente ed esteso su Le traité d'alliance de Louis XII et de Philibert de Savoie en 1499 (Montpellier, 1893). Anche questo scritto si fonda su documenti inediti, anzi quasi esclusivamente su documenti inediti, che furono rintracciati negli archivî di Milano, di Torino e di Mantova. - * Fra le molte pubblicazioni spicciolate di lettere d'illustri letterati che si vennero facendo recentemente notiamo le lettere di V. Monti edite da M. Tovajera nel Fanfulla della domenica ( 1892, nº 34) e l'altra lettera Montiana al march. G. B. Costabili prodotta da Ant. M. Josa per nozze PivettaMorandi (Padova, 1892). Sappiamo che i professori Mazzatinti e Bertoldi attendono alla pubblicazione d'un epistolario del Monti che completerà quello, ormai deficentissimo, dell'ediz. Resnati. All'epistolario del Muratori, oltre M. Campori (cfr. Giornale, XX, 463) , contribuì Policarpo Guaitoli (Carpi, Rossi , 1892) , che dà una serie di lettere del Muratori a Franc. Contarelli di Correggio. Di A. Manzoni non deve sfuggire una lettera del 12 gennaio 1829, contenente il suo giudizio sulla Farsaglia volgarizzata dal Cassi, che F. Albini mise in luce per nozze Palazzi-Giannuzzi-Savelli (Pesaro, Federici, 1892) . Un'altra lettera inedita del Manzoni fu pubblicata da C. Agresti nel vol. XVII degli Atti dell'Accademia Pontaniana di Napoli. In Natura ed arte del 1º ottobre 1892 G. De Castro pubblicò una lettera di S. Pellico al Borsieri (18 agosto 1818) sulla prima rappresentazione della Francesca da Rimini. - - * Si noti H. Janitscheck , Die Kunstlehre Dantes und Giottos Kunst, Leipzig, Brockhaus, 1892. È una prolusione ad un corso di storia dell'arte iniziato dallo Janitscheck nella Università di Lipsia. Il chiaro autore vi espone le teorie estetiche dell'Alighieri, mostrando ciò che hanno di originale e ciò che è desunto da S. Tommaso. Viene quindi a giudicare la nuova espressione della vita che è nei dipinti di Giotto e riconosce in essa una specie di attuazione pratica delle teorie dantesche. Nessuna cosa meglio di questo discorso vale a chiarire il noto passo del Purgatorio ( XI , 94 sgg. ) in cui Dante contrappone l'arte di Giotto a quella di Cimabue. * Il più ragguardevole libro sulla storia artistica italiana del Rinascimento che sia comparso nell'anno testè decorso è quello di Cornel v. Fabriczy, Fi lippo Brunelleschi , sein Leben und seine Werke, Stuttgart , Cotta , 1892. Vedine estesa recensione nell'Arch. stor. italiano, serie V, vol. X, pp. 391 sgg. * In questo Giornale, XIII , 470 si annunciava con lode, anni sono, l'utilissimo prontuario bibliografico di G. Ottino e G. Fumagalli, Bibliotheca CRONACA 473 bibliographica italica. Nonostante il copioso materiale ivi registrato e di cui gli studiosi trassero e trarranno il migliore partito , l'opera non può dirsi compiuta, nè ai chiari autori passò per la mente di darla come tale. Ad agevolare il suo compimento pubblicò Curzio Mazzi, nella Rivista delle biblioteche, una ragguardevole serie di aggiunte, che raggiunsero i 1302 numeri, e ora tali aggiunte, conformate all'ordinamento della Bibliotheca e corredate di indici, uscirono in un volumetto col titolo di Indicazioni di bibliografia italiana, Firenze, Sansoni, 1893. Il valore di queste aggiunte verrà, peraltro , a cessare ben presto , per causa affatto indipendente dal benemerito compilatore, giacchè nel prossimo autunno la Casa Clausen di Torino metterà in commercio un II vol. supplementare , della Bibl. bibliographica, che avrà, press'a poco, la stessa mole del primo, e porterà i nomi dei due bibliografi medesimi. Ivi si troveranno tutte le aggiunte, in maggior copia ancora di quelle indicate dal Mazzi, e vi saranno inoltre registrate le pubblicazioni del quinquennio 1888-92. Quindi con questo volume potrà dirsi completata la bibliografia delle bibliografie italiane a tutto il 1892. * Gli studiosi di qualsiasi disciplina storica hanno continuo bisogno delle biblioteche ed è quindi naturale che prendano interesse al loro ordinamento ed incremento. È per ciò che raccomandiamo qui un pregevolissimo libro tecnico, il Manuale di biblioteconomia di Arnim Gräsel, tradotto in italiano da Arnaldo Capra, Torino, Loescher, 1893. È un repertorio copiosissimo e saggiamente ordinato di notizie sulle biblioteche contemporanee, segnatamente di Germania e d'Inghilterra, con aggiunte, per opera del traduttore, intorno alle maggiori d'Italia. Ornato di figure e di piante , questo Manuale è di consultazione proficua per chi custodisce i libri, e di lettura piacevole per chi ama di possederne e di giovarsene. Al qual proposito menzioneremo anche un recente opuscolo di Alberto Geisser, Deve Torino avere una biblioteca circolante?, Torino, Artigianelli, 1893, perchè vi si leggono molte note statistiche relative alle biblioteche popolari di tutto il mondo. Il prefetto della Braidense, Emidio Martini, ha iniziato (Hoepli editore) la pubblicazione d'un Catalogo di manoscritti greci esistenti nelle biblioteche italiane. Il vol. I , P. I , ora uscito , si occupa di Milano , Brera e Archivio del Capitolo Metropolitano ; Palermo, bibl. e museo nazionali ; Parma, bibl . Palatina ; Pavia, bibl. universitaria. * G. Salvo-Cozzo, con uno scritto intitolato Di Giovanni Aurispa e della cronologia di alcune sue lettere, Palermo, 1892 (estr. dal vol . XVII dell'Arch. storico siciliano) risponde a G. A. Cesareo (cfr. questo Giornale, XIX, 457) ed all'articolo di R. Sabbadini Ancora l'Aurispa ( Giorn. , XIX , 357 sgg. ). A sua volta, R. Sabbadini, in un opuscolo stampato a parte, Polemica umanistica, Catania, tip. Sicula, 1893, risponde brevemente alla succitata scrittura del Salvo-Cozzo e con maggiore estensione alle censure mossegli, a proposito del Valla, da G. Mancini, nel nostro Giornale, XXI, 1 sgg. In questa parte dello scritto egli propone notevoli rettificazioni al testo delle lettere del Valla edite dal Mancini e discute la cronologia d'un gruppo di esse. * Hanno la intenzione di difendere il carattere del Guicciardini contro le accuse mossegli da varî le Spigolature Guicciardiniane di A. Buscaino Campo, Trapani, tip. Messina, 1892. 474 CRONACA • Rilevante contributo alla storia dell'umanesimo è il libro di Dom. Vitaliani , Della vita e delle opere di Nicolò Leoniceno vicentino , Verona, Sordo-muti, 1892. Vedi la recensione favorevole del Sabbadini nella Cultura, N. S., an. II, p. 95. È uscita una seconda edizione, notevolmente aumentata, dėl noto libro di K. Benrath su Bernardino Ochino v. Siena, Braunschweig, Schwetschke, 1892. Il senatore Pier Desiderio Pasolini ha pubblicato la sua grande opera su Caterina Sforza (Roma, Loescher, 1893) . Sono tre grossi volumi, con moltissimi documenti ed un lusso veramente principesco di riproduzioni fototipiche. Ne parleremo in seguito. Merita nota il discorso con cui il prof. Pietro Ragnisco inaugurò l'anno scolastico nell'Università di Padova. Egli trattò Della fortuna di S. Tommaso d'Aquino nella Università di Padova durante il Rinascimento. • Nel volume pubblicato in Ferrara (tip. Sociale, 1892) pel quinto centenario di fondazione dell'Università di Ferrara, il prof. Gius. Agnelli inserì un discorso su Fulvia Olimpia Morato. * A. Giannini ebbe la buona idea di pubblicare una edizione scolastica annotata dei Sermoni di Gaspare Gozzi, Palermo, 1893. * Troviamo annunciati : Teresa Affo, L'Orlando Innamorato del Boiardo, saggio (Milano, tip. Golio, 1893) ; Fil. Sensi, Sulle condizioni della cultura in Roma alla fine del sec. XVI (Roma, tip . Mantegazza, 1892) ; A. Borgognoni, Il dialogo di Federigo Ruysch e delle sue mummie, saggio d'interpretazione (Verona, Tedeschi, 1892) ; G. Annibaldi, Il Colombo e la città di Iesi, a proposito del poema di Giov. Giorgini Il nuovo mondo (lesi, tip. Spinaci, 1892) ; T. Casini , Pesaro nella Repubblica Cisalpina (Pesaro , Federici, 1892). * È d'imminente pubblicazione uno scritto del sig. Giorgio Trenta su La tomba di Arrigo VII, monumento nel Camposanto urbano di Pisa. Il lavoro sarà corredato di documenti inediti e vi saranno studiate le relazioni di Dante con Arrigo e coi Pisani. * Il dr. Domenico Merlini ha già molto avanzato un lavoro intorno La satira contro il villano. L'argomento sarà da lui specialmente studiato nella letteratura del sec. XVI. * Ci viene riferito che i signori Giorgio Rossi e Mario Martinozzi attendono a due lavori molto utili . L'uno sta compilando la bibliografia delle raccolte di lettere dei secoli XVI e XVII ; l'altro quella delle raccolte di rime dei medesimi due secoli. Auguriamo ai due volonterosi di condurre presto a compimento i loro lavori, che riusciranno molto comodi agli studiosi. * L'editore N. Giannotta di Catania pubblicherà in autunno il I vol. di un'opera di G. A. Cesareo intorno La poesia d'arte ne' primi due secoli. Questo primo volume avrà per titolo La poesia siciliana sotto gli Svevi e tratterà delle due prime generazioni di poeti siciliani, quella di Federico II e quella di Manfredi, non che dei poeti non siciliani contemporanei, che vissero a quella corte o furono in rapporto con essa. * Un nuovo ed importante studio ci vien preparando la mirabile attività del nostro caro prof. F. Flamini. Egli considererà nel suo complesso la lirica volgare dal Poliziano al Bembo. CRONACA 475 * Il prof. Antonio Piccarolo annuncia come di prossima pubblicazione due suoi scritti di soggetto assai diverso, ma entrambi per noi interessanti . L'uno è uno studio su Sordello e Cunizza nella leggenda, l'altro una raccolta di Notizie biografiche, bibliografiche e lettere inedite di Giuseppe Vernazza. * La biblioteca gloriosa degli Aragonesi ha trovato il suo illustratore nel solerte bibliografo prof. G. Mazzatinti. Egli pubblicherà presso la Casa editrice Clausen di Torino un volume ben nutrito su La biblioteca dei re d'Aragona in Napoli, in cui studierà la fortuna di quei codici ora dispersi. * Ad una raccolta di Profezie politiche si annuncia che sta attendendo il prof. A. Medin. Sarà degno complemento alla raccolta Frati-Medin de' Lamenti, della quale gli studiosi desidererebbero veder presto il quarto ed ultimo volume. * Mentre il prof. Mestica sta attendendo alla stampa del Canzoniere pe trarchesco giusta l'autografo della Vaticana, i professori G. Carducci e S. Ferrari annunciano un volume con Le rime di F. Petrarca riviste su autografi, codici e stampe, e commentate. Il vol. uscirà sul principio del 1894 e ne sarà editrice la Casa Sansoni. * La giovane, e pur già molto benemerita , Società storica Abruzzese si propone di pubblicare nel 1894, pel centenario di Celestino V, uno speciale volume che conterrà parecchie monografie su quel papa così variamente giudicato. Non si mancherà in esse di esaminare novamente le interpretazioni date al celebre verso dell'Alighieri. * Il premio quadriennale della fondazione Diez, che nel 1884 fu concesso al Rajna e nel 1888 al Gaspary, venne conferito nel 1892 a Gugl. MeyerLübke per il primo volume della sua ottima Grammatik der romanischen Sprachen. Cfr. Giorn., XVII, 432. L'Accademia Dafnica di Acireale pone a concorso, promettendo un premio, il tema : La natura nel poema di Lucrezio e nel poema di Dante. Il termine scade col 31 agosto. * Tesi di laurea e programmi : E. Strauch , Vergleichung von Sibotes « Vrouwenzucht » mit den anderen mittelhochdeutschen Darstellungen derselben Geschichte, sowie dem fabliau « De la male dame » und dem Märchen des Italieners Straparola (progr. ginn. , Breslau) ; G. Bauch, Rudolphus Agricola, ein Beitrag zur Geschichte des Humanismus (progr. Bürgerschule, Breslau) ; F. Deubner, Quelques remarques sur « Werther » de Goethe et « Ultime lettere di Jacopo Ortis » de Foscolo (progr. scuola reale, Wiesbaden) ; H. Emecke, Chrestien von Troyes als Persönlichkeit und als Dichter (tesi di laurea , Strassburg) ; G. Osterhage , Erläuterungen zu den sagenhaften Teilen in Tassos befreitem Jerusalem (progr. ginn. Humboldt, Berlino). * Pubblicazioni recenti (1) : OLIVIERO Jozzi. - Il cardinale Scipione Gonzaga dei principi di S. Martino e di Bozzolo , revisore della « Gerusalemme liberata » di Torquato Tasso. - Viterbo, tip. Monarchi, 1892. DANIELE PALLAVERI. - Ugo Foscolo. Livorno, Vigo, 1892. (1) Gli annunci analitici , già licenziati alla stampa , dovettero questa volta essere rimandati per la solita tirannia dello spazio. 476 CRONACA FILIPPO CACCIALANZA. di Luigi Alamanni. OSCAR SCHULTZ. - - - Le « Georgiche » di Virgilio e la « Coltivazione > Studi e raffronti. Susa, tip. Subalpina, 1892. Die Briefe des Trobadors Raimbaut de Vaqueiras an Bonifaz I, Markgrafen von Monferrat. Halle, Niemeyer, 1893. GIUSEPPE ZIPPEL. 1 suonatori della Signoria di Firenze. Saggio. -- Trento, Zippel, 1892. - - ARTURO GRAF. Miti, leggende e superstizioni del medio evo. Vol. II. Torino , Loescher, 1893 [ La leggenda d'un pontefice. - Demonologia di Dante. Un monte di Pilato in Italia. Fu superstizioso il Boccaccio? San Giuliano nel « Decamerone » e altrove. - Il rifiuto di Celestino V. - La leggenda d'un filosofo. Artù nell'Etna. Un mito geografico] . · ANTONIO BELLONI. dova, Draghi, 1893. ULISSE MICOCCI. - - - · Gli epigoni della Gerusalemme liberata. · - PaDante nella moderna letteratura italiana e straniera. Milano, Kantorovicz, 1893. GIULIO CAPONE e SALVATORE MARANO. colo. -Salerno, Jovene, 1892. -Un poeta satirico del XVII seGIACOMO DE GREGORIO. Il Libro dei vizii e delle virtù, testo siciliano inedito del sec. XIV. Palermo, 1893. CLAIR TISSEUR. - Modestes observations sur l'art de versifier - . — Lyon, Bernou et Cumin, 1893. GIORGIO TRENTA. - L'esilio di Dante nella Divina Commedia. - Pisa, Spoerri, 1892. JOVIANO PONTANO. da Ferd. Gabotto. E. VOLPI. - Lettere inedite in nome de Reali di Napoli, publ. - - Bologna, Romagnoli-Dall'Acqua, 1893. Storie intime diVenezia repubblica.- Venezia, Visentini, 1893. GIUSEPPE Rossi. Girolamo Fracastoro in relazione all' Aristotelismo e alla scienza del Rinascimento. VITTORIO AMEDEO ARULLANI. rino-Palermo, Clausen, 1893. . Pisa, Spoerri, 1893. - Lirica e lirici nel secolo XVIII. -ToM. v. WOLFF. Seemann, 1893. -Lorenzo Valla, sein Leben und seine Werke. - Leipzig, PUBBLICAZIONI NUZIALI. NOZZE CASSIN-D'ANCONA. Una domestica allegrezza del prof. Alessandro D'Ancona, le ben auspicate nozze della maggiore delle sue figlie , la colta e gentile signorina Matilde, col sig. Eugenio Cassin di Cuneo , ha pôrto occasione a molti fra gli estimatori ed amici dell'illustre uomo, cultori di svariate discipline, di dare alla luce scritti anch'essi per contenuto e per indole variamente pregevoli. Noi non faremo, naturalmente, menzione qui se non di quelli che offrono per la nostra storia letteraria un particolare interesse (1). FRANCESCO TORRACA. - Fatti e scritti di Ugolino Buzzola. - Roma, stabil. tip. dell'Opinione (8º, pp. 32 ; ed . di 50 es. ). [Di U. Buzzola Dante fa menzione nel De vulg. el. come di uno di que' romagnoli , i quali , poetando, si scostarono dal loro dialetto per assorgere al volgare illustre, e (1) Stacchiamo solo da questa rassegna la pubblicazione di L. BLADENE , Cortesie da tavola in latino ed in provenzale, di cui si discorre con maggiore larghezza nel Bollettino di questo fascicolo. CRONACA 477 Francesco da Barberino ne' Documenti d'Amore afferma ch'egli aveva scritto in ydiomate Faventinorum, rimis ornatissimis atque subtilibus, un poema didattico De salutandi modis. Disgraziatamente il poema oggi è perduto e dell'attività poetica di Ugolino non ci riman altro saggio che due brutti ed oscuri sonetti che il Torraca ripubblica. Più numerosi invece sono i documenti della sua vita pubblica, per la prima volta raccolti e cronologicamente coordinati in quest'opuscolo. Vero figlio di quella terra che « non fu mai « Sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni » e di quel frate Alberico de' Manfredi, da Dante immortalato con uno de' suoi tocchi scultorî, Ugolino ci appar quasi sempre avvolto in congiure, in battaglie. Del 1279 lo vediamo fidejussore in Bologna de' Geremei per la pace stipulata da costoro coi Lambertazzi ; del 1282, eletto podestà di Bagnacavallo per mesi sei ; del 1285 complice dell'assassinio di Manfredo ed Alberguccio Manfredi , ond' ebbe bando da Faenza. Del 1287 fa pace co' Malatesta e nel 1292 milita nell'oste contro Rontana ; del '95 per essere rimesso in patria manda ostaggio al conte di Romagna il figlio generatogli da Patrizia Accarisi ; ma tornato in Faenza coi suoi consorti egli rinfocola le ire cittadinesche , tentando di ribellar il comune alla Chiesa. Fu dunque in mezzo al tumultuar delle fazioni che l'otto di gennaio 1301 lo coglieva la morte. A questi dati assai >tevoli sulla biografia del B. il T. aggiunge poi le notizie che di lui come scrittore dà Francesco da Barberino , che lo conobbe di persona, nel suo Commento ai Documenti d'Amore] . ISIDORO DEL LUNGO. -Un vecchione fiorentino del sec. XIII. Firenze , tip. Carnesecchi (8º picc. , pp. 10 ; ed . di 100 es. ) . [ Il D. L. ristampa qui di sull'autografo una pagina delle Ricordanze del fiorentino Donato Velluti, ov'è dipinta con rara vigoria di stile la marziale figura di Bonaccorso di Piero († 1296), che « vivette bene CXX anni », fu « grande mangiante », e << grande combattitore contra paterini e eretici, quando di ciò palesemente in << Firenze si combattea... al tempo di san Piero Martire ». Il brano è stato ora riprodotto a pp. 522 sg. del vol. I del Manuale della lett. it. , compilato da A. D'Ancona ed O. Bacci ] . GIUSEPPE MAZZATINTI. Perugia. - - Costituzioni dei Disciplinati di S. Andrea di Forli , tip. Bordandini (8º gr., pp. 14) . [ Questi statuti furono compilati « nelgl'agne de meser domene Dio mille trecento . LXXIIIJ . a « dì . XV . del mese de setenbre nella dictione quinta de mesere Grigorio « papa undecimo » ; e sono tratti da quel medesimo codice, oggi posseduto dalla Comunale di Perugia , dove si leggono le laude , studiate dal professore E. Monaci ne' suoi Appunti per la storia del teatr. ital. , in Riv. di fil. rom. , I, 4]. FRANCESCO NOVATI. Il libro memoriale de' figliuoli di M. Lapo da Castiglionchio (1382). Bergamo, stab. tip. fratelli Cattaneo (8° gr. , pp. 32 ; ediz. di 80 es. , di cui 12 in carta distinta) . [ Pochi mesi dopo la morte di M. Lapo da Castiglionchio, che la rivolta de' Ciompi aveva costretto a fuggir da Firenze , dove i suoi beni erano stati confiscati e le sue case messe a ruba, i di lui figliuoli ottenevano di ritornar in patria e di riavere le paterne sostanze. Allora appunto il primogenito di M. Lapo, Bernardo, canonico della cattedrale, diè opera a raccogliere le memorie de' fatti proprî in un Registro Giornale storico, XXI, fasc. 62-63. - - 31 478 CRONACA che, insieme a due altri dovuti ai fratelli suoi, si conserva oggi nel R. Archivio di Stato in Firenze. Da questo Registro derivano le note relative ai crediti di M. Lapo , ai suoi beni immobili , ai suoi libri , qui pubblicate. Fra i libri, oltrechè parecchie scritture di M. Lapo, fin qui sconosciute, è rammentato il celebre codice delle Epistole del Petrarca, oggi conservato nella Laurenziana]. - - - ― - IRENEO SANESI. Sonetti inediti di m. Francesco Accolti d'Arezzo. Pisa, tip. Mariotti (8° picc. , pp. 58 ; ed. di 54 es .) . [ Sono undici componimenti, cavati da varî codd. fiorentini (i Ricc. 1142, 1154, 1880 ed il Magl. II, IV, 126). Ne rechiamo qui i capoversi per comodo degli studiosi : 1 , Candide rose ornate di fin ostro. 2, Se per sempre languire a capo basso. 3, Io non so s'io potesse almeno in parte. 4, Poichè il nostro signor, madonna, elesse. 5, Ornatissimo spirto e chiaro ingegno. 6, Perseguendomi Amor nel modo usato. — 7, Li occhi che'l mio signore in testa porta. 8, Ecco quel grazioso aspetto degno. 9, Per mostrar come in donna eletta regna. 10, La mia dolce nemica che saetta. 11, Ciò che il vulgo ignorante apprezza ed ama. Al 3º son. , indirizzato ad Isotta d'Este, segue la risposta, scritta in nome della dama da Giovanni Suardi da Rimini ; l'11° è preceduto dalla proposta di Lodov. Petronio ; Io ò sentito e visto la gran fama]. - - - ― - - PIO RAJNA. Pulzella gaia. Cantare cavalleresco. Firenze, tip. Bencini (8º picc.; pp. 44) . [Da quel ms. istesso, posseduto già dal march. D'Adda, donde egli trasse la Storia di Stefano, il Rajna dedusse questo grazioso cantare; il che equivale a dire , che la forma ne è assai guasta ed il colorito spiccatamente dialettale. Ma qui con giudizioso consiglio l'E. ha ricondotto i versi zoppicanti a corretta misura e liberato il testo , originariamente toscano, per quanto sembra, dalla patina veneta che vi si era sopra addensata. Pur riserbandosi a trattar altrove de' fonti del cantare, l'E. avverte fin d'ora ch'esso ha stretti rapporti con quella antica tradizione, indubbiamente celtica, donde emanarono i due lais di Lanval e di Graelent , cioè a dire gli amori d'un prode cavaliere con una fata, che sono violentemente rotti, quando l'incauto amante rivela contro la promessa fatta il segreto della sua felicità. In Pulzella gaia l'eroe dell'avventura è cosa degna di nota Galvano, il quale, perduta come Lanval la sua bella , muove a farne ricerca, e dopo perigliose avventure la rinviene. Oltrechè i due Lais ricordati , è da riavvicinare alla Pulzella anche il Florimont, che nella sua prima parte a noi, anche adesso, sembra pur sempre d'ispirazione celtica]. - - - FRANCESCO FLAMINI. Peregrino Allio , umanista , poeta e confilosofo del Ficino. Pisa, tip. Mariotti (8º, pp. 44 ; ed. di 97 es. , di cui 4 in carta avorio). [Pellegrino Agli, d'antica famiglia fiorentina, figliuolo d'una Medici, vuoi per la consanguineità, vuoi per l'amore agli studi letterarî e filosofici, di cui diè indizio fin dai più teneri anni, entrò presto a far parte della brigata erudita, che si raccoglieva intorno al Magnifico. Il Fl. in questo elegante volumetto ne ha raccontato la breve ed agitata esistenza e ricordate le poche scritture , saggio di quel più che Pellegrino avrebbe potuto produrre se non fosse anzi tempo caduto sotto la falce della morte]. P. e L. BARBERA e ORAZIO BACCI. - Lettere inedite di Marco Parenti, CRONACA 479 setaiuolo fiorentino del sec. XV. -Firenze, tip. Barbèra (80 gr. , pp. 40 ; ed. di 150 es. num.). [ In quest'opuscolo, esemplato per cura de' solerti editori-tipografi Barbèra, « su quelle forme che il gran Bodoni trovò e usò nel << classico Manuale dell'arte tipografica », O. Bacci ha pubblicato quattro lettere di Marco Parenti, che sposò il 4 agosto 1447 Caterina figliuola di Ales. sandra Strozzi , e ne ebbe quel Piero , che scrisse la Cronica famosa. Son desse dirette a Filippo da Matteo Strozzi , suo cognato , che fra il 1447 ed il 1448 dimorava per ragione di commerci a Napoli, ed alle notizie minute delle private faccende vi si mescono accenni ai pubblici fatti ed ai politici negozî di quegli anni ] . MICHELE BARBI. -Antonio Manetti e la novella del Grasso legnaiuoto. Firenze, tip. Landi (8°, pp. 12). [Al valente architetto fiorentino volle Gaetano Milanesi attribuire la notissima scrittura in cui si narra con gustosa vivacità la burla fatta in Firenze al Grasso da certi suoi amici. Il B. riprende adesso in esame la questione e vagliando gli argomenti addotti dal Milanesi mostra ch'essi non sono tali da poterne trarre la certezza che il Manetti abbia realmente scritta la Novella. Dei molti rifacimenti della quale e delle curiose questioni che suscita il Barbi discorre con molta diligenza ed acutezza]. CARLO MINAti. Lettera inedita di m. Angelo Poliziano. Pisa, tip. Nistri (80 picc. , pp. 16 ; ed. di 50 es. ) . [Fra i mss. di Pietro Bucelli, erudito cultore di studî etruschi, il prof. Minati rinvenne copia della lettera del Poliziano che qui pubblica , tolta dall'autografo , posseduto dal Bucelli stesso ed ora scomparso. Sebbene di tenue importanza, come quella che, diretta dal Poliziano il 1 marzo 1487 a suo cognato , Bernardino Tarugi da Montepulciano, non parla se non di domestiche faccende, pure riescirà grata agli studiosi, come quella che viene ad accrescere il più che esiguo epistolario dell'insigne umanista]. MARIO MENGHINI. - - - - Un capitolo sulla virtù delle frutta. Firenze, tip. Carnesecchi (8º, pp. 12 ; ed. di 50 es.) . [ È cavato da un cod . Casanatense (D. IV. 16), dove porta il titolo: Operetta per presentare le fructe a uno Conuito, e consta di 44 terzine. L'A. distribuisce le « trenta » qualità di frutta che enumera , nelle consuete tre classi , tenendosi assai vicino a Pietro da Siena, dal capitolo del quale anzi, come desunse, a nostro avviso almeno, l'ispirazione, così tolse a volte anche a prestito de' versi. Cfr. Giorn. , XIX, 55 sgg.]. - DIOMEDE BONAMICI e SALOMONE MORPURGO. El governo de famiglia e le Malitie delle donne. Stampato novamente a Firenze l'anno del M.D. CCC. LXXXXIII . a dì XXJ di gennaio. Prato, tip. Giacchetti, (8° , pp. 58). [Quest'elegante opuscolo , che non sappiam troppo perchè , se fu impresso a Prato , si dica « stampato in Firenze » , offre la ristampa di due poemi , di cui si hanno parecchie rare impressioni del sec. XVI. El governo de famiglia, benchè intitolato in esse « storia nova », è all'opposto vecchissima scrittura, come quello che è parafrasi rimata della nota epistola latina , scritta nel sec. XII o XIII da un Bernardo ad un Raimondo « de << Castro Ambrosii » e intitolata de cura familiari. Nel Bernardo « senio << confectus » che la scrisse , vide il medio evo il santo abbate de Chiaravalle ; taluni eruditi moderni invece Bernardo Silvestre ; opinione questa che L 480 CRONACA a torto il Morpurgo dà per fondata , quando non riposa in realtà sopra alcuna solida base. Naturalmente l'interesse del poema noiosamente moralizzante è scarso; nè maggiore può dirsi quello del secondo, Le Malitie delle donne, dove con poco garbo e senz' arguzia si ripetono le tradizionali accuse contro il sesso femminile]. - - CONTE AGOSTINI VENEROSI DELLA SETA. - Sulla casa ove nacque Galileo Galilei, due documenti inediti. Pisa, tip. Mariotti (8°, pp. 18 ; ed. di 100 es.) . [ Segnaliamo ai cultori degli studî galileiani questo pregevole opuscolo, in cui coll'aiuto di un documento rinvenuto nel proprio domestico archivio l'Agostini combatte la vulgata opinione, che trova conferma persino in un marmoreo ricordo , secondo la quale Galileo sarebbe nato in quella località di Pisa, che oggi ancora si designa col nome di Fortezza. Risulta invece dai libri di Giuseppe Bocca, pisano , che costui ai 9 di luglio 1564, vale a dire sei mesi innanzi la nascita di Galileo, aveva dato a pigione a Vincenzo Galilei da Firenze « maestro di musica » per pregio di scudi 12 d'oro l'anno, una sua casa posta nel Chiasso de' Mercanti. Galileo dunque in questa casa dovrebbe aver veduto la luce. Ma a questa , che par legittima conclusione, osta la fede battesimale di Galileo stesso, i cui dati esigerebbero nuovi studi]. IGINO SUPINO. - Lettere inedite di artisti pisani. -Pisa, tip. Nistri (8°, pp. 22; ed. di 100 es.). [ Da archivî di Pisa il S. trae alla luce undici lettere di artisti, che ne' sec. XVI e XVII abbellirono de' loro lavori quella città ; e cioè Francesco Moschino e G. B. Lorenzi, scultori, ed i pittori Jacopo di Cosimo di Mariano e Jacopo Ligozzi] . CHARLES DÉJOB. - Supplément à un Essai de bibliographie pour servir à l'histoire de l'influence française en Italie de 1796 à 1814. - Tours, impr. Chauvin (8º picc. , pp. 36) . [Come complemento al proprio libro : Madame de Staël et l'Italie (cfr. Giorn. , XVI, 462) il prof. Déjob produsse una ricca bibliografia di lavori concernenti i rapporti della Francia coll'Italia nel periodo della Rivoluzione e del primo Impero. Nuove ricerche e nuove pubblicazioni hanno ora offerto occasione al letterato francese , così buon amico della patria nostra, di impinguare la sua bibliografia con questo supplemento, che è pur desso diviso in tre sezioni : Storia generale d'Italia Storia particolare di essa Memorie, corrispondenze, biografie]. «< - - - - TOMMASO CASINI. Due lettere inedite di Giulio Perticari a Costanza Monti. Pesaro, stab. Federici (8º, pp. 12). [ « Appariscono così l'editore scritte nel febbraio o marzo del 1812 » e non hanno « molta importanza << né pur per la storia di un matrimonio per piú ragioni famoso ». In compenso vi ritroviamo sparso a larghe mani il solito pathos perticariano] . ACHILLE NERI. · Lettere inedite di Gherardo De Rossi. Genova, tip. del R. Ist. Sordo-muti (4° , pp. 14) . [ Son tre, dirette ad Angelo Ricci, e furono tratte dagli autografi conservati presso l'Universitaria di Genova. Il De R., archeologo, erudito ed insieme poeta, discorre in esse del Cadmo del Bagnoli , di certa sua Novella dei Frati Camaldolesi , edita a Venezia dal Gamba, degli Idilli del Gargallo, ecc. ]. - - UGO ANTONIO AMICO. Autobiografia di Silvestro Centofanti. -Firenze, Barbèra (8º gr. , pp. 8). [ Riproduzione accurata in fototipia dell'autografo, CRONACA 481 posseduto dall'Amico. Il C. la scrisse dopo il 1860 e vi aggiunse un elenco de' proprî lavori così editi come inediti] . SALVATORE SALOMONE-MARINO. -Lettere inedite di illustri italiani del sec. XIX. Palermo, tip. Vena (8° , pp. 32 ; ed. di 100 es. ) . [Sono in tutto vent'una; e se non tutte di uguale importanza e valore, pur non senza interesse. Ne sono autori N. Palmeri , A. Manzoni , M. D'Azeglio , C. Balbo, M. Amari, R. Settimo, Fr. Puccinotti, S. Centofanti, A. Vannucci, G. Manno, N. Tommaseo, T. Mamiani, P. Emiliani-Giudici, G. Bianchetti] . GIUSEPPE PITRÈ. - Dubbi e Indovinelli popolari siciliani. ― Palermo, tip. del Giornale di Sicilia (4º, pp. 20 ; ed. di 50 es. ). [ Fra i canti tradizionali ancora inediti, e son pochi ormai, che corrono in mezzo al popolo siciliano, il P. ha scelto per comporre la presente raccoltina sei dubbi o sfide, di cui la proposta come la risposta è contenuta in un'ottava, e quindici indovinelli ] . - ALESSANDRO LISINI. Nuovo documento della Pia de' Tolomei, figlia di Buonincontro Guastalloni. Siena, tip. Lazzari, 1893; per nozze Bandini-Ciampoli [Ricorderanno i nostri assidui che dieci anni or sono il compianto Luciano Banchi pubblicava in questo Giornale (1 , 523) una lettera, in cui negava, sulla base di documenti senesi, che Pia de' Guastalloni, moglie e poi vedova di Baldo Tolomei , potesse essere la Pia del Purgat. , C. V, e prometteva, quando altre ricerche fruttuose si fossero compiute, un libro sull'argomento. Ma il dotto uomo morì, ed il libro non venne. Oggi il Lisini pubblica il documento da lui medesimo scoperto, un atto pubblico, cioè, da cui risulta che Pia Guastalloni ne' Tolomei era ancor viva il 21 agosto 1318, e non può quindi identificarsi con la Pia di Dante. Resta ora a inda gare chi questa Pia veramente fosse , e speriamo che il prezioso Archivio di Siena, abilmente frugato, risponda ancora a questa domanda] . LUIGI CISORIO. - Sonetti inediti di Simone Serdini da Siena. ― Pontedera, Ristori, 1893 ; per nozze Morandi-Cambi [ Nove di numero, estratti dal notissimo codice Laur. Ann. 122, col riscontro di altri testi a penna]. GIACOMO BONTEMPI. Poesie in dialetto Valmaggino. - Bellinzona, 1892 ; ediz. di 96 esemplari per nozze Salvioni-Taveggia [ Son quattro poesie popo- lari raccolte in Cavergno, del Canton Ticino , notevolissime specialmente a motivo del dialetto. Il vernacolo Valmaggino fu già considerato dal profes- sore Salvioni. La prima di queste poesie riproduce l'antico motivo popolare del contrasto fra la madre e la figliuola bramosa di marito]. FRANCESCO BOMBARDELLA. nezia. - - Passaggio dell' Elettore di Colonia per VeVenezia, Visentini, 1893 ; per nozze Reali-Canossa e Reali-Luche- schi [ Pubblicazione veramente principesca in foglio di carta a mano. Vi si mette in luce, da un cod. del Museo Correr, col confronto di documenti dell'Archivio di Stato in Venezia, la relazione di Pietro Gradenigo delle feste che si fecero nel 1755 nella città delle lagune, allorchè vi soggiornò di passaggio , diretto a Roma , il duca Clemente Augusto di Baviera, elettore ed arcivescovo di Colonia, fratello dell'imperatore Carlo VII. La storia del costume nel secolo scorso potrà avvantaggiarsene , ed ancor più la storia dei ricevimenti solenni in Venezia , al qual proposito vale la pena di rilevare che E. Simonsfeld sta preparando una speciale monografia sui passaggi di principi bavaresi per lo stato veneto. Ornano la presente pubblicazione due splendide fototipie, delle quali l'una è il ritratto dell'Elettore, e l'altra è la riproduzione d'un quadro ora esistente nel Museo Correr, raffigurante la cena data all'Elettore nel palazzo Nani alla Giudecca. Sono tutti noti i nomi dei 123 convitati che vi figurano] . 482 CRONACA - ANNIBALE TENNERONI. Sonetti inediti di ser Marino Ceccoli perugino. Senza note tipografiche, ma 1893, per nozze Paparini-Balestra II due so- netti , umbri nella dizione, sono estratti dal cod. Barberiniano XLV, 130 e meritano nota per la gentilezza del concetto e per la fluidità della verseggiatura. Appartengono alla prima metà del sec. XIV , chè in quel tempo fiori il poeta Marino Ceccoli, che disputò d'amore in rima con Cino da Pistoia]. GIOVANNI ZANNONI. [Canzone di Angelo Galli in lode di Costanza Varano]. Roma, tip. italiana, 1893; ediz. di 150 esemplari per nozze d'argento Pierantoni-Mancini [Quella gran gentildonna che fu moglie di Ales- sandro Sforza signore di Pesaro (non di Perugia, come per un trascorso di penna stampo lo Z.) meritava davvero meno enfasi retorica e più vivo e sincero sentimento d'ammirazione, di quelli profusi nella lunga canzone del Galli, qui pubblicata di sul cod. Vatic. Urbin. 699, che serba tutto il canzoniere di quel medesimo gentiluomo d'Urbino. Tuttavia, anche così com'è, co' suoi moltissimi luoghi comuni, la canzone è bene sia stata messa in luce, se non altro come un nuovo o non insignificante prodotto della lirica cortigianesca del nostro sec. XV]. - MARIO MANDALARI. Saggio di un Canzoniere anonimo della biblioteca Alessandrina di Roma. Roma, tip. italiana , 1893 ; per nozze d'argento Pierantoni-Mancini [Ricorderanno i lettori nostri come in questo Giornale, XX, 27, piacevoleggiasse, or non è molto, il Flamini su d'un « membranaceo << dell'Alessandrina, che nel seno capace racchiude gl'infiniti encomî ed omaggi « in rima d'uno sconosciuto..... alla beltà d'una Elisabetta Cola , milanese ». Di questo canzoniere anonimo (n° 174 dell'Alessandrina), gonfia e annacquata imitazione del Petrarca, pubblica qui il M. la tavola, la dedicatoria in prosa, e quattro sonetti per saggio; e premette alcune considerazioni sul ms. , sul valore di quei versi, sull'autore ignoto. Che questi fosse del mezzodi è abbastanza chiaramente espresso da lui medesimo, che si afferma « mosso da <<< le extreme parte del felice paese de Italia ». I caratteri linguistici , che l'illustratore ha creduto di far valere, non ci sembrano concludenti , nè persuaderà tutti l'idea del M. che quel fecondo artefice di versi amorosi vivesse << a' principi o verso la metà del sec. XVI » sol perchè egli rammenta le armi da fuoco. Probabilmente fiorì negli ultimi anni del sec. XV, come sembra vogliano anche ragioni paleografiche, nè a ciò osta, dopo le ultime indagini storiche sull'uso della polvere delle armi a polvere, l'accenno al fucile ed alle artigliarie]. GIACINTO ROMANO. - L'espressione proverbiale di Vespro Siciliano. Pavia, Fusi, 1893 ; per nozze Salvioni-Taveggia [ Contro la congettura del- l'Amari sostiene validamente il R. che l'espressione proverbiale alludente al celebre vespro è di molto anteriore alla discesa di Carlo VIII, e che proba- bilmente essa « dovette sorgere a poca distanza dall'avvenimento del 1282, << sul declinare del sec. XIII , sotto l'immediata impressione dell'eccidio che << insanguinò Palermo e le altre città di Sicilia ». A riprova, estrae dall'Archivio Gonzaga una lettera che B. Bonatto scriveva da Roma il 22 luglio 1461 al marchese Lodovico , ove riferendo de' tumulti romani quell'oratore esce a dire: « Dubito che uno di non si faza il vespero de Ciciliani ». Nella Rass. bibl. d. lett. italiana, I, 54, fu rammentato il « sanguinoso vespro si- « ciliano » di un sonetto di Franc. Malecarni (Flamini, Lirica tosc. del Rinascimento, p. 468), che è senza dubbio anteriore di qualche decennio alla lettera del Bonatto ; ma è d'uopo avvertire che in quel sonetto si allude precisamente alla strage del 1282, e non è punto usata la frase « in senso pro- << verbiale invece di eccidio popolare », come nel documento mantovano. Reputiamo, del resto, noi pure col R., che l'espressione sia stata generalizzata assai per tempo, e forse in avvenire se ne troveranno le prove]. LUIGI MORISENGO, Gerente responsabile. Torino - Tip. VINCENZO Bona. Bayerische Staatsbibliothek München INDICE DELLE MATERIE DEL XXI VOLUME MANCINI G., Alcune lettere di Lorenzo Valla BOLOGNA P. , La stamperia fiorentina del Monastero di S. Jacopo di Ripoli e le sue edizioni (continuazione e fine) IMPALLOMENI N. , Il « Polinice » dell' Alfieri LUZIO-RENIER, Niccolò da Correggio ( in continuazione) MALAGOLI G. , Carlo Cantoni umorista e favoleggiatore del sec. XVIII • Pag. 1 49 70 205 265 300 MESTICA G. , Il « Canzoniere » del Petrarca nel codice originale a riscontro col ms. del Bembo e con l'edizione aldina del 1501 • VARIETÀ FLAMINI F. , Il luogo di nascita di madonna Laura e la topografia del Canzo- niere petrarchesco CIAN V., Di Giovanni Muzzarelli e d'una sua operetta inedita • RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 335 358 BERTOLDI A. CROCE B. ROSSI V. NOVATI F. - - - - • GIOSUE CARDUCCI, Storia del « Giorno » di G. Parini . G. A. CESAREO, Poesie e lettere edite ed inedite di Salvator Rosa GIUSEPPE CASTELLI, La vita e le opere di Cecco d'Ascoli . HENRY COCHIN , Un ami de Pétrarque. Lettres de Francesco Nelli à Pétrarque . 117 127 • 385 • 400 HAUVETTE H. - OSCAR HECKER, Die Berliner Decameron- Handschrift und ihr Verhältniss zum Codice Mannelli • 407 - FLAMINI F. - GIUSEPPE LESCA, Giovannantonio Campano detto l'Episcopus Aprutinus CIAN V. 411 BACCI 0. Canti, ed. E. CASTAGNOLA. - al Leopardi. - G. A. CESAREO , Nuove ricerche su la vita e le opere di Giacomo Leopardi · FRANCESCO NITTI, Leone X e la sua politica secondo documenti e carteggi GIACOMO LEOPARDI , 1 Canti, ed. A. STRAOCALI. G. LEOPARDI , I C. TRIVERO, Saggio di commento estetico 416 - 422 484 INDICE DELLE MATERIE - - BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO - - E. GORRA, Studi di critica letteraria , p. 151. - M. GOLDSTAUB und R. WENDRINER, Ein tosco-venezianischer Bestiarius herausgegeben und erläutert, p. 155. G. SERCAMBI , Le croniche, ed. S. BONGI , p. 157. G. ZANNONI, Strambotti inediti del secolo XV, p. 161. P. FORTINI , Novelle, vol . II , p. 168. A. CENTELLI, Caterina Cornaro e il suo regno, p. 164. - E. KOEPPEL, Studien zur Geschichte der italienischen Novells in der englischen Litteratur des sechzehnten Jahrhunderts, p . 167.— L. von SCHEFFLER, Michelangelo, p. 169. C. MERKEL, Adelaide di Savoia Elettrice di Baviera , p . 173. G. CLARETTA. La regina Cristina di Svezia in Italia , p. 176. F. COLAGROSSO, Studi di letteratura italiana, p. 178. BERTANZA-LAZZARINI, Il dialetto veneziano fino alla morte di Dante Alighieri, p. 180. C. JORET, La Rose dans l'antiquité et au moyen âge; histoire , légende et symbolisme, p. 435. G. COZZA-LUZI , Sul codice del breviario di Francesco Petrarca acquistato da S. S. Leone X111 alla Biblioteca Vaticana, p. 441. — V. CATENACCI, L'Amorosa Visione del Boccaccio, p . 448. L. BLADENE , Cortesie da tavola in latino e provenzale, p. 446. M. MENGHINI, Tomaso Stigliani, p. 448. - - - 1 COMUNICAZIONI ED APPUNTI N. TAMASSIA, Due note manzoniane, p. 182. p. 451. 1 A. RESTORI, G. Pateclo Una nota dantesca , p. 456. nuele I, p. 457. · F. NOVATI, Francesco d'Amaretto Mannelli, P. Amato A. del Palais, p. 454. N. TAMASSIA, G. RUA , Sonetti politici del cav. Marino a Carlo Ema- - CRONACA . Pag. 188, 462 Pubblicazioni dello stesso Editore. MANUALE DI BIBLIOTECONOMIA DEL Dott. ARNIM GRÄSEL della Biblioteca Universitaria di Berlino. TRADUZIONE DEL Dott. ARNALDO CAPRA Sottobibliotecario nella " Nazionale Centrale ,, di Firenze. Un vol. in-8° di pag. XVI-404 con 47 figure e 13 tav. L. 10. INDICE: INTRODUZIONE Che cosa s'intende per biblioteca. Della dottrina delle biblioteche in generale. Della biblioteconomia in particolare. Scritti di biblioteconomia. Parte prima: Dell'edifizio, degli impiegati e della dotazione della biblioteca. 1. Dell'edifizio della biblioteca Requisiti necessari in un edifizio. Disposizione dei locali di una biblioteca. Uno sguardo pratico. Dell'arredamento dei locali della biblioteca. Conservazione ed ampliamento del locale della biblioteca. 2. Degli impiegati delle biblioteche - Del bibliotecario in generale. Dei diversi impiegati della biblioteca in particolare. 3. Della dotazione della biblioteca. · · Parte seconda: Della suppellettile letteraria. 4. Dell'ordinamento della suppellettile letteraria Del modo di formare la suppellettile letteraria. Della registrazione e descrizione della suppellettile letteraria. Della collocazione e della numerazione della suppellettile letteraria . Della conservazione della suppellettile letteraria. 5. Dell'incremento della suppellettile letteraria Dell'incremento in generale e dei varî mezzi di procurarlo. Del registro d'ingresso. Della legatura dei libri. Della fusione delle nuove accessioni colla suppellettile letteraria esistente. 6. Dell'uso della suppellettile letteraria Dell'uso in generale e delle norme che lo regolano. Della lettura e dello studio dei libri nel locale della biblioteca. Della lettura e dello studio dei libri fuori del locale della biblioteca. Note ed Indice alfabetico. TORINO - ERMANNO LOESCHER, EDITORE ROMA-FIRENZE Pubblicazione dello stesso Editore. ARTURO GRAF MITI , LEGGENDE E SUPERSTIZIONI DEL MEDIO EVO VOLUME I. IL MITO DEL PARADISO TERRESTRE 1 IL RIPOSO DEI DANNATI LA CREDENZA NELLA FATALITÀ Un volume in-8° di pagine XXIII- 312 VOLUME II. LA LEGGENDA DI UN PONTEFICE UN MONTE DI PILATO IN ITALIA 66 SAN GIULIANO NEL IL RIFIUTO DI CELESTINO V ARTÙ NELL'ETNA Prezzo Lire 5. DEMONOLOGIA DI DANTE FU SUPERSTIZIOSO IL BOCCACCIO ? DECAMERONE E ALTROVE 1 39 LA LEGGENDA DI UN FILOSOFO UN MITO GEOGRAFICO Un volume in- 8° di pagine 404 Prezzo Lire 5. TORINO ERMANNO LOESCHER, EDITORE ROMA-FIRENZE W. Parsch Peiting /Obb.
記載日
2025年3月1日